Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27182 del 26/05/2015


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 27182 Anno 2015
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: MONTAGNI ANDREA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PETROLATI CESARE N. IL 05/11/1962
avverso la sentenza n. 66/2013 CORTE APPELLO di ANCONA, del
10/07/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 26/05/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANDREA MONTAGNI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Fo 0(Q_
che ha concluso per
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Udito, per la partei
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Data Udienza: 26/05/2015

Ritenuto in fatto
1.

La Corte di Appello di Ancona, con sentenza del 10.07.2014, ha

confermato la sentenza di condanna resa dal Tribunale di Ancona, sezione
distaccata di lesi, in data 4.07.2012, nei confronti di Petrolati Cesare, in riferimento
al reato di cui all’art. 590, cod. pen.
Al Petrolatí si contesta, nella sua qualità di legale rappresentante della
Teknomac srl, di avere cagionato lesioni personali guaribili in 490 giorni, al

pluriframmentaria all’omero destro. Ciò in quanto il Sedetti, dopo aver rimosso un
cader protettivo, veniva agganciato dagli ingranaggi del macchinario sul quale
stava lavorando, a causa dell’utilizzo di un indumento da lavoro non idoneo, in
quanto presentava parti non aderenti al corpo. All’imputato si addebita, perciò, la
violazione dell’art. 18, comma 1, lett. d), d.lgs. 9.04.2008 n. 81, per non aver
fornito al lavoratore un idoneo dispositivo di prevenzione individuale.
La Corte territoriale, nel censire le specifiche ragioni di doglianza dedotte
dalla parte appellante, rilevava, in punto di fatto, che la causa dell’evento era da
ricondursi al tipo di indumento indossato dal lavoratore al momento del sinistro, che
presentava parti svolazzanti, le quali erano rimaste intrappolate dal macchinario in
funzione, durante le verifiche, effettuate nella fase di installazione. Il Collegio
evidenziava che, nel caso in cui il dipendente avesse indossato un indumento
aderente, come prescritto nel manuale d’uso del macchinario, l’evento non si
sarebbe verificato. La Corte di Appello escludeva poi che il comportamento del
lavoratore potesse qualificarsi come abnorme, così da porsi come unico
antecedente causale dell’infortunio.
2. Con ricorso datato 13.11.2014 Petrolati Cesare, a mezzo del difensore
avvocato Franco Morbiducci, ha impugnato avanti a questa Suprema Corte la
richiamata sentenza della Corte di Appello di Ancona.
L’esponente premette che l’infortunio è avvenuto quando il lavoratore
Sedetti Nello, particolarmente preparato, stava installando una macchina
arrotolatrice per materassi, presso un cliente. Rileva che Sedetti indossava un
grembiule; e sottolinea che Sedetti, avendo sentito un rumore anomalo
proveniente dal macchinario, era entrato all’interno della gabbia di protezione ed
aveva quindi fatto riavviare la macchina, quando un lembo del grembiule era stato
preso dagli ingranaggi. Osserva che il manuale d’uso prescrive il disinserimento
dell’energia nel corso delle operazioni di manutenzione ordinaria o straordinaria; e
raccomanda di non indossare indumenti con parti svolazzanti.
Ciò premesso, con il primo motivo il ricorrente deduce l’erronea applicazione
della legge, in riferimento agli artt. 4, comma 5, lett. d) e 40, comma 2, d.lgs.
626/1994; e 40, comma 2, lett. a), d.lgs. 632/1994. L’esponente assume che
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lavoratore Sedetti Nello, consistite in un trauma distorsivo al braccio con frattura

erroneamente la Corte di Appello ha ritenuto che il manuale d’uso prevedesse
come necessaria la fornitura di un particolare abbigliamento; al riguardo, osserva
che, nel caso in esame, il manuale d’uso prevedeva unicamente che il lavoratore
non indossasse indumenti con parti svolazzanti. Il deducente richiama il contenuto
delle domande poste alla vittima nel corso dell’esame dibattimentale, con
riferimento al fatto di non aver pensato di togliersi il grembiule, nel momento in cui
procedeva alle particolari operazioni di cui si tratta; considera che nel caso non era

essere considerata un indispensabile dispositivo di sicurezza.
Sotto altro aspetto, il deducente rileva che Sedetti aveva seguito corsi sulla
sicurezza e che era un lavoratore dotato di grande esperienza. E sottolinea che se
Sedetti avesse operato dall’esterno della gabbia di protezione, ovvero dopo aver
disinserito l’alimentazione elettrica, l’infortunio non si sarebbe verificato. La parte
evidenzia che l’infortunio neppure sarebbe avvenuto se il dipendente si fosse tolto il
camice, prima di entrare all’interno della gabbia.
Con il secondo motivo viene denunciata l’erronea applicazione degli art. 40 e
590 cod. pen. La parte richiama i principi affermati dalla giurisprudenza in tema di
nesso causale nei reati omissivi impropri; ed osserva che l’avventatezza con la
quale Sedetti ebbe, nel caso, ad operare rende del tutto improbabile ritenere che la
vittima avrebbe avuto cura di indossare la tuta aderente, se pure il datore di lavoro
gliene avesse fornita una.
Con il terzo motivo viene dedotto il vizio motivazionale. L’esponente osserva
che la Corte di Appello ha erroneamente affermato che il controllo per accertare la
causa del malfunzionamento dovesse essere effettuato con la macchina in
movimento. Sul punto, la parte richiama stralci delle dichiarazioni rese dallo stesso
Sedetti; ed osserva che il manuale d’uso della macchina prevede il disinserinnento
dell’alimentazione elettrica, nel corso delle operazioni di manutenzione.
Con il quarto motivo l’esponente rileva l’errata applicazione dell’art. 2087
cod. civ.; osserva che Sedetti, al momento del fatto, stava operando presso un
cliente, al di fuori del possibile controllo del datore di lavoro.
L’esponente ha proposto ulteriore ricorso per cassazione, avverso la
sentenza della Corte di Appello di Ancona, a mezzo dei difensori Franco Morbiducci
e Paola Morbiducci.
Dopo essersi soffermato sulla dinamica del sinistro, l’esponente deduce
quattro motivi di ricorso; si tratta di doglianze di contenuto sovrapponibile, rispetto
alle censure affidate al primo ricorso, che già sopra si sono richiamate.
La difesa ha depositato memoria.
La parte rileva che, nelle more del giudizio, è entrato in vigore il d.lgs.
28/2015, che ha inserito l’art. 131 bis, cod. pen. Osserva che, nel caso di specie,
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necessario indossare una tuta aderente; ed afferma che una tale tuta non può

risultano sussistenti i presupposti richiesti dalla norma ora citata, per rilevare la
particolare tenuità dell’offesa. Ciò posto, vengono poi ribadite le censure già
affidate ai ricorsi in esame.
Considerato in diritto
1. I ricorsi sono destituiti di fondamento.
2. Procedendo all’esame delle censure affidate al primo motivo di entrambi i
ricorsi che occupano, si osserva che le valutazioni espresse dalla Corte di Appello di

sul datore di lavoro, non risultano censurabili in questa sede di legittimità.
La Corte di merito ha evidenziato che l’imputato non aveva fornito al
dipendente infortunato i necessari ed idonei dispositivi di protezione individuale,
sulla scorta di un percorso argomentativo saldamente ancorato alle risultanze in
atti, privo di aporie di ordine logico e del tutto coerente rispetto al contenuto degli
adempimenti gravanti sul datore di lavoro, come individuati dal diritto vivente.
Il Collegio, dopo aver evidenziato che risultava accertato che il sinistro si era
verificato a causa del fatto che il grembiule indossato dal Sedetti, avente parti
svolazzanti, era rimasto intrappolato nelle parti in movimento del macchinario, ha
considerato che l’imputato non aveva dotato il dipendente di un indumento da
lavoro aderente, in violazione delle indicazioni riportate nel manuale d’uso del
macchinario.
E bene, non è chi non veda, allora, che la tuta aderente, richiamata dalla
Corte di Appello nel contesto motivazionale ora riferito, rientra nell’ambito
applicativo della nozione di dispositivo di protezione individuale, già prevista dagli
artt. 4, comma 5, lett. d) e 40, d.lgs. n. 626 del 1994 ed oggi riportata dagli artt.
18, comma 1, lett. d) e 74, d.lgs. 9.04.2008, n. 81. Le predette disposizioni
stabiliscono che il datore di lavoro deve adottare le misure necessarie per la
sicurezza e la salute dei lavoratori e, in particolare, fornire ai lavoratori i necessari
e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di
prevenzione e protezione. E la Corte regolatrice ha chiarito che la richiamata
cornice normativa delinea un precetto contravvenzionale “di pericolo”, perché
legato ad una prognosi “ex ante”, circa la contingente necessità e idoneità dei
dispositivi di protezione individuale forniti ai dipendenti; con la precisazione che la
richiamata prognosi costituisce una valutazione di merito, che deve essere
effettuata, caso per caso, tenendo conto delle peculiarità della fattispecie concreta,
individuando i presidi e le cautele necessari a proteggere i dipendenti da eventuali
infortuni (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25739 del 15/03/2012, dep. 04/07/2012, Rv.
252977, in motivazione). Conclusivamente sul punto, deve pertanto rilevarsi che,
rispetto alle mansioni svolte dal dipendente infortunato, come riferite dalla Corte di
merito, nel contesto operativo sopra delineato, l’impiego di una tuta aderente
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Ancona, rispetto alla mancata osservanza degli obblighi di protezione che gravano

risulta funzionale proprio a garantire la protezione del lavoratore dal rischio
specifico derivante dalla vicinanza con le parti in movimento del macchinario.
Pertanto, la tuta aderente non risulta altrimenti qualificabile, come sostenuto dal
ricorrente, al pari di un ordinario indumento di lavoro, non destinato a proteggere
la sicurezza e la salute del lavoratore, secondo la definizione dell’art. 74, comma 2,
lett. a), d.lgs. n. 81/2008 (e, in precedenza, dell’art. 40, comma 2, lett. a, d.lgs. n.
626/1994).

terzo, nei ricorsi che occupano.
Si tratta di doglianze che si pongono ai limiti della inammissibilità.
Le censure dedotte dall’esponente, invero, si risolvono nella prospettazione
di una ricostruzione alternativa del sinistro per cui è processo, rispetto alle
valutazioni effettuate dai giudici di merito.
Giova, al riguardo, rilevare che secondo il consolidato orientamento della
Suprema Corte, invero, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di
legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere
riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna
possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza
che il sindacato di legittimità “deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza
di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza
delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo
convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali” (in tal senso, “ex
plurimis”, Cass. Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 10.01.1996, Rv. 203272).
Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato
altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali, hanno precisato che esula dai
poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto, posti
a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al
giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera
prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle
risultanze processuali (Cass. Sez. U, Sentenza n. 6402 del 30/04/1997,
dep. 02/07/1997, Rv. 207945). E la Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la
modifica dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge 20 febbraio
2006 n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può
esercitare sui vizi della motivazione, essendo comunque preclusa, per il giudice di
legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o
valutazione dei fatti (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 17905 del 23.03.2006,
dep. 23.05.2006, Rv. 234109). Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite
le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle
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3. In tali termini si introduce l’esame dei motivi indicati come secondo e

circostanze esaminate dal giudice di merito (ex nnultis Cass. Sez. 1, Sentenza n.
1769 del 23/03/1995, dep. 28/04/1995, Rv. 201177; Cass. Sez. 6, Sentenza n.
22445 in data 8.05.2009, dep. 28.05.2009, Rv. 244181).
E’ poi appena il caso di considerare che la Corte di Appello, sviluppando uno
specifico ragionamento controfattuale, ha osservato che la causa del sinistro
doveva rinvenirsi nell’indumento indossato dal dipendente al momento del fatto,
indumento che presentava parti svolazzanti, le quali erano rimaste intrappolate nel

sussistenza del nesso di derivazione causale tra la condotta omissiva del datore,
che non aveva fornito una tuta aderente priva di parti svolazzanti, e l’evento come
in concreto verificatosi. E deve rilevarsi, per mera completezza argomentativa sul
punto di interesse, che il giudizio controfattuale, finalizzato all’accertamento del
nesso di derivazione causale nel reato colposo omissivo improprio, consiste nel
sostituire, nell’ambito della accertata sequenza fenomenologica, alla condotta
concretamente tenuta dal garante, quella, diversa che l’ordinamento si attendeva
da lui; e nel verificare se, tale diversa condotta, avrebbe consentito di scongiurare,
o meno, il verificarsi dell’evento lesivo, secondo i noti criteri di probabilità logica
(cfr. Cass. Sez. 4, Sentenza n. 43786 del 17/09/2010, dep. 13/12/2010, Rv.
248943). Ai fini dell’imputazione causale dell’evento, pertanto, il giudice di merito
deve sviluppare un ragionamento esplicativo che si confronti adeguatamente con le
particolarità della fattispecie concreta, chiarendo che cosa sarebbe accaduto se
fosse stato posto in essere il comportamento richiesto all’imputato
dall’ordinamento. In tale ambito ricostruttivo, i termini della relazione causale sono
dati dalla condotta che l’ordinamento imponeva al garante e l’evento naturalistico
verificatosi in concreto, di talché risulta del tutto eccentrica la considerazione,
introdotta dal difesa, di ordine meramente congetturale, basata sulla possibile
inottemperanza, da parte del lavoratore infortunato, all’obbligo di utilizzare i presidi
di protezione individuale, che pure il datore di lavoro avesse messo a disposizione
del dipendente.
Tanto chiarito, si osserva che la Corte distrettuale ha in particolare
sottolineato: che Sedetti stava installando il macchinario presso un cliente e che
quindi sussisteva il dovere del datore di lavoro di fornire al dipendente un vestiario
adeguato, rispetto alle mansioni da svolgere; e che la scelta, effettuata dal
lavoratore, di entrare nel recinto della macchina in movimento, se pure avventata,
non risultava né imprevedibile né eccentrica, rispetto alle riferite mansioni, affidate
la dipendente.
Deve allora rilevarsi, a questo punto della trattazione, che la Suprema Corte
di Cassazione ha ripetutamente affermato che le norme antinfortunistiche sono
destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione
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macchinario in funzione. Il Collegio ha quindi osservato che risultava dimostrata la

della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni.
Segnatamente, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, nel campo della
sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza che gravano sul datore di lavoro
risultano funzionali anche rispetto alla possibilità che il lavoratore si dimostri
imprudente o negligente verso la propria incolumità; che può escludersi l’esistenza
del rapporto di causalità unicamente nei casi in cui sia provata l’abnormità del
comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa

considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità,
si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte
all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro; e che
l’eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia
esimente per i soggetti aventi l’obbligo di sicurezza che si siano comunque resi
responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Cass.,
sez. 4, sentenza n. 3580 del 14.12.1999, dep. il 20.03.2000, Rv. 215686). E preme
altresì evidenziare che la Suprema Corte ha chiarito che non può affermarsi che
abbia queste caratteristiche il comportamento del lavoratore – come certamente è
avvenuto nel caso di specie – che abbia compiuto un’operazione rientrante
pienamente, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli
(Cass. Sez. 4, Sentenza n. 10121 del 23.01.2007, dep. 9.03.2007, Rv. 236109).
Come si vede, la valutazione espressa dalla Corte territoriale, laddove si è
osservato che la condotta negligente del lavoratore non valeva ad escludere il nesso
causale tra le accertate omissioni in materia di sicurezza riferibili all’imputato e
l’evento, si colloca del tutto coerentemente nell’alveo del richiamato orientamento
interpretativo.
4. Le valutazioni ora svolte, in riferimento alle mansioni affidate al Sedetti, al
quale era stato assegnato il compito di installare il macchinario presso un cliente
della società Teknomac, evidenziano l’infondatezza delle doglianze affidate al
motivo indicato come quarto, nei ricorsi in oggetto. La circostanza che il dipendente
si trovasse, fisicamente, all’esterno dei locali della società, invero, non elide affatto
gli obblighi protettivi gravanti sul datore di lavoro, posto mente al fatto che
l’attività svolta rientrava nell’adempimento delle mansioni specificamente affidate
al Sedetti, quale installatore del macchinario commercializzato dalla Teknomac; e
considerato altresì che l’omissione che si ascrive al Petrolati riguarda, come sopra
rilevato, la mancata fornitura di una tuta aderente, presidio funzionale a garantire
la protezione del lavoratore dal rischio specifico derivante dalla vicinanza con le
parti in movimento del macchinario della cui installazione si tratta.
5. Rileva poi il Collegio che, nel caso, neppure sussistono i presupposti per
l’applicabilità del disposto di cui all’art. 131-bis cod. pen.
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abnormità abbia dato causa all’evento; che, nella materia che occupa, deve

Non sfugge che la Corte di cassazione, pronunciandosi in relazione all’inedito
istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, previsto
dall’art. 131-bis cod. pen., introdotto dal d.lgs. n. 28 del 2015, ha affermato che il
nuovo istituto ha natura sostanziale ed è, quindi, applicabile anche in sede di
legittimità nei procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, a norma
dell’art. 2, quarto comma, cod. pen.; la Corte regolatrice ha, peraltro, sottolineato
che, a tal fine, occorre valutare la sussistenza delle condizioni di applicabilità del

particolare tenendo conto di quanto emerge dalla motivazione della sentenza
impugnata (Cass. Sez. III, sentenza n. 15449 in data 8.04.2015, dep. 15.04.2015,
Rv. 263308).
E bene, applicando i richiamati principi al caso di specie, per condivise
ragioni, deve osservarsi, con rilievo di ordine dirimente, che la natura e l’entità
delle lesioni riportate dalla vittima, come accertate in giudizio, se pure in assenza
di postumi permanenti, conducono ad escludere la sussistenza dei presupposti per
il riconoscimento della invocata causa di non punibilità. Tanto si afferma, posto
mente al fatto che la frattura pluriframmentaria dell’omero destro subita dal
lavoratore e la significativa durata della relativa malattia (ben superiore ad un
anno), escludono che l’offesa arrecata alla salute del lavoratore possa essere
ritenuta di particolare tenuità.
6. Al rigetto del ricorso segue, a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen., la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, in data 26 maggio 2015.

nuovo istituto, fondandosi sui dati emersi nel corso del giudizio di merito, in

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