Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27239 del 25/03/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 27239 Anno 2015
Presidente: GIORDANO UMBERTO
Relatore: NOVIK ADET TONI

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BARBANO NICOLA N. IL 26/04/1974
avverso la sentenza n. 4108/2013 CORTE APPELLO di ROMA, del
26/11/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/03/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ADET TONI NOVIK
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
2ft,u,cti daUZP
che ha concluso per n i

74,

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

iocei (f°

Data Udienza: 25/03/2015

RILEVATO IN FATTO
1. Con sentenza in data 22 novembre 2012, il G.I.P. del Tribunale di Roma
ha dichiarato Barbano Nicola colpevole del delitto di cui agli artt. 99, 56, 575 e
61 n.1 c.p. perché in Roma il 4 agosto 2012, agendo per futili motivi, avendo
ricevuto delle ingiurie da persona visibilmente ubriaca, mediante l’uso del
coltello, colpendo reiteratamente Comarita Marius in regione inguino femorale
sinistra, con conseguente eviscerazione, compiva atti idonei diretti in modo non
equivoco a cagionare la morte del predetto, non riuscendo nel suo intento per

specifica, reiterata ed infraquinquennale (capo a) e del connesso reato
contravvenzionale di porto illegale del coltello utilizzato per eseguire il delitto
(capo b), e per l’effetto, esclusa l’aggravante dei futili motivi, concesse le
attenuanti generiche equivalenti alle residue contestate aggravanti, computata la
diminuente per il rito prescelto, lo ha condannato alla pena di anni sette di
reclusione in relazione al reato sub a) e mesi uno di arresto ed Euro 60,00 di
ammenda in relazione alla contravvenzione sub b), oltre al pagamento delle
spese processuali e di custodia cautelare. Seguivano le sanzioni accessorie ed il
risarcimento dei danni subiti a favore della costituita parte civile Comarita
Marius, cui assegnava una provvisionale.
2. Su appello dell’imputato, la Corte di appello di Roma con sentenza 26
novembre 2013, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riconosceva la
circostanza attenuante della provocazione, confermando il giudizio di equivalenza
con le aggravanti, e riduceva la pena per il reato di cui al capo A) ad anni cinque
di reclusione. Secondo la ricostruzione operata dai giudici di merito, il 4 agosto
2012 verso le ore 23,30, presso il bar “L’appuntamento” in Roma, Barbano
Nicola aveva colpito ripetutamente Comarita Marius con l’uso di un coltello
dandosi alla fuga. Si accertava che Comarita, accompagnato dal fratello Sandu,
senza alcun motivo aveva iniziato ad ingiuriare Barbano, a lui sconosciuto.
Nonostante il fratello tentasse di trattenerlo Comarita aveva persistito nel suo
atteggiamento avendo in mano una bottiglia di vetro, di cui veniva però privato.
Barbano era stato sollecitato ad uscire dal locale e ciò aveva fatto visibilmente
alterato, dirigendosi verso il carro attrezzi della sua vettura da dove aveva
prelevato un coltello, utilizzato per colpire ripetutamente Comarita. Questi,
ricoverato d’urgenza in prognosi riservata, era sottoposto ad intervento
chirurgico per ferita d’arma bianca.
Sulla base delle deposizioni acquisite e delle immagini estrapolate dalla
registrazione del sistema di videosorveglianza interno al bar, si procedeva
all’identificazione dell’imputato che dichiarava di aver colpito Comarita con un
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cause indipendenti dalla sua volontà, con l’ulteriore aggravante della recidiva

coltello, di cui si era disfatto gettandolo nel fiume Aniene, e di aver bruciato la
maglietta che indossava al momento del suo ingresso al bar.

3. La Corte riteneva in primo luogo di non poter riqualificare il fatto come
lesioni, disattendendo la tesi proposta dall’imputato di aver colpito Comarita con
un pezzo di ferro uncinato. Le risultanze della consulenza tecnica eseguita su
incarico del P.M. ricollegavano la produzione delle lesioni all’azione di uno
strumento dotato di un margine tagliente e di una punta come un coltello.

addominale, in corrispondenza della radice della coscia, con eviscerazione di
anse dell’intestino e, in sede di intervento chirurgico i sanitari avevano
riscontrato la presenza, al livello di intestino tenue, di sei perforazioni e di una
piccola lacerazione del meso dello stesso tratto intestinale. Dall’esame della
consulenza del P.M. la Corte territoriale ricavava che il colpo aveva attinto la
vittima a livello addominale, in corrispondenza della radice della coscia. Tenuto
conto della micidialità dell’arma, della breve distanza tra i due soggetti litiganti
e della direzione dei colpi idonei ad attingere zone corporee sedi di organi vitali,
era esclusa la volontà di ferire o intimorire la parte offesa. Vi era dolo
alternativo e l’interruzione dell’azione era avvenuta quando ormai la condotta
omicidiaria, sia pure nella forma tentata, era stata posta in essere, a nulla
rilevando che la vittima non fosse stata in pericolo di vita.
Tuttavia, pur tenendo conto delle concrete circostanze di fatto costituite
dalla presenza della compagna di Barbano in stato di gravidanza, e del
comportamento minaccioso tenuto dalla vittima, la Corte escludeva l’applicazione
della scriminante della legittima difesa, che era stata richiesta quanto meno nella
forma putativa, ritenendo sproporzionata la reazione dell’imputato rispetto alle
aggressioni subite. Ormai, dopo l’uscita dal locale, l’iniziale aggressione verbale e
offensiva del Comarita era scemata perché il fratello Sandu gli aveva sfilato di
mano la bottiglia impugnata. Pertanto Barbano, nel momento in cui aveva inferto
i colpi, non si trovava in una situazione di pericolo attuale per la propria
incolumità e per quella della convivente, ed era stato nella concreta possibilità di
abbandonare i luoghi.

4.

In accoglimento invece del relativo motivo di gravame, la Corte

territoriale, sulla base delle stesse argomentazioni difensive svolte in tema di
legittima difesa, riconosceva all’imputato l’attenuante della provocazione per
aver agito sotto la spinta dello stato d’ira provocato dalle pregresse e ripetute
offese e aggressioni verbali poste in essere dalla vittima. Rigettava infine il
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza,
2

Comarita aveva riportato due ferite penetranti da arma bianca a livello

in considerazione della gravità della condotta che, stante la micidialità dell’arma,
avrebbe potuto provocare conseguenze ben più gravi di quelle in concreto
verificatesi.

5. Avverso la predetta sentenza Barbano Nicola ha proposto personalmente
ricorso a questa Corte di cassazione, chiedendone l’annullamento.
5.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce mancanza o manifesta
illogicita’ della motivazione risultando il vizio dal testo del provvedimento

La Corte di merito aveva ritenuto che il colpo inferto avesse un intento
omicidiario, pur avendo riconosciuto che le lesioni riportate dalla parte offesa non
registrarono una significativa e grave compromissione di una o di tutte le
funzioni principali dell’organismo, tale da lasciar fondatamente ipotizzare un
reale pericolo di vita.
Quanto al mezzo utilizzato, la Corte di appello aveva affermato che si fosse
trattato di un coltello, mai rinvenuto, nonostante che Barbano avesse chiarito di
aver fatto uso di un tubo uncinato che utilizzava per il traino. Il colpo era stato
inferto con un oggetto casualmente rinvenuto all’interno del furgone, e dunque
non rientrante nelle categorie previste dalla normativa richiamata al capo b)
dell’imputazione. Le lesioni erano compatibili con l’attrezzo utilizzato dal
Barbano, ed il giudicante ritenendo che il corpo fosse stato inferto con il coltello
era incorso in un travisamento dei fatti. Barbano era stato costretto a difendersi
dall’aggressione dell’uomo che sembrava avesse estratto dalla propria tasca un’
arma, nel tentativo di salvare la propria vita e conseguentemente proteggere la
propria compagna. Qualora il ricorrente avesse avuto un intento omicidiario
avrebbe indirizzato il colpo in altra zona, e non alla coscia.
La Corte di secondo grado non aveva tenuto conto delle dichiarazioni del
teste Santarelli e di Antochi, coincidenti con la versione dei fatti resa dal
ricorrente.
5.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce inosservanza o erronea
applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener
conto in riferimento all’invocata legittima difesa. Previo richiamo di precedenti
giurisprudenziali, si sostiene che il giudicante non ha tenuto in considerazione
l’orientamento che in tema di legittima difesa attribuisce rilevanza all’errore in
cui può versare l’agente che ritenga sussistente i presupposti di operatività
dell’esimente. La dinamica del fatto evidenziava che Barbano si era allontanato
dal bar ed era stato inseguito da Comarita, che sembrava avesse estratto
un’arma dalla tasca del proprio pantalone. Barbano aveva colpito il proprio

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impugnato.

aggressore mentre era ancora attuale il pericolo in riferimento alla sua integrità
fisica e a quella della donna che lo accompagnava.
La sentenza avrebbe dovuto ritenere sussistente la legittima difesa putativa
poiché ai sensi dell’art. 530 c.p.p., il dubbio sull’esistenza di una causa di
giustificazione giova all’imputato.
5.3. Con il terzo motivo il ricorrente contesta inosservanza o erronea
applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche in riferimento
all’omessa concessione delle circostanze generiche nella forma piu’ estesa. La

quantificazione della pena del minimo edittale e avrebbe dovuto concedere le
circostanze attenuanti con giudizio di prevalenza. Nel caso di specie, l’entità della
pena comminata, risultava eccessivamente gravosa. Pur avendo riconosciuto il
comportamento collaborativo di Barbano ed il contributo apportato con le
dichiarazioni rese alle attività di indagini, la risalenza nel tempo dei precedenti e
la loro non specificità, la sentenza non aveva tenuto conto di dette circostanze,
in ragione della micidialità dell’arma, peraltro non rinvenuta e solo
presuntivamente ritenuta un coltello.
5.4. Infine, si deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale
o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto in riferimento all’invocata
legittima difesa, in relazione al riconoscimento della provvisionale pur non
essendo stato provato il danno effettivamente patito nel suo preciso ammontare.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso, con cui si ripropongono le stesse doglianze avanzate con i
motivi di appello, è manifestamente infondato e va dichiarato inammissibile.
Preliminarmente va evidenziato che trattandosi, in relazione alle contestazioni, di
c.d. “doppia conforme”, la motivazione della sentenza di appello si salda con
quella di primo grado per formare un unico complesso corpo argomentativo”
(Sez., 1, sent. n. 8868 del 26/6/2000; Cass., Sez. Un., 4.2.1992, Musumeci, rv.
191229) per cui , legittimamente può farsi riferimento, quando necessario, al
contenuto di quella di primo grado.

2. L’esame del primo motivo impone alcune premesse.
2.1. Il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che
all’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza
di motivazione, dovendo in tale vizio essere ricondotti tutti i casi nei quali la
motivazione stessa risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza,
completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o
assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice
4

Corte di appello non aveva offerto adeguata spiegazione del superamento nella

di merito ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano
talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere
oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (Sez. Un. 28 maggio 2003,
rie. Pellegrino, rv. 224611; Sez. 1, 9 novembre 2004, rie. Santapaola, rv.
230203).
2.2. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato
dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul
discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a

apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha
posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, in
quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate
da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia
internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze
tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa
contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo”
(indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno
del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente
inficiata sotto il profilo logico (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, n. 10951). Non è,
dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano
semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del
giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle
responsabilità, ne’ che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più
persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica
l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel
loro ambito, dì quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti
tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare
obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di
consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico
composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti
del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della
motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa
tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero
ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali
incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o
contraddittoria la motivazione (Sez. 6, n. 10951 del 15 marzo 2006). Il giudice
di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o
meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente
coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”.

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verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia “effettiva” e non meramente

Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di
carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della
motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del ragionamento del
giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla
motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di
merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità

giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale
dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei
provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino
autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca
razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal
giudice per giungere alla decisione.
2.3. Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata è,
all’evidenza, esente dai vizi denunciati. Infatti, pur denunciando formalmente
plurimi vizi della motivazione, sia sotto il profilo della mancanza che della
illogicità della motivazione, il ricorrente non critica in realtà la violazione di
specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del
giudice, bensì, postulando un preteso travisamento del fatto, chiede la rilettura
del quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito,
inammissibile invece in sede d’indagine di legittimità sul discorso giustificativo
della decisione, allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata
abbia – come nella specie – una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e
sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, alle risultanze del
quadro probatorio, indicative univocamente della coscienza e volontà della
ricorrente di cagionare la morte di Comarita, colpendolo, con un coltello, in parti
vitali del corpo.
2.4. Va evidenziato che i giudici di merito avevano affrontato e risolto le
questioni riproposte dalla difesa seguendo un percorso motivazionale
caratterizzato da completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti
agli elementi probatori acquisiti e rilevanti ai fini dell’esame della posizione di
Barbano. Richiamando quanto in precedenza esposto (punto sub 2 del Rilevato),
la dinamica dell’aggressione è stata ricostruita in base agli esiti della consulenza
medica, ed alle stesse dichiarazioni del ricorrente che spontaneamente aveva
dichiarato di aver colpito il Comarita con un coltello e di averlo gettato nel fiume
Aniene (pag. 4 della sentenza di primo grado). Le dichiarazioni spontanee rese
dall’indagato alla polizia giudiziaria, disciplinate dall’art. 350, comma settimo,
6

esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo

cod. proc. pen., sono pienamente utilizzabili nella fase delle indagini preliminari
(Sez. U, n. 1150 del 25/09/2008 – dep. 13/01/2009, Correnti, Rv. 241884) e
nell’ambito del giudizio abbreviato, che ha natura e carattere del tutto peculiari,
in quanto svolto “allo stato degli atti”. È stato più volte affermato da questa
Corte che l’imputato, nell’accettare questo procedimento speciale, da un lato
rinuncia ad avvalersi delle regole ordinarie e dall’altro però ottiene un
trattamento premiale attraverso l’applicazione della diminuente. Ne deriva che il
giudice può utilizzare tutti gli atti legittimamente confluiti nel fascicolo del

del suo difensore, purché acquisite “sul luogo o nell’immediatezza del fatto”, così
come stabilito dal quinto comma dell’art. 350 cod. proc. pen. (Cass. Sez. 3, sent.
n. 7072 del 20/04/1994, Mazzaraco, Rv. 198153; Sez. 1, sent. n. 697 del
08/01/1997, Zotka, Rv. 206791;Sez. 4, sent. n. 1129 del 09/12/1999, Paradiso
M., Rv. 215661). Ne consegue che inutilmente il possesso dell’arma viene negato
per la prima volta in sede di legittimità.
2.5. Sul punto della qualificazione giuridica, è stato accertato che la vittima,
fu colpita in parti vitali (eviscerazione di parti dell’intestino) e, non versò in
effettivo pericolo di vita per le tempestive cure cui fu sottoposto. Coerentemente
tale fatto è stato ricostruito in termini di tentato omicidio ricorrendone gli
estremi oggettivi della idoneità e non equivocità degli atti, e quello soggettivo.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte, l’idoneità degli atti
deve essere compiuta con una prognosi “ex post”, ma riportandosi alla
situazione che si presentava all’imputato al momento dell’azione, sulla base di
tutte le conoscenze dell’agente, e postula che dalla condotta concretamente
tenuta sia astrattamente possibile la realizzazione dell’evento (non realizzato per
cause indipendenti dalla volontà dell’agente), in base alle condizioni
umanamente prevedibili del caso particolare (Sez. I, sent. n. 32851 del
10/6/2013, Ciancio Catena).
Il giudizio sull’idoneità degli atti deve, in particolare, stabilire se essi siano
adeguati in concreto al raggiungimento dello scopo, tenendo conto dell’insieme
delle circostanze di tempo e di luogo dell’azione e delle modalità con cui
l’agente ha operato: solo se l’azione criminosa nella sua capacità causale è
insufficiente a produrre l’evento, viene infatti meno ogni possibilità di
realizzazione e deve ritenersi inidonea. Il relativo apprezzamento deve svolto in
concreto, senza essere condizionato dagli effetti realmente raggiunti, perché
altrimenti l’azione, per non aver conseguito l’evento, sarebbe sempre inidonea
nel delitto tentato.
Dal punto di vista soggettivo,

l’animus necandi è stato inferito da un

compendio che imponeva tale giudizio, poiché ritenuto correttamente dotato di
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pubblico ministero e quindi anche le dichiarazioni, rese dall’indagato in assenza

inequivoca incidenza dimostrativa. La Corte di appello ha dato piena attendibilità
alla ricostruzione dell’evento: la micidialità dell’arma e la potenzialità offensiva
dei colpi inferti a distanza ravvicinata, sono tutti fattori deponenti, senza
possibilità di errore, per una manifesta volontà diretta ad uccidere, non andata a
segno per cause indipendenti dalla volontà di Barbano.

3. La ricostruzione fattuale svolta ai punti che precedono esclude che nella
vicenda ricorrano i presupposti per l’applicabilità della legittima difesa, anche

illogica, incensurabile nel merito, che quando Barbano colpì Comarita l’azione
aggressiva di costui si era già esaurita, allo stesso era stata tolta la bottiglia
precedentemente impugnata ed era trattenuto dal fratello per allontanarlo, non
si vede sotto quale profilo possa operare un istituto che presuppone la necessità
di difendersi da una offesa ingiusta altrui.
A sua volta, la legittima difesa putativa postula i medesimi presupposti di
quella reale con la sola differenza che la situazione di pericolo non sussiste
obiettivamente, ma è supposta dall’agente a causa di un erroneo apprezzamento
dei fatti. Tale errore – che ha efficacia esimente se è scusabile e comporta
responsabilità di cui all’art. 59 c.p., u.c., quando sia determinato da colpa – deve
in entrambe le ipotesi trovare adeguata giustificazione in qualche fatto che,
sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di
determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo
attuale di un’offesa ingiusta, sicché la legittima difesa putativa non può valutarsi
alla luce di un criterio esclusivamente soggettivo e desumersi, quindi, dal solo
stato d’animo dell’agente, dal solo timore o dal solo errore, dovendo, invece,
essere considerata anche la situazione obiettiva che abbia determinato l’errore
stesso. Essa, pertanto, può configurarsi se e in quanto l’erronea opinione della
necessità di difendersi sia fondata su dati di fatto concreti, di per sè inidonei a
creare un pericolo attuale, ma tali da giustificare, nell’animo dell’agente, la
ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione di pericolo, persuasione che
peraltro deve trovare adeguata correlazione nel complesso delle circostanze p
oggettive in cui l’azione della difesa venga a estrinsecarsi (Sez. 1^, n. 3464 del
24/11/2009, dep. 27/01/2010, Narcisio, Rv. 245634, e, tra le precedenti
conformi, Sez. 1^, n. 3898 del 18/02/1997, dep. 28/04/1997, Micheli, Rv.
207376). È anche consolidato il principio di diritto alla cui stregua il giudizio di
accertamento della legittima difesa putativa, così come di quella reale, deve
essere effettuato con giudizio ex ante – e non già ex post – delle circostanze di
fatto, cronologicamente rapportato al momento della reazione e dimensionato
nel contesto delle specifiche e peculiari circostanze concrete al fine di apprezzare
8

nella forma putativa. Accertato dal giudice di merito, con motivazione non

solo in quel momento – e non a posteriori – l’esistenza dei canoni della
proporzione e della necessità di difesa, costitutivi, ex art. 52 c.p., dell’esimente
indicata (Sez. 5^, n. 3507 del 04/11/2009, dep. 27/01/2010, Siviglia e altro, Rv.
245843, e, tra le precedenti conformi, Sez. 1^, n. 4456 del 17/02/2000, dep.
12/04/2000, Tripodi, Rv. 215808). La Corte di appello ha correttamente escluso
la ricorrenza anche di questa esimente considerando che l’azione lesiva di
Comarita non era più attuale e Barbano poteva allontanarsi con la compagna.

dichiarazione di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, si rileva che
quest’ultima era esclusa per legge in relazione alla contestata recidiva specifica,
reiterata e infraquinquennale. Quanto alla gradazione della pena, peraltro fissata
in prossimità del minimo, appaiono assolutamente corretti e insindacabili in
sede dì legittimità i rilievi fattuali del giudice di merito circa i connotati di gravità
del fatto e della pericolosità dell’imputato, che lo rendevano immeritevole di un
più mite trattamento sanzionatorio.
Di talché le invero generiche censure del ricorrente circa pretese carenze
motivazionali della sentenza impugnata in ordine ai punti suindicati risultano
manifestamente infondate.

5.

Quanto infine all’ultima censura, si osserva che la pronuncia circa

l’assegnazione di una provvisionale in sede penale ha carattere meramente
delibativo e non acquista efficacia di giudicato in sede civile, mentre la
determinazione dell’ammontare della stessa è rimessa alla discrezionalità del
giudice del merito che non è tenuto a dare una motivazione specifica sul punto.
Ne consegue che il relativo provvedimento non è impugnabile per cassazione in
quanto, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato, e destinato ad
essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento. (Sez. 5, n.
40410 del 18/03/2004 – dep. 15/10/2004, Farina ed altri, Rv. 230105)

6. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento nonché al versamento in favore della
Cassa delle Ammende, di una somma determinata, equamente, in Euro 1000,00,
tenuto conto del fatto che non sussistono elementi per ritenere che “la parte
abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”. (Corte Cost. 186/2000).
P.Q.M.

9

4. Quanto alle doglianze riguardanti l’adeguatezza della pena e la mancata

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle
Ammende.
Così deciso in Roma, il 25 marzo 2015
Il Presidente

Il Consigliere estensore

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