Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27238 del 25/03/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 27238 Anno 2015
Presidente: GIORDANO UMBERTO
Relatore: NOVIK ADET TONI

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CASTANEDA FLORES DALILA N. IL 10/06/1981
avverso la sentenza n. 1587/2013 CORTE APPELLO di GENOVA, del
10/10/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/03/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ADET TONI NOVIK
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per r
13 -7,2
rl/CP-k Ult,

Ue,ú)

Y1, 14, Pr

e/G’149

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

Data Udienza: 25/03/2015

RILEVATO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in sede di giudizio abbreviato cd. “secco” in data
14/01/2012, il G.U.P. presso il Tribunale di Genova dichiarava CASTANEDA
FLORES Dalila colpevole del reato previsto e punito dagli artt. 56, 110, 575 e 577
n. 3 codice penale per avere, in concorso con Castaneda Herto e con
premeditazione, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la
morte di ROMS PORROS Jaquelin. In particolare, le Castaneda, dopo aver
incontrato in un locale di Sampierdarena la Rojas e aver avuto un contrasto verbale

Pacifico” dove, mentre la Castaneda Herto la teneva ferma, Castaneda Flores
la colpiva 4 volte in parti vitali con uno strumento affilato in modo tale da cagionarle
lesioni giudicate guaribili in un periodo compreso tra 20 e 40 giorni, colpi
potenzialmente idonei a cagionare la morte della persona offesa”. In Genova, il 26
febbraio 2012. Veniva inflitta la pena di otto anni di reclusione, cui conseguivano le
sanzioni accessorie ed il risarcimento del danno in favore della parte civile, da
liquidarsi in separata sede, con assegnazione di una provvisionale.
2. Dalla ricostruzione operata dal G.U.P. emergeva che:

ROMS era stata trasportata al Pronto soccorso, ove le era riscontrato

“Emoperitoneo con flc. multiple (fIc. lombare sin., fossa iliaca sin., sottoascellare
sin. ed emitorace sin.)”. La donna, giudicata in pericolo di vita, era stata
ricoverata con prognosi riservata e sottoposta ad intervento chirurgico, durante
il quale si era accertato copioso emoperitoneo ed erano stati aspirati 2000 cc.
di materiale ematico, in parte coagulato;
– tutte le ferite erano state inferte con una lama molto affilata, di almeno
cm. 6 di lunghezza;
– le persone presenti nel locale (Castro Cordova Maritza Giovanna,
Villanueva Romero Karlo Rossmery, Ferrer Santiago Miguel Angel ed Espinoza
Ortiz Daniel) avevano visto l’imputata, spalleggiata da Castaneda Herto,
afferrare ROJAS mentre stava ballando e colpirla al fianco, constatando
successivamente che stava sanguinando; detta versione era stata confermata
dalla stessa parte lesa;
– nel corso di una ispezione i carabinieri trovavano sul pavimento la lama di
un coltello priva di impugnatura, sporca di sangue;
– l’imputata forniva la propria versione: ricostruiti i rapporti con la parte
lesa, dapprima amica, deterioratesi in conseguenza di malevoli insinuazioni di
infedeltà coniugale, affermava che all’interno del locale Rojas l’aveva offesa e
che avevano iniziato a spintonarsi a vicenda e a colpirsi reciprocamente
(l’imputata presentava graffi al viso); allora aveva preso un coltello che era sul

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con la stessa, la seguivano fino all’interno del locale “Associon Social e Cultura! el

tavolo vicino a lei, soltanto perchè voleva che l’aggressione finisse e aveva
colpito la sua antagonista al fianco.
3.

In base alla dinamica dell’aggressione, i giudici di merito

ritenevano provato che la parte offesa era stata aggredita improvvisamente,
mentre stava ballando, con una serie di “pugni”, che in seguito si erano rivelati
fendenti al fianco sinistro. Rojas aveva reagito, aggredendo chi l’aveva colpita,
cagionandole lesioni da graffi. Secondo i giudici, nell’azione della ricorrente era
configurabile il tentativo di omicidio, di cui sussistevano gli indici sintomatici

relazione sia alle multiple ferite riportate dalla parte lesa, dirette tutte in zone
del corpo in cui vi erano organi vitali, che, ove la donna non fosse stata
rapidamente soccorsa, politrasfusa e sottoposta ad un tempestivo intervento
chirurgico, avrebbero potuto condurla alla morte, sia nella reiterazione dei
colpi con una lama acuminata.
Non vi era prova che CASTANEDA Dalila avesse agito in stato di legittima
difesa, nemmeno putativa, essendo stato accertato che le lesioni da lei riportate
al volto erano state causate dalla parte lesa dopo che questa era già stata attinta
da tre colpi al fianco. Veniva altresì esclusa la possibilità che il fatto fosse stato
determinato da un eccesso colposo di legittima difesa.
L’aggravante della premeditazione

era ritenuta sussistente perché

l’imputata si era portata nel locale armata di coltello, sapendo di trovarvi la sua
antagonista, con cui in precedenza aveva avuto un litigio, con lo scopo di
accoltellarla.
4. Con sentenza emessa il 10 ottobre 2013, la corte di appello di Genova
confermava integralmente la sentenza di primo grado, rigettando i motivi di
gravame, tra cui la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.
Anche secondo il giudice di appello sussisteva il reato contestato aggravato
dalla premeditazione; non erano ravvisabili gli estremi della legittima difesa o
dell’eccesso colposo, né era concedibile l’attenuante della provocazione.
Correttamente il giudice di primo grado aveva rigettato la concessione delle
attenuanti generiche in relazione alla gravità del fatto.
5. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione Castaneda
Flores Dalila, a mezzo del difensore di fiducia, articolando sei motivi.
5.1. Violazione degli artt. 56 e 575 c.p., in relazione all’art. 606 lett. b) ed
e) c.p.p. e mancata configurazione del reato di lesioni personali aggravate.
Mancata audizione delle testimonianze del 3/3/2012 di Cruces Flora Pelagia e di
Olaja Armestar Jose Alfredo. In particolare, si contesta che la ricostruzione di
quanto avvenuto era basato sulle dichiarazioni rese dalla parte offesa e dai testi

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per ricostruire la direzione della volontà dell’agente verso l’evento mortale, in

in qualche modo a lei legati per conoscenza e amicizia, che tuttavia non
chiarivano l’episodio e smentivano la ricostruzione offerta dall’imputata.
La Corte di Appello con motivazione insufficiente, non aveva disposto la
rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per sentire i testi che avevano
rilasciato dichiarazioni al difensore, le cui deposizioni illustravano quanto
accaduto in precedenza ed erano idonee ad escludere la premeditazione. La
ricorrente richiama tutte le deposizioni testimoniali tra cui ravvisa aspetti
contraddittori. Richiama altresì la consulenza tecnica di parte che ritiene

ordine alla qualificazione giuridica dei fatti ritiene che in essi sia ravvisabile il
reato di lesioni, in quanto tre delle quattro coltellate erano superficiali; solo la
quarta aveva richiesto l’intervento medico, ma le condizioni della parte offesa si
erano risolte rapidamente senza postumi rilevanti. Anche il profilo soggettivo del
reato era incerto.
2) Violazione dell’art. 577 n. 3 c.p., in relazione all’art. 606 lett. b) ed e)
c.p.p. La Corte di Appello aveva erroneamente ritenuto sussistente
l’aggravante della premeditazione. Anche se tra le due donne vi era una
rivalità, il ritrovo nel locale era stato casuale ed anche la circostanza che
il coltello rinvenuto non fosse di quelli normalmente utilizzati dallo stesso,
non provava che fosse stato portato da fuori con l’intento di uccidere.
3) Violazione degli artt. 52, 55 e 59 c.p. in relazione all’ artt. 606 lett. b) ed
e) c.p.p. In base alla ricostruzione dei fatti era configurabile l’ipotesi della
legittima difesa ex art. 52 c.p., o quanto meno quella di cui all’art. 55, in quanto
la ricorrente era stata costretta a commettere la propria azione dalla necessità di
difendersi dall’aggressione della parte offesa. L’azione dell’imputata non era
volta a colpire con un coltello per quattro volte la parte offesa, ma solo a
difendersi da un’azione che era stata posta in essere da quest’ultima. Ricorreva
pertanto semmai l’ipotesi di cui all’art. 59, ultimo comma, c.p., o dell’eccesso
colposo ex art. 55 c.p.
4) Violazione dell’art. 62 n.2 c.p., in relazione all’art. 606 lett. b) ed e)
c.p.p. La Corte di Appello non aveva valutato sufficientemente sulla richiesta
effettuata dalla difesa circa la concessione dell’attenuante della provocazione ex
art. 62 n. 2 c.p. La condotta e l’atteggiamento posto in essere dalla parte offesa
era stato provocatorio, spinto dall’intento offensivo, minaccioso, ingiurioso e
violento.
5) Violazione dell’art. 62 bis c.p., in relazione all’art. 606 lett. b) ed e) c.p.p.
I giudici di merito negando le attenuanti generiche non avevano considerato che
la ricorrente era incensurata e alla prima esperienza carceraria. Il danno non era
stato risarcito solo per mancanza di disponibilità economiche. Non erano state
3

compatibili i graffi riscontrati sul volto dell’imputata con un’aggressione. In

valutate le sue condizioni personali e sociali, trattandosi di straniera
regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, di umilissime condizioni
economiche e sociali.
6) Violazione dell’art. 133 c.p., in relazione all’art. 606 lett. b) ed e) c.p.p.
La pena irrogata era eccessiva essendosi partiti da una pena base di 12 anni di
reclusione. Le modalità del fatto e la personalità dell’imputata consentivano
l’irrogazione di una condanna più mite.

1. Il ricorso, con cui si ripropongono le stesse doglianze avanzate con i
motivi di appello, è manifestamente infondato e va dichiarato inammissibile.
Preliminarmente va evidenziato che trattandosi, in relazione alle contestazioni, di
c.d. “doppia conforme”, la motivazione della sentenza di appello si salda con
quella di primo grado per formare un unico complesso corpo argomentativo”
(Sez., 1, sent. n. 8868 del 26/6/2000; Cass., Sez. Un., 4.2.1992, Musumeci, rv.
191229) per cui , legittimamente può farsi riferimento, quando necessario, al
contenuto di quella di primo grado.
2. Il primo motivo di ricorso si articola su due punti distinti: la mancata
rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e la configurabilità del reato di tentato
omicidio.
2.1. In ordine al primo punto, va ricordato che, come si legge nella sentenza
di primo grado, a seguito della emissione del decreto di giudizio immediato la
ricorrente aveva tempestivamente fatto richiesta di essere giudicata con il rito
abbreviato, subordinato all’acquisizione di verbali di indagini difensive. Il G.U.P.
aveva rigettato la richiesta ritenendo la prova non decisiva o indispensabile e su
istanza dell’imputata aveva dato ingresso al giudizio abbreviato ordinario.
2.2. È pacifico che la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ha carattere
eccezionale e deve essere giustificata dall’assoluta necessità dell’assunzione della
nuova prova ai finì della decisione. Tanto vale a maggior ragione nel processo
celebrato con il rito abbreviato, in quanto “l’imputato rinunzia definitivamente al
diritto di assumere prove diverse da quelle già acquisite agli atti o richieste come
condizione a cui subordinare il giudizio allo stato degli atti ai sensi dell’art. 438
c.p.p., comma 5. I poteri del giudice di assumere gli elementi necessari ai fini
della decisione (art. 441 c.p.p., comma 5), di disporre in appello la rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale (art. 603 c.p.p., comma 3) sono poteri officiosi, che
prescindono dall’iniziativa dell’imputato, non presuppongono una facoltà
processuale di quest’ultimo e vanno esercitati solo quando emerga un’assoluta
esigenza probatoria” (cfr. Cass. pen. sez. 3^ n. 12853 del 13.2.2003). Di fronte
al rigetto della richiesta di giudizio abbreviato condizionato, all’imputata si erano
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CONSIDERATO IN DIRITTO

aperte due strade: o affrontare il giudizio ordinario e riproporre nel dibattimento
la richiesta o rinunciare all’integrazione probatoria e richiedere il giudizio
abbreviato ordinario. La Castaneda ha optato per quest’ultima alternativa ed ha
rinunciato alla propria prova, così che non è censurabile la decisione della Corte
che ha ritenuto preclusa la possibilità di dare ingresso all’attività istruttoria
richiesta dall’appellante (ritenendo di non attivare i poteri officiosi). È stato in
proposito ribadito che “il comma primo dell’art. 603 c.p.p., con il limite della
valutazione discrezionale del giudice di non esser in grado di decidere allo stato

subordinato la richiesta di accedere al rito abbreviato ad una specifica
integrazione probatoria (art. 438 quinto comma c.p.p.), mentre chi abbia
acceduto al c.d. abbreviato semplice potrà solo sollecitare il potere officioso di
cui al comma terzo dello stesso precetto, basato sulla rinnovazione
dibattimentale ritenuta assolutamente necessaria.” ( Cass. pen. sez. 3″ n.
15296 del 2.3.2004).
2.3. L’esame del secondo punto impone alcune premesse.
2.3.1. Il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che
all’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza
di motivazione, dovendo in tale vizio essere ricondotti tutti i casi nei quali la
motivazione stessa risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza,
completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o
assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice
di merito ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano
talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere
oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (Sez. Un. 28 maggio 2003,
rie. Pellegrino, rv. 224611; Sez. 1, 9 novembre 2004, rie. Santapaola, rv.
230203).
2.3.2. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e),
novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di
legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere
volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia “effettiva” e non
meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il
giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente
illogica”, in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni
non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia
internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze
tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa
contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo”
(indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno
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degli atti, sarà invocabile, per le prove non ammesse, dall’imputato che abbia

del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente
inficiata sotto il profilo logico (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, n. 10951). Non è,
dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano
semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del
giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle
responsabilità, ne’ che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più
persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica
l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel

coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di
superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del
giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad
un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece,
necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere
l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza
esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di
disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo
interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente
incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 6, n. 10951 del 15 marzo
2006). Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla
persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e
internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti
del processo”. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una
valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale
“esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del
ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede
di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi
parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal
giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore
capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte
nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare
funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la
motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non
prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di
intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico
seguito dal giudice per giungere alla decisione.
2.3.4. Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata è,
all’evidenza, esente dai vizi denunciati. Infatti, pur denunciando formalmente
6

loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi,

plurimi vizi della motivazione, sia sotto il profilo della mancanza che della
illogicità e contraddittorietà della motivazione, nonché violazione dei canoni di
valutazione della prova, il ricorrente non critica in realtà la violazione di
specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del
giudice, bensì, postulando un preteso travisamento del fatto, chiede la rilettura
del quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito,
inammissibile invece in sede d’indagine di legittimità sul discorso giustificativo
della decisione, allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata

sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, alle risultanze del
quadro probatorio, indicative univocamente della coscienza e volontà della
ricorrente di cagionare, in concorso Castaneda Huerto Joseline, la morte di Rojas
Porros Jaquelin, colpendola, con uno strumento da punta e da taglio, in parti
vitali del corpo.
2.3.5. Va evidenziato che i giudici di merito avevano affrontato e risolto le
questioni riproposte dalla difesa seguendo un percorso motivazionale
caratterizzato da completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti
agli elementi probatori acquisiti e rilevanti ai fini dell’esame della posizione della
Castaneda Flores Dalila. Richiamando quanto in precedenza esposto (punti sub 2
e 3 del Rilevato), la dinamica dell’aggressione è stata ricostruita in base alle
deposizioni testimoniali, tra cui quella della parte offesa, di quanti hanno
assistito alle fasi di quello che si è rivelato essere stato un accoltellamento; è
stata rinvenuta la lama utilizzata; è stato accertato che la vittima, colpita in parti
vitali e anemizzata, si trovò in effettivo pericolo di vita, risolto favorevolmente
solo per le tempestive cure cui fu sottoposta. Coerentemente tale fatto è stato
ricostruito in termini di tentato omicidio ricorrendone, in concreto e non solo in
astratto, gli estremi oggettivi della idoneità e non equivocità degli atti, e quello
soggettivo che, in relazione alla pluralità dei colpi in zone vitali, non può che
essere il dolo diretto (intenzionale o alternativo).
3. Anche l’aspetto della premeditazione è stato correttamente risolto dai
giudici di merito che, con giudizio di fatto incensurabile in questa sede, hanno
evidenziato che la Castaneda dopo un litigio con la rivale, cambiatasi d’abito,
l’aveva deliberatamente raggiunta in un altro locale, posto a notevole distanza
dal luogo dove era avvenuto il primo scontro, essendosi preventivamente armata
di una lama senza impugnatura, di cui era stata accertata l’estraneità alla
dotazione di coltelli del locale. Secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale sul tema (S.U. n. 337 del 18.12.08, rv 2415759, elementi
costitutivi della circostanza aggravante della premeditazione sono un
apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e

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abbia – come nella specie – una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e

l’attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa
l’opportunità del recesso (elemento di natura cronologica) e la ferma risoluzione
criminosa perdurante senza soluzioni di continuità nell’animo dell’agente fino alla
commissione del crimine (elemento di natura ideologica). Elementi questi
ricorrenti nel caso in esame, in quanto l’obiettivo perseguito è stato raggiunto
dopo l’articolato dispiegarsi di un intervallo di tempo tra risoluzione e azione
(sufficiente a consentire un eventuale recesso dal proposito criminoso) e di un
fattore ideologico o psicologico (il perdurare nella mente della Castaneda, senza

precisamente ricostruiti dai giudici di merito con motivazione logica e si
sottraggono alle censure della ricorrente.
4. La ricostruzione fattuale svolta ai punti che precedono esclude che nella
vicenda ricorrano i presupposti per l’applicabilità della legittima difesa, anche
nella forma putativa. Accertato dal giudice di merito, con motivazione non
illogica, incensurabile nel merito, che fu Castaneda deliberatamente a porre in
essere la condotta aggressiva verso Rojas, riconducendo i graffi al volto riportati
dalla prima all’azione di difesa dell’aggredita dopo essere stata colpita, non si
vede sotto quale profilo possa operare un istituto che presuppone la necessità di
difendersi da una offesa ingiusta altrui. È giuridicamente corretto l’assunto del
giudice di appello secondo cui “la mancanza dei presupposti della scriminante
della legittima difesa impedisce di ravvisare anche l’ipotesi dell’eccesso colposo
di cui all’art. 55 c.p.”. L’espresso richiamo contenuto nell’art. 55 c.p. alle
disposizioni che disciplinano le singole cause di giustificazione, e la specificazione
che l’eccesso ricorre quando, per colpa, si eccedono i limiti stabiliti dalla legge o
dall’Autorità (nelle ipotesi previste dagli artt. 51 e 53 c.p.), o dalla necessità di
difendere il proprio o l’altrui diritto o sè stesso da un danno grave alla persona
(nelle ipotesi di legittima difesa e stato di necessità previste dagli artt. 52 e 54
c.p.), conduce a affermare che l’art. 55 c.p. postula necessariamente un
collegamento tra eccesso colposo e situazioni scriminanti, con conseguente
impossibilità di ritenere la sussistenza della fattispecie colposa descritta dall’art.
55 c.p. in assenza di una situazione di effettiva sussistenza della singola
scriminate di cui si eccedono colposamente i limiti, (conforme Sez. 1, Sentenza
n. 18926 del 2013; Sez. 1, n. 298 del 24/09/1991 – dep. 15/01/1992, Riolo, Rv.
190726).
5. L’attenuante della provocazione è stata correttamente esclusa dal
giudici di appello, il quale ha considerato che nessun fatto ingiusto era emerso
dal comportamento della parte offesa, e ha tenuto conto del fatto che, anche
ipotizzando un pregresso litigio, il lasso di tempo trascorso rendeva
inapplicabile l’attenuante.

soluzione di continuità, della risoluzione criminosa). Questi elementi sono stati

6. Quanto infine alle doglianze riguardanti l’adeguatezza della pena e il
negativo apprezzamento per la concessione delle circostanze attenuanti
generiche, escluso per legge a questi ultimi fini lo stato di incensuratezza,
appaiono assolutamente corretti e insindacabili in sede di legittimità i rilievi
fattuali del giudice di merito circa i connotati di allarmante gravità del fatto, al
limite dei futili motivi, e del concreto comportamento, anche processuale, che
rendevano l’imputata immeritevole di un più mite trattamento sanzionatorio.
Di talché le invero generiche censure della ricorrente circa pretese carenze

manifestamente infondate.
7. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento nonché al versamento in favore della
Cassa delle Ammende, di una somma determinata, equamente, in Euro 1000,00,
tenuto conto del fatto che non sussistono elementi per ritenere che “la parte
abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”. (Corte Cost. 186/2000).

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento
delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa
delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 25 marzo 2015
Il Consigliere estensore

Il Presidente

motivazionali della sentenza impugnata in ordine ai punti suindicati risultano

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