Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27259 del 04/06/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 27259 Anno 2015
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: BONI MONICA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
ROMA
nei confronti di:
HOWLADER SUMON N. IL 01/01/1980
avverso la sentenza n. 3112/2012 GIUDICE DI PACE di ROMA, del
06/12/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/06/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MONICA BONI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
CAALe.jeiki
che ha concluso per,P tu Ltu, (?).
tettit(10.

Data Udienza: 04/06/2015

Ritenuto in fatto

1.Con sentenza resa il 6 dicembre 2012 il Giudice di Pace di Roma mandava assolto
l’imputato Sumon Howlader dal reato previsto dall’art. 10-bis D.Lgs. nr. 286/1998 perché il
fatto non costituisce reato in forza della Direttiva europea nr. 115/2008 in mancanza della
prova del rimpatrio volontario previsto dall’art. 7.
2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso il Procuratore Generale presso la Corte di
Appello di Roma, il quale ne ha chiesto l’annullamento per violazione di legge e manifesta

soggettivo del reato, peraltro in contrasto con lo sviluppo argomentativo della parte motiva,
senza considerare che la fattispecie contestata all’imputato intende sanzionare la condotta
dello straniero che “fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle
disposizioni del presente testo unico”, mentre la Direttiva CE 115/2008 introduce “norme e
procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui
soggiorno è irregolare”; pertanto, la normativa italiana che punisce l’ingresso illegale non si
pone in contrasto con la predetta Direttiva anche perché la possibilità di espulsione
amministrativa conseguente ad una condanna intervenuta per violazione dell’art. 10-bis
D.Lgs. 286/1998 è estranea alla sanzione penale, è meramente eventuale e comunque
rientrerebbe nella previsione dell’art. 2 comma 2 lett. b) della Direttiva, secondo la quale la
stessa è suscettibile di deroga nei confronti di cittadini di Paesi terzi “sottoposti a rimpatrio
come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità della
legislazione nazionale”; del resto la piena compatibilità dell’ art. 10-bis D.L vo 286/1998,
rispetto alla “direttiva rimpatri” è stata peraltro confermata dalla Corte Costituzionale con la
sentenza 250/2010.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato e merita dunque accoglimento.
1.La sentenza impugnata ha assolto l’imputato per carenza dell’elemento soggettivo del
contestato reato dopo avere riscontrato il suo ingresso illegale nel territorio nazionale in
assenza di un titolo legittimante.
1.1 E’ noto che la norma di cui all’art. 10-bis D.Lgs. n. 286/98, come aggiunto dall’art.
1, comma 16, lett. a), della I. 15 luglio 2009 n. 94, punisce con l’ammenda da 5.000 a 10.000
euro, salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso o si trattiene
nel territorio dello Stato illegalmente, ossia in assenza di un valido titolo legittimante,
situazione ricorrente nel caso degli odierni imputati, per quanto accertato nella stessa
sentenza impugnata.
1.2 Trattasi di ipotesi di reato contravvenzionale che non risulta coinvolta dagli effetti
della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea El Dridi del 28 aprile 2011, che ha
riguardato il diverso delitto di cui all’art. 14, comma 5-ter e 5-quater dello stesso testo
legislativo e la cui compatibilità con la Direttiva CEE 16/12/2008 n. 115, cd. Direttiv

illogicità della motivazione per avere il primo giudice ritenuto insussistente l’elemento

rimpatri, è stata già più volte riconosciuta dalla stessa Corte sovranazionale (sez. 1, sent.
6/12/2012, Sagor, causa C-430/11; sez. 3, ord. 21/3/2013, Mbaye, causa C-522/11), mentre
altri utili riferimenti interpretativi sono stati offerti anche dalla pronuncia della stessa Corte
nella Grande Chambre, sent. n. 329 del 6/12/2011, Achughbabian, causa C-329/11, che ha
valutato la norma dell’ordinamento penale francese in materia di ingresso illegale di stranieri:
con dette pronunce, da un lato la Corte europea ha escluso che la disciplina comunitaria abbia
lo scopo di armonizzare in modo completo la legislazione nazionale dei singoli Stati aderenti
all’Unione sul tema dell’immigrazione irregolare e ha affermato come la stessa non vieti la
possibilità che un ordinamento, -ad esempio quello italiano ed in particolare la disposizione di
cui all’art. 10-bis in esame-, qualifichi la permanenza irregolare dello straniero quale condotta

pecuniario, dall’altro ha ravvisato un concreto ostacolo all’attuazione della direttiva nei soli
casi in cui il trattamento punitivo penale impedisca l’applicazione delle norme e delle
procedure comuni sul rimpatrio degli stranieri, rendendole inefficaci o sia contrario ai diritti
fondamentali della persona. Tale evenienza nel primo caso potrebbe accadere se lo Stato
comminasse la pena della detenzione da espiarsi nel corso della procedura di rimpatrio o
comunque prima del suo inizio, venendola ad impedire materialmente; ciò però non si verifica
alla stregua delle disposizioni del comma 5 dell’art. 10-bis, il quale assegna preminenza
all’esecuzione in via amministrativa dell’espulsione dello straniero irregolare, tanto da imporre
al giudice penale di pronunciare sentenza di proscioglimento dell’imputato se già espulso.
1.3 Va poi rilevato che i dubbi espressi nella sentenza impugnata hanno parimenti
trovato soluzione in senso contrario a quanto in essa sostenuto: in ordine alla possibilità che
la sanzione pecuniaria inflitta al condannato sia sostituita con la misura dell’espulsione, se non
sussistano le condizioni ostative di cui all’art. 14 co. 1 d.lgs. 286/1998 che impediscono
l’allontanamento immediato mediante accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza
pubblica, la Corte ha rilevato come in linea generale la direttiva rimpatri non impedisca al
giudice penale di operare la sostituzione nel contesto delle decisioni assunte nel processo
penale, ma in quel caso dovrà osservare le previsioni dell’art. 7 della direttiva, le quali
prevedono la concessione allo straniero di un termine per l’esodo volontario non superiore a
giorni trenta, con le uniche eccezioni, disciplinate dal comma 4 della norma stessa, della
ricorrenza del pericolo di fuga dello straniero, del rigetto della domanda di soggiorno regolare
per manifesta infondatezza o per la sua natura fraudolenta, oppure se l’interessato
rappresenti un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale: in
tali casi però spetterà al giudice di pace condurre l’accertamento in concreto della situazione
individuale dell’imputato, onde riscontrare la reale sussistenza delle condizioni per l’immediata
espulsione, che in ogni caso dovrà essere accompagnata dall’indicazione della protrazione
temporale del divieto di reingresso nel paese, di durata non superiore a cinque anni, secondo
quanto stabilito dalla direttiva europea.
2. Va poi ricordato anche il recente intervento della Corte Costituzione con la sentenza
n. 250 del 9 giugno 2010, la quale ha dichiarato infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 10-bis dig. 25 luglio 1998 n. 286, aggiunto dall’art. 1, comma 16, lett.
a), I. 15 luglio 2009 n. 94, impugnato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., offrendo rileva
spunti interpretativi della fattispecie.

-2—

illecita, integrante una fattispecie di reato, punita con l’irrogazione di sanzioni penali di tipo

2.1 In particolare, la Consulta ha escluso che la scelta legislativa di configurare come
reato la condotta di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, nonostante il
perseguimento della stessa finalità cui è preordinata l’espulsione in via amministrativa, realizzi
un’indebita duplicazione di procedimenti e di apparati sanzionatori, uno operante sul piano
penale, l’altro amministrativo, in quanto, pur integrando lo stesso comportamento materiale
violazione, sia del precetto penale, che delle norme che disciplinano i flussi migratori di
cittadini stranieri, la ragionevolezza della previsione resta salvaguardata dalla priorità
assegnata al procedimento di espulsione amministrativa, deducibile dalla complessiva
disciplina introdotta, ed in particolare dal fatto che: in deroga al generale disposto dell’art. 13,
comma 3, d.Ig. n. 286 del 1998, lo straniero sottoposto a procedimento penale per il reato in

acquisita notizia dell’esecuzione dell’espulsione o del respingimento ai sensi dell’art. 10,
comma 2, dello stesso d.Ig., il giudice deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere e,
in caso di condanna, la pena dell’ammenda, non oblabile, può essere sostituita dal giudice con
la misura dell’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni. Al contempo la disciplina
penale parte dalla consapevolezza dell’oggettiva difficoltà di dare attuazione all’espulsione in
via amministrativa e quindi della sua scarsa efficacia pratica, per cui sia la scelta
dell’incriminazione del fatto e la sottesa comparazione tra costi e benefici connessi
all’introduzione della nuova figura criminosa appartengono alla sfera delle scelte discrezionali
del legislatore, ispirate da ragioni di politica criminale e giudiziaria, non sindacabili nel giudizio
di costituzionalità.
2.2 La Corte Costituzionale con la medesima pronuncia ha anche escluso il contrasto tra
la norma in esame e l’art. 2 Cost. sotto il profilo della possibile lesione dei diritti inviolabili
della persona e del principio costituzionale di solidarietà; ha precisato che i valori di solidarietà
ed assistenza non possono essere affermati e fatti valere, assegnandovi preminenza assoluta,
ma devono essere tradotti nell’ordinamento mediante il corretto bilanciamento degli interessi
coinvolti, da attuarsi in forme che il legislatore può scegliere nella sua discrezionalità. In tal
senso ha escluso la ravvisabilità sotto alcun profilo della violazione dei suddetti principi nella
disciplina che regolamenta e limita i flussi migratori degli stranieri, tenuto conto: del
differente trattamento assicurato a quanti si presentino perché rifugiati o aventi diritto ad
asilo politico rispetto ai “migranti economici”; della salvaguardia della posizione del rifugiato,
la cui domanda per il riconoscimento del relativo stato determina la sospensione del
procedimento penale intentato ex art. 10-bis e, in caso di accoglimento, il proscioglimento
dell’imputato, esito analogo a quello conseguente all’eventuale rilascio del permesso di
soggiorno nelle ipotesi di cui all’art. 5, comma 6, d.ig. n. 286 del 1998, ossia quando, pur in
presenza delle condizioni ostative ivi indicate, sussistano “seri motivi [. .] di carattere
umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” ; della
disciplina dei divieti di espulsione e di respingimento e del ricongiungimento familiare ai sensi
degli artt. 19 e 29 d.Ig. n. 286 del 1998.
2.3 Per quanto qui rileva, la Consulta ha mostrato di voler disattendere le censure dei
giudici remittenti, i quali avevano contestato la scelta legislativa di penalizzazione di condotte,
poste in essere da cittadini stranieri, nella prospettiva di ottenerne, tramite la declaratoria di
illegittimità costituzionale, l’espunzione dall’ordinamento penale; al riguardo è stato ribadito il

questione può essere espulso in via amministrativa senza il nulla osta dell’autorità giudiziaria;

principio, consolidato nella giurisprudenza costituzionale, secondo il quale l’incriminazione
delle condotte intesa quale individuazione di ciò che va punito e delle modalità e delle forme
del trattamento sanzionatorio costituiscono patrimonio esclusivo del potere legislativo,
soggetto al sindacato di costituzionalità soltanto a fronte di scelte “arbitrarie o irragionevoli”
(C.C. n. 47/2010; 41/2009 e 23/2009). Si è quindi escluso che la norma scrutinata punisca la
mera condizione personale e sociale dell’individuo in sè, ossia la nazionalità straniera e
l’irregolarità dell’ingresso o della permanenza nello Stato sul presupposto della presunzione
della sua pericolosità sociale, avendo ad oggetto piuttosto il comportamento materiale,
trasgressivo di specifiche norme vigenti dirette a regolare i flussi migratori nel territorio
nazionale; in altri termini, l’ordinamento giuridico italiano non incrimina il clandestino perché

gestione dell’immigrazione di stranieri, faccia ingresso o si trattenga in assenza di titolo
abilitativo, acquisendo in tal modo la condizione di clandestinità e violando il bene giuridico
protetto, consistente nell’interesse dello Stato a svolgere tale controllo sul proprio territorio e
sulle frontiere, quale espressione della sovranità a tutela della collettività ed in attuazione
degli obblighi internazionali.
2.4 Deve, infine, rilevarsi che, come già riconosciuto da questa Corte (sez. 1, n. 44977
del 19/09/2014, P.G. in proc. Ndiaye e altri, rv. 261124), la contravvenzione prevista dall’art.
10 bis non può ritenersi abrogata per effetto diretto della legge 28 aprile 2014 n. 67, posto
che tale atto normativo ha conferito al Governo una delega, implicante la necessità del suo
esercizio, per la depenalizzazione di tale fattispecie e che, pertanto, quest’ultima, fino alla
emanazione dei decreti delegati, non potrà essere considerata una mera violazione
amministrativa.
3. Ne discende la piena legittimità e validità della disposizione incriminatrice, che il
Giudice di Pace ha erroneamente disapplicato sulla scorta di un’interpretazione non corretta e
smentita dalle più autorevoli pronunce, anche di estrazione sovranazionale.
Per le considerazioni svolte il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va annullata
con rinvio al Giudice di Pace di Roma per nuovo giudizio che dovrà tenere conto dei superiori
rilievi.

P. Q. M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Giudice di Pace di Roma.
Così deciso in Roma, il 4 giugno 2015.

tale, ma colui che, contravvenendo alle regole stabilite per il controllo, la programmazione, la

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