Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 272 del 05/12/2017

Cassazione penale sez. III, 05/12/2017, (ud. 05/12/2017, dep. 09/01/2018), n.272

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAVANI Piero – Presidente –

Dott. SEMERARO Luca – Consigliere –

Dott. GAI Emanuela – Consigliere –

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere –

Dott. REYNAUD Gianni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

T.G., n. (OMISSIS);

T.A., n. (OMISSIS);

avverso la ordinanza del Tribunale del riesame di ROMA in data

26/05/2017;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Alessio Scarcella;

udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. Perelli S., che ha chiesto

dichiararsi inammissibile il ricorso;

udite, per i ricorrenti, le conclusioni del difensore, Avv. F. Conte,

che ha chiesto accogliersi i ricorsi.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 26.05.2017, depositata in data 29.05.2017, il Tribunale del riesame di Roma rigettava l’appello cautelare presentato nell’interesse degli indagati T.A. e G. in data 2.03.2017 avverso il rigetto dell’istanza di revoca del provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 240 c.p., comma 1, disposto dal GIP/tribunale di Roma sulle quote della X.X.  s.r.l. di proprietà dei fratelli T..

2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia degli indagati, iscritto all’Albo speciale ex art. 613 c.p.p., deducendo un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b), sotto il profilo della violazione dell’art. 321 c.p.p. e art. 240 c.p., comma 1, nonchè il vizio di motivazione apparente.

In sintesi, sostiene la difesa dei ricorrenti che il tribunale avrebbe erroneamente negato la revoca del sequestro sul presupposto che le somme oggetto del delitto di riciclaggio non sarebbero costituite esclusivamente dai proventi degli illeciti oggetto della c.d. voluntary disclosure, ma atterrebbero anche al profitto del reato di appropriazione indebita, del cui fumus il tribunale non si occupa a seguito della valutazione già operata in sede di udienza preliminare e di ricorso per cassazione, non essendo la sussistenza di tale ultimo reato intaccata dall’elemento sopravvenuto che la difesa aveva invocato in sede di istanza di dissequestro prima e di appello poi; quanto sopra, ad avviso dei ricorrenti, non risponderebbe al vero, in quanto solo all’indagato R. (qui non ricorrente) è stato esclusivamente contestato il reato di riciclaggio dei capitali esteri utilizzati dalla fiduciaria F.F. s.r.l. per l’acquisto delle quote dei fratelli T., attuali ricorrenti, nella società XX s.r.l.; si evidenzia come gli attuali ricorrenti non risultano indagati nel delitto di riciclaggio contestato al capo a), e che, peraltro, non vi sarebbe alcun riferimento nella contestazione, se non in termini descrittivi, alle somme di cui i due ricorrenti si sarebbero indebitamente appropriati in danno delle loro stesse società, condotta contestata al capo b) dell’imputazione cautelare; la stessa A.F. in sede di voluntary disclosure avrebbe accertato che la provvista estera, pari ad Euro 1.099.976,26 utilizzata per l’acquisto delle quote societarie era stata costituita in epoca antecedente a quella in cui si sarebbe consumata l’appropriazione indebita; le stesse modalità esecutive della presunta appropriazione indebita apparirebbero per i ricorrenti ontologicamente incompatibili con la tesi del riciclaggio, essendosi succeduti tra la T. s.r.l. e la T.C. s.r.l. ed i fratelli T., da una parte, e tra questi ultimi e la XX s.r.l., dall’altra, solo pagamenti tracciati con la modalità del bonifico bancario; in sostanza, la ricostruzione del Tribunale di Roma prevaricherebbe dunque il perimetro delle imputazioni sulla base delle quali il sequestro è stato disposto, sia quanto alla ricostruzione della condotta storica che quanto all’attribuzione soggettiva degli addebiti, avendo lo stesso PM suddiviso gli addebiti, da un lato, ascrivendo al R. la contestazione di riciclaggio avente ad oggetto le somme estere rimpatriate tramite la sua fiduciaria per l’acquisto delle quote della XX s.r.l. dei fratelli T., e, dall’altro, ascrivendo a questi ultimi il delitto di appropriazione indebita relativamente alle somme versate in loro favore dalle due società di famiglia, sicchè l’affermazione secondo cui il delitto di cui al capo a) avrebbe riguardato anche gli attuali ricorrenti è estranea all’imputazione ed al quadro cautelare emerso; a ciò si aggiunge, evidenziano i due ricorrenti, un elemento di novità che sarebbe emerso dopo il rinvio a giudizio disposto dal GUP e dopo la decisione di questa Corte, ossia la definizione della procedura c.d. di voluntary disclosure ai sensi della L. n. 186 del 2014, che avrebbe regolarizzato sotto il profilo tributario il rientro dei capitali esteri operato attraverso l’acquisto delle quote della XX s.r.l., ossia l’importo oggetto della imputazione di riciclaggio sub a); si osserva che la documentazione difensiva, attenendo solo alle somme oggetto del capo a) coprirebbe solo parte delle somme oggetto dei reati tributari sub b) e c) della rubrica (ossia i reati di dichiarazione infedele ex D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4), che si riferiscono invece anche alle somme che si assumono profitto della contestata appropriazione indebita ed a quelle che compongono altri redditi che, secondo la GdF, i fratelli T. non avrebbero dichiarato, ovvero all’ammontare complessivo dell’accertamento tributario eseguito e per cui si è proceduto con separato sequestro per equivalente ai sensi dell’art. 322-ter c.p.p., su conti e beni degli attuali ricorrenti; si sostiene che, sebbene riferibile solo ad una frazione dell’imputazione, la procedura di “volontaria collaborazione” rappresenterebbe un fatto nuovo che, quand’anche ritenuto inidoneo a intaccare il reato di appropriazione indebita, avrebbe indubitabilmente “epurato” il delitto sub a) e reciso le ragioni che avevano determinato il sequestro delle quote che servirono o furono destinate a commetterlo; la mancata applicazione della L. n. 186 del 2014, art. 5-quinquies (che determina a seguito della procedura di voluntary disclosure l’estinzione del reato di riciclaggio e dei reati tributari connessi) integrerebbe una violazione di legge in quanto costituisce fatto nuovo sopravvenuto che renderebbe processualmente inefficace l’invocata preclusione ad una rivalutazione del fumus costituita dall’intervenuto rinvio a giudizio; in definitiva, mantenere il sequestro preventivo delle quote della XX s.r.l. in funzione di confisca con riferimento al delitto di appropriazione indebita (rispetto alla quale la cessione delle quote non può aver avuto nessuna funzione strumentale essendosi essa consumata in epoca anteriore), a fronte dell’incidenza che la predetta procedura di “volontaria collaborazione” ha esplicato nei confronti del reato di riciclaggio, equivarrebbe a consentire il sequestro per equivalente del profitto di quel reato, in mancanza di una specifica previsione normativa che lo consenta, così determinandosi un’ingiustificata duplicazione di misure cautelari per la stessa fattispecie, atteso che per il profitto non dichiarato al Fisco dell’appropriazione indebita il PM ha già proceduto al sequestro tributario per equivalente ex art. 322-ter c.p.p. su beni e conti degli attuali indagati.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il congiunto ricorso è infondato.

4. Giova premettere, per migliore intelligibilità dell’impugnazione, quanto emerso dal provvedimento impugnato e dagli atti che ne costituiscono il presupposto: a) che gli attuali ricorrenti sono indagati del delitto di appropriazione indebita (art. 646 c.p., capo b) nonchè dei reati di dichiarazione infedele (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, capi c) e d), ma non anche del delitto di riciclaggio (art. 648 bis c.p., capo a), quest’ultimo contestato al solo indagato R.; b) che le quote della società (XX s.r.l.) riferibile agli attuali indagati, sono state sottoposte a sequestro preventivo in quanto passibili di confisca facoltativa ex art. 240 c.p., comma 1, che prevede l’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale dei beni che servirono o furono destinati a commettere il reato (nella specie, secondo l’accusa, il reato di appropriazione indebita di oltre 710.000,00 Euro, commesso in danno della T. s.r.l. e della T.C. s.r.l.), somme poi impiegate per l’operazione di capitalizzazione della XX s.r.l.; c) che, secondo l’attività di indagine, tanto la preliminare capitalizzazione della XX s.r.l. realizzata tra il 21.09.2009 ed il 26.07.2010, quanto il successivo acquisto delle quote sociali al prezzo di Euro 1.099.976,26, così determinato con atto del 19.12.2012, a fronte dell’importo originariamente stabilito di Euro 1.800.000,00 da parte di società estera costituita ad hoc il 16.11.2010, sono serviti a trasferire ingenti risorse economiche dall’estero verso i conti personali dei fratelli T. e, altresì, a dare una veste formalmente legale a tali disponibilità, rimettendole nel circuito economico dopo averle sottratte agli oneri tributari ed ad altri obblighi di restituzione nei confronti degli aventi diritto T.  s.r.l. ed T.C. s.r.l., dalle cui casse erano state prelevate illecitamente; d) che l’operazione fittizia risultava quindi unicamente finalizzata a far rientrare nelle casse degli indagati le somme proventi dei reati sopra esaminati, ossia appropriazione indebita ed infedele dichiarazione.

5. Tanto premesso, i ricorrenti contestano il rigetto della richiesta di revoca del sequestro preventivo sulle predette quote societarie, non condividendo le argomentazioni del tribunale del riesame, secondo il quale le somme oggetto del delitto di riciclaggio non sarebbero costituite esclusivamente dai proventi degli illeciti oggetto della c.d. voluntary disclosure, ma atterrebbero anche al profitto del reato di appropriazione indebita, del cui fumus i giudici del riesame non si occupano a seguito della valutazione già operata in sede di udienza preliminare e di ricorso per cassazione, non essendo la sussistenza di tale ultimo reato intaccata dall’elemento sopravvenuto che la difesa aveva invocato in sede di istanza di dissequestro prima e di appello poi.

A sostegno di tale assunto gli indagati prospettano, attraverso il richiamo di atti processuali (al cui esame rinviano, costituiti dai verbali di accertamento dell’Agenzia delle Entrate e alle relative quietanze di pagamento), che la stessa A.F. in sede di voluntary disclosure avrebbe accertato che la provvista estera, pari ad Euro 1.099.976,26 utilizzata per l’acquisto delle quote societarie era stata costituita in epoca antecedente a quella in cui si sarebbe consumata l’appropriazione indebita; aggiungono, poi, che le stesse modalità esecutive della presunta appropriazione indebita apparirebbero ontologicamente incompatibili con la tesi del riciclaggio, essendosi succeduti tra la T. s.r.l. e la T.C. s.r.l. ed i fratelli T., da una parte, e tra questi ultimi e la XX s.r.l., dall’altra, solo pagamenti tracciati con la modalità del bonifico bancario. Tutto ciò comporterebbe, in sostanza, che la ricostruzione del Tribunale di Roma prevarichi il perimetro delle imputazioni sulla base delle quali il sequestro è stato disposto, sia quanto alla ricostruzione della condotta storica che quanto all’attribuzione soggettiva degli addebiti, avendo lo stesso PM suddiviso gli addebiti, da un lato, ascrivendo al R. la contestazione di riciclaggio avente ad oggetto le somme estere rimpatriate tramite la sua fiduciaria per l’acquisto delle quote della XX s.r.l. dei fratelli T., e, dall’altro, ascrivendo a questi ultimi il delitto di appropriazione indebita relativamente alle somme versate in loro favore dalle due società di famiglia, sicchè l’affermazione secondo cui il delitto di cui al capo a) avrebbe riguardato anche gli attuali ricorrenti sarebbe estranea all’imputazione ed al quadro cautelare emerso.

Ritiene il Collegio che si tratti di argomentazioni del tutto prive di pregio, in quanto attraverso tali censure, sotto l’apparente deduzione di vizi di violazione di legge, si svolgono in realtà critiche alla ricostruzione dei fatti ed alla valutazione operata dai giudici del riesame degli elementi probatori acquisiti sinora in fase cautelare dall’organo dell’accusa, dunque censurando in sostanza un vizio motivazionale, incompatibile con il limitato sindacato concesso a questa Corte in considerazione del ristretto perimetro imposto dall’art. 325 c.p.p., che limite. la deducibilità al solo vizio di violazione di legge sotto il profilo dell’apparenza o assoluta mancanza della motivazione, nella specie certamente non ravvisabile.

E’ noto, infatti, che in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge” per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’art. 325 c.p.p., comma 1, rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui all’art. 606, lett. e) (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 – dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc.Bevilacqua, Rv. 226710). A ciò va aggiunto che il sindacato di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato incontra il preciso limite testuale posto dall’art. 606 c.p.p., lett. e), con la conseguenza che eventuali vizi argomentativi non possono essere derivati nè da diversa valutazione del compendio indiziario, nè dal richiamo del contenuto di atti di indagine, come invece pretende di fare la difesa dei ricorrenti laddove sostiene che la stessa A.F. in sede di voluntary disclosure avrebbe accertato che la provvista estera, pari ad Euro 1.099.976,26 utilizzata per l’acquisto delle quote societarie, sarebbe stata costituita in epoca antecedente a quella in cui si sarebbe consumata l’appropriazione indebita (Sez. 1, n. 3289 del 28/04/1999 – dep. 15/06/1999, Bollo, Rv. 213728), trattandosi, in ogni caso di elementi che, presupponendo un apprezzamento in fatto, esulano dall’ambito cognitivo di questa Corte.

6. Trattasi, in ogni caso di censure infondate, essendo corretto il riferimento operato dal tribunale del riesame all’effetto preclusivo che sul fumus degli illeciti contestati esplicherebbe non solo il decreto che dispone il giudizio (v., in termini: Sez. 3, n. 44639 del 29/09/2015 – dep. 06/11/2015, De Simone e altri, Rv. 265570, secondo cui in materia di impugnazione dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, in sede di ricorso per cassazione, qualora sia intervenuto il decreto che dispone il giudizio in relazione ai reati contestati, è precluso qualsiasi sindacato sul “fumus commissi delicti”, considerato che la valutazione di merito eseguita dal giudice dell’udienza preliminare è tale da assorbire l’apprezzamento compiuto in sede incidentale sulla sussistenza di tale presupposto applicativo della misura cautelare reale), ma soprattutto la precedente decisione assunta da questa stessa Corte.

E’ sufficiente, infatti, richiamare il contenuto motivazionale della sentenza di questa Corte per evidenziare la mancanza di pregio delle censure. Questa Corte, infatti, con la sentenza Sez. 2, n. 44405 del 2016, emessa in data 15.07.2016, dep. 20.10.2016 (imp. R., non massimata), chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione proposta dal R., che ricorreva contro il provvedimento che aveva confermato il decreto di sequestro preventivo emesso (anche) nei suoi confronti in data 4.1.2016 dal g.i.p. del Tribunale di Roma, aveva, da un lato, evidenziato, sul tema dei rapporti tra l’imputazione sub a) contestata solo al R. e le altre imputazioni (contestate agli attuali indagati e ricorrenti), che “appare del tutto ragionevole, in diritto, che i coindagati siano stati chiamati a rispondere del reato presupposto di appropriazione indebita, e l’odierno indagato del riciclaggio che ne è in ipotesi conseguito”; dall’altro, e soprattutto, aveva sottolineato come il R. non si fosse confrontato adeguatamente con le articolate argomentazioni poste a fondamento della ordinanza del Tribunale del riesame, che, dopo avere evidenziato le ragioni per le quali aveva ritenuto la sussistenza del fumus boni iuris del reato presupposto (ossia, proprio del delitto di appropriazione indebita), aveva – secondo la Sezione 2^ di questa Corte – incensurabilmente valorizzato a fondamento della valutazione circa la sussistenza del fumus boni iuris del reato di riciclaggio ipotizzato a carico del ricorrente, gli articolati elementi riepilogati in atti, concludendo che il R. aveva “violato gli obblighi previsti per gli intermediari finanziati, omettendo di identificare (o meglio di comunicare) il titolare effettivo della EQUITY MARKET INVESTMENT ltd. ( R. non è stato in grado di fornire alla P.G. alcuna documentazione relativa agli adempimenti ai quali era tenuto come previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 18).

Il ricorrente era dunque consapevole della reale proprietà della società oggetto di cessione nonchè della vera finalità dell’operazione (…). Con il proprio operato egli ha così consentito ai fratelli T. di rientrare in possesso – attraverso il pagamento del corrispettivo della fittizia cessione – di ingenti somme che, proprio in considerazione della natura dell’operazione, non potevano che avere provenienza delittuosa” (f. 9).

E’ dunque evidente dalla esposta motivazione della decisione di questa Corte, seppur incidentalmente enunciata in relazione alla posizione R., che la condotta degli attuali indagati fosse già stata esattamente qualificata e ritenuta, sulla base degli elementi valutati dal tribunale, come integrante gli estremi del delitto contestato di appropriazione indebita nei termini oggetto di contestazione da parte dell’accusa, ed in relazione al quale è stato disposto il sequestro delle quote societarie di cui è stata invano richiesta la revoca. Da tale giudizio non vede quindi motivo di doversi discostare questo Collegio, donde corretto è quanto argomentato dal tribunale circa la questione della persistente configurabilità del fumus.

7. Non ha pregio, inoltre, l’ulteriore doglianza difensiva, secondo cui mantenere il sequestro preventivo delle quote della XX s.r.l. in funzione di confisca con riferimento al delitto di appropriazione indebita (rispetto alla quale la cessione delle quote non può aver avuto nessuna funzione strumentale essendosi essa consumata in epoca anteriore), a fronte dell’incidenza che la procedura di “volontaria collaborazione” ha esplicato nei confronti del reato di riciclaggio, equivarrebbe a consentire il sequestro per equivalente del profitto di quel reato, in mancanza di una specifica previsione normativa che lo consenta.

La censura è infondata. Ed infatti, sul punto i giudici del riesame motivano argomentando nel senso che le somme oggetto del contestato riciclaggio di cui risponde il R. e rispetto al quale è stato disposto il sequestro delle quote oggetto dell’attuale impugnazione ex art. 321 c.p.p., comma 2 e art. 240 c.p., comma 1, non sono costituite esclusivamente dai proventi degli illeciti oggetto della voluntary disclosure, ma attengono anche al profitto dell’appropriazione indebita (del cui fumus, come detto, non può più discutersi in questa sede per le ragioni supra evidenziate), a ciò aggiungendosi, come evidenziato dal tribunale, che la documentazione difensiva attesti la definizione della procedura di collaborazione volontaria solo in relazione a parte delle somme oggetto dei reati tributari sub c) e d), somme che non riguardano tutte le annualità contestate.

Orbene – in disparte la generica contestazione difensiva secondo cui ciò determinerebbe un’ingiustificata duplicazione di misure cautelari per la stessa fattispecie (poichè, si afferma, per il profitto non dichiarato al Fisco dell’appropriazione indebita il PM avrebbe già proceduto al sequestro tributario per equivalente ex art. 322-ter c.p.p. su beni e conti degli attuali indagati), duplicazione di cui non v’è traccia nel provvedimento impugnato, nè tra gli atti compulsabili da parte di questa Corte nell’incidente cautelare di legittimità ex art. 325 c.p.p. – la doglianza difensiva contrasta con la stessa ragione fondante il provvedimento di sequestro preventivo delle quote societarie, sottoposte alla misura cautelare reale in quanto passibili di confisca facoltativa ex art. 240 c.p., comma 1, norma che prevede l’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale dei beni che servirono o furono destinati a commettere il reato (nella specie, secondo l’accusa, il reato di appropriazione indebita di oltre 710.000,00 Euro, commesso in danno della T.  s.r.l. e della  T.C. s.r.l.), somme poi impiegate per l’operazione di capitalizzazione della XX s.r.l..

E’, quindi, evidente che – esclusa la possibilità di poter prospettare a questa Corte, nella fase incidentale cautelare di legittimità, una diversa ricostruzione dei fatti basata su non meglio precisati atti di indagine (Agenzia delle Entrate; Guardia di Finanza), onde sostenere che mantenere il sequestro preventivo delle quote della XX s.r.l. in funzione di confisca con riferimento al delitto di appropriazione indebita (rispetto alla quale la cessione delle quote non può aver avuto nessuna funzione strumentale essendosi essa consumata in epoca anteriore) -, allo stato, tenuto conto dei limiti del sindacato di questa Corte, non può dubitarsi della legittimità del mantenimento in sequestro delle quote suscettibili di confisca facoltativa in relazione al delitto di cui all’art. 646 c.p. in quanto beni che servirono o furono destinati a commettere il reato nei termini evidenziati.

8. Quanto all’incidenza “indiretta” che la procedura della voluntary disclosure (operata, si noti, dai due indagati) avrebbe avuto sul delitto appropriativo ex art. 646 c.p., deve ricordarsi che l’adesione alla “collaborazione volontaria” o “voluntary disclosure” (estera) – procedura introdotta dalla L. 15 dicembre 2014, n. 186 (in vigore dall’1.1.2015) – determina l’esclusione della punibilità per i seguenti reati tributari ex D.lgs. n. 74 del 2000: a) dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2); b) dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3); c) dichiarazione infedele (art. 4); d) dichiarazione omessa (art. 5); e) omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis); f) omesso versamento IVA (art. 10-ter). Se commesse in relazione ai delitti tributari “coperti”, inoltre, è altresì esclusa la punibilità delle condotte previste dagli articoli: a) art. 648-bis c.p. (riciclaggio); b) art. 648-ter c.p. (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita).

Sul punto, i ricorrenti hanno sostenuto che, a seguito della definizione di tale procedura ne discenderebbe la decadenza del sequestro disposto sulle quote della XX s.r.l., sotto il profilo dell’estensione oggettiva, essendo stato il predetto sequestro disposto sul presupposto cautelare, ritenuto non più attuale, che la società sia servita quale veicolo per le reintroduzione nei modi e nei termini descritti al capo a) dei capitali dall’estero, poi rientranti nella piena disponibilità dei fratelli T. con modalità idonee a reciderne o, comunque, ad ottunderne la riferibilità alle condotte illecite da cui erano stati generati, come si legge nel decreto di sequestro preventivo 4.01.2016.

La censura non può essere proposta in questa sede, in quanto incompatibile con la natura della fase incidentale cautelare di legittimità. Ed infatti, l’apprezzamento della invocata estensione “oggettiva” della procedura di collaborazione volontaria ad un reato diverso da quelli tassativamente previsti, presuppone certamente una valutazione giuridica che ha, tuttavia, come indefettibile presupposto, un apprezzamento di merito che è incompatibile con la procedura indicata dall’art. 325 c.p.p.. Non deve, infatti, essere dimenticato che la previsione di cui alla L. 15 dicembre 2014, n. 186 è relativa ad una causa di non punibilità i cui effetti “diretti” sono espressamente limitati dal legislatore a determinate fattispecie penali tributarie (oltre che ai già richiamati reati di cui agli artt. 648-bis c.p. e 648-ter c.p.), tra cui non rientra il reato di appropriazione indebita.

La verifica, pertanto, dell’estensione “oggettiva” ed indiretta anche a tale delitto per quanto qui di interesse, ai fini del mantenimento della cautela reale sulle quote societarie suscettibili di confisca facoltativa – della predetta causa di non punibilità è questione che esula dall’ambito del giudizio di legittimità sulla decisione di riesame del provvedimento applicativo di una misura cautelare reale, perchè attinente al merito (presupponendo evidentemente, secondo la prospettazione difensiva, l’analisi della documentazione attinente alle operazioni di ristrutturazione del gruppo aziendale descritta nella relazione del c.t. dott. B., e della connessa operazione di rientro dei capitali detenuti all’estero), laddove il controllo di legittimità è limitato alle ragioni giustificatrici della misura adottata. In ogni caso, osserva il Collegio, la tesi dell’estensione oggettiva indiretta della causa di non punibilità sulla misura cautelare disposta per il delitto appropriativo, sembrerebbe contrastare con la stessa previsione normativa atteso che la legge prevede che l’esclusione della punibilità si estende anche ai soggetti – esterni alla procedura di collaborazione volontaria – che abbiano commesso o concorso a commettere i reati “coperti”. Ed infatti, in base alla L. n. 186 del 2014, art. 1, comma 5, l’esclusione della punibilità prevista dal D.L. n. 167 del 1990, art. 5-quinquies, comma 1 opera nei confronti di tutti coloro che hanno commesso o concorso a commettere i delitti ivi indicati.

Il legislatore ha in questo modo risolto il problema della natura delle coperture penali legate alla procedura di voluntary disclosure, attribuendo alle stesse una valenza oggettiva, ma limitandone gli effetti ai soli reati “coperti”, escludendo dunque che l’estensione della causa di non punibilità per reati diversi, come nel caso in esame, posti in essere da soggetti resisi responsabili del delitto presupposto del riciclaggio (quest’ultimo ascrivibile ad un terzo, come nel caso di specie), ossia il delitto di appropriazione indebita.

9. Il ricorso congiunto dev’essere dunque complessivamente rigettato.

Segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella sede della Suprema Corte di Cassazione, il 5 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2018

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