Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27282 del 12/03/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 27282 Anno 2015
Presidente: GIORDANO UMBERTO
Relatore: MAGI RAFFAELLO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BEN AMMAR KHALED N. IL 23/10/1968
METTI MICHELE N. IL 04/12/1969
avverso la sentenza n. 4267/2013 GIP TRIBUNALE di VERONA, del
16/04/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. RAFFAELLO MAGI;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott. E .
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Data Udienza: 12/03/2015

IN FATTO E IN DIRITTO

1. In data 16 aprile 2014 il GIP del Tribunale di Verona ha emesso sentenza con
cui applicava – su richiesta delle parti – a Ben Ammar Khaled la pena di anni tre e
mesi quattro di reclusione e a Metti Michele la pena medesima, in riferimento alle
imputazioni rispettivamente contestate (art. 12 d.lgs. n.286 del 1998 ed altro).
In sentenza si dà atto della presenza in udienza di entrambi gli imputati che
hanno personalmente formulato la richiesta di applicazione della pena, ottenendo

Il giudice, pertanto, esprimeva in motivazione le ragioni di inapplicabilità della
previsione di legge dì cui all’art. 129 cod.proc.pen. (a pag. 23 della decisione) e,
ritenendo congrua la pena oggetto di accordo, emetteva il dispositivo di
sentenza.

2. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione – con personale
sottoscrizione – Metti Michele e Ben Ammar Khaled.
Al primo motivo, comune ad entrambi i ricorsi, si deduce violazione di legge e si
afferma che essendo stata fissata l’udienza per la celebrazione del giudizio
abbreviato non poteva essere accolta una successiva istanza di applicazione della
pena su richiesta delle parti.
Le istanze andavano in particolare ritenute intempestive.
Al secondo motivo il ricorrente Metti deduce vizio dì motivazione della sentenza.
Il ricorrente ritiene che il giudice avrebbe dovuto emettere sentenza di
assoluzione ai sensi dell’art. 129 cod.proc.pen., non essendo sufficiente il
richiamo contenuto in sentenza alle emergenze investigative, contrastate da altri
elementi di fatto, che enumera e valorizza nel ricorso.
Al secondo motivo il ricorrente Ben Ammar deduce vizio di motivazione della
sentenza.
Il ricorrente ritiene che il giudice avrebbe dovuto emettere sentenza di
assoluzione ai sensi dell’art. 129 cod.proc.pen., non essendo sufficiente il
richiamo contenuto in sentenza alle emergenze investigative, contrastate da altri
elementi di fatto, che enumera e valorizza nel ricorso.

3. I ricorsi sono entrambi inammissibili per manifesta infondatezza, per le ragioni
che seguono.
3.1 Quanto al primo motivo, se è vero che l’instaurazione del rito abbreviato
comporta una scelta ritenuta non reversibile, la successiva proposta di
applicazione della pena – proveniente dall’imputato – su cui si sia registrato il
consenso del pubblico ministero e che abbia dato luogo a sentenza non può

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,

il consenso del pubblico ministero.

determinare una successiva invalidazione dell’accordo tra le parti su deduzione
del medesimo imputato. E’ stato infatti ritenuto, con orientamento che questo
Collegio condivide, che «una volta che l’imputato abbia chiesto ed ottenuto
l’applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., egli non può più dolersi
dell’irrituale trasformazione del rito abbreviato in patteggiamento, trattandosi di
una nullità relativa dell’accordo che non può essere dedotta dalla parte che vi ha
dato o ha concorso a darvi causa, senza subirne alcun concreto ed attuale
pregiudizio» (Sez. II n. 17384 del 2011, rv 250074).

di motivazione – il Collegio premette che l’applicazione della pena su richiesta
delle parti è un meccanismo processuale in virtù del quale l’imputato ed il
pubblico ministero si accordano sulla qualificazione giuridica della condotta
contestata, sulla concorrenza di circostanze, sulla comparazione fra le stesse e
sull’entità della pena.
Da parte sua il giudice ha il potere-dovere di controllare l’esattezza dei
menzionati aspetti giuridici e la congruità della pena richiesta e di applicarla,
dopo aver accertato che non emerga in modo immediatamente percepibile (e
diversamente da quanto prospettato dalle parti) una delle cause di non punibilità
previste dall’art. 129 c.p.p.
Ne consegue che – una volta ottenuta l’applicazione di una determinata pena ex
art. 444 c.p.p. – l’imputato non può rimettere in discussione profili oggettivi o
soggettivi della fattispecie, perché essi sono coperti dal patteggiamento, non
essendo stato manifestato – in sede di merito- dubbio alcuno sulla valenza degli
elementi ricostruttivi, nè essendo stata proposta una lettura alternativa delle
risultanze di fatto .
Tanto premesso, il Collegio osserva che i motivi di ricorso appaiono privi di
specificità e, comunque manifestamente infondati, atteso che il giudice,
nell’applicare la pena concordata, si è, da un lato, adeguato a quanto contenuto
nell’ accordo intervenuto fra le parti e, dall’altro, ha escluso la sussistenza dei
presupposti di cui all’art.129 c.p.p., con motivazione sintetica ma aderente alla
natura dell’istituto .
La motivazione, nel far riferimento all’intervenuto accordo e alla valenza
dimostrativa degli atti di indagine acquisiti ha espresso, in modo sintetico ma
conforme alla legge, il risultato della valutazione operata.
Tale motivazione, avuto riguardo alla speciale natura dell’accertamento in
sede di applicazione della pena su richiesta delle parti, appare pienamente
adeguata ai parametri richiesti per tale genere di decisioni, secondo la costante
giurisprudenza di legittimità (si vedano tra le altre, Cass. SS.UU. 27 marzo 1992,

3

3.2 Quanto al secondo motivo – riguardante per entrambi i ricorsi il preteso vizio

Di Benedetto; SS.UU. 27 settembre 1995, Serafino; SS.UU. 25 novembre 1998,
Messina).
Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi consegue di diritto la
condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di
elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento a favore della
Cassa delle ammende di sanzione pecuniaria, che pare congruo determinare in

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e al versamento di euro 1.000,00 ciascuno a favore della cassa delle
ammende.
Così deciso il 12 marzo 2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente

euro mille, ciascuno, ai sensi dell’art. 616 c.p.p.

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