Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27179 del 26/05/2015


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 27179 Anno 2015
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: MONTAGNI ANDREA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CESARETTI STEFANO N. IL 10/09/1984
avverso la sentenza n. 488/2007 CORTE APPELLO di ANCONA, del
04/04/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 26/05/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANDREA MONTAGNI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Fo do-9,0
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che ha concluso per

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Data Udienza: 26/05/2015

Ritenuto in fatto
1.

La Corte di Appello di Ancona, con sentenza in data 4.04.2013, in

parziale riforma della sentenza di condanna emessa dal G.i.p. presso il Tribunale di
Pesaro in data 19.12.2006, all’esito di giudizio abbreviato, nei confronti di Casaretti
Stefano, in relazione al reato di cui all’art. 73, comma V, d.P.R. n. 309/1990,
afferente alla coltivazione di sette piante di marijuana, rideterminava la pena
originariamente inflitta e confermava nel resto. Al prevenuto si contesta la

coltivazione, con la recidiva specifica infraquinquennale. La Corte territoriale
evidenziava che la questione introdotta dalla difesa riguardava la rilevanza penale
della coltivazione domestica realizzata dal prevenuto; e considerava che la
giurisprudenza di legittimità ha ormai chiarito che costituisce condotta penalmente
rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali siano
estraibili sostanze stupefacenti, anche quando il prodotto sia destinato ad uso
personale. Ciò posto, il Collegio rideterminava la pena originariamente inflitta, pure
confermando il giudizio di bilanciamento, in termini di prevalenza, della riconosciuta
attenuante ex art. 73, comma V, d.P.R. n. 309/1990, sulla contestata recidiva,
effettuato dal primo giudice.
2. Avverso la richiamata sentenza della Corte di Appello di Ancona ha
proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore, deducendo
l’erronea applicazione della legge. La parte reitera la doglianza concernente la
ritenuta rilevanza penale della coltivazione domestica di piante di marijuana, anche
se destinata ad uso personale. Osserva che appare più pericolosa la condotta di chi
acquista droga per uso personale da uno spacciatore, rispetto a chi produce in casa
la medesima quantità di stupefacente.

Considerato in diritto
1. Il motivo al quale il ricorso è affidato non ha pregio.
La Corte di Appello, dopo aver considerato che risultava accertato, in punto
di fatto, che dal principio presente nelle inflorescenze delle sette piante di
marijuana coltivate dall’imputato erano ricavabili n. 76,4 dosi droganti, di talché
doveva escludersi la inoffensività della condotta, ha ribadito il principio di diritto in
base al quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non
autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti,
anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.
Orbene, deve osservarsi che la valutazione espressa dai giudici di merito
risulta conforme al diritto vivente.
Al riguardo, giova in primo luogo richiamare la sentenza della Corte
Costituzionale n. 360 del 1995, con la quale venne rigettata la questione di
legittimità dell’art. 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nella parte in cui non
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violazione della disciplina in materia di stupefacenti, in riferimento alla richiamata

prevede che anche la coltivazione di piante da cui si estraggono sostanze
stupefacenti, venga punita soltanto con sanzioni amministrative, se finalizzata
all’uso personale della sostanza; e dell’art. 73 del medesimo d.P.R. n. 309 del 1990
cit., nella parte in cui prevede la illiceità penale della condotta di coltivazione di
piante indicate dall’art. 26 del d.P.R. n. 309 del 1990, da cui si estraggono sostanze
stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale,
indipendentemente dalla percentuale di principio attivo contenuta nel prodotto della

leggi riguardava il Testo unico in materia di sostanze stupefacenti, nella versione
antecedente alle modifiche introdotte dalla novella del 2006, versione oggi
nuovamente in vigore, a seguito della richiamata sentenza della Corte
Costituzionale n. 32 del 2014.
E bene, la Corte Costituzionale, nella sentenza ora richiamata, ebbe a
rilevare che “…la detenzione, l’acquisto e l’importazione di sostanze stupefacenti per

uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente
all’uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del
legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente
antecedente al consumo, ha già operato una scelta che, ancorché valutata sempre
in termini di illiceità, l’ordinamento non intende contrastare nella più rigida forma
della sanzione penale, venendo in rilievo, in un contesto emergenziale di
contingente aggravamento delle conseguenze delle tossicodipendenze, il rischio alla
salute dell’assuntore ove ogni condotta immediatamente antecedente al consumo
fosse assoggettata a sanzione penale”;

e che, di converso, nel caso della

coltivazione “manca questo nesso di immediatezza con l’uso personale e ciò

giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella
discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti
propedeutici all’approvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale”.
La Corte Costituzionale, nella sentenza in commento, ebbe quindi a
considerare che la stessa nozione di destinazione ad uso personale si presta ad
essere apprezzata in termini diversi nelle situazioni qui comparate. Ciò in quanto
nel caso della coltivazione non è apprezzabile “ex ante” con sufficiente grado di
certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo, più o meno ampio, della
coltivazione in atto, sicché anche la previsione circa il quantitativo di sostanza
stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione
della destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio,
risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili.
Si osserva, poi, che nell’alveo dell’orientamento interpretativo ora
richiamato, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno affermato
che costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di
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coltivazione stessa. Con la precisazione che la valutazione espressa dal giudice delle

coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, anche
quando il prodotto sia destinato ad uso personale. Per quanto concerne la
fattispecie della coltivazione idonea all’estrazione di sostanza stupefacente, cioè, le
Sezioni Unite di questa Suprema Corte hanno chiarito che costituisce condotta
penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante,
dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti; e ciò anche quando la stessa sia
realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale (Cass. Sez. U,
sentenza n. 28605, del 24.04.2008, dep. 10.07.2008, Rv. 239920). Si evidenzia

che le modifiche introdotte con l’intervento normativo del 2006 non avevano
altrimenti inciso sulla rilevanza penale della coltivazione; e che il legislatore, nel
caso, aveva inteso attribuire a tale condotta comunque e sempre una rilevanza
penale, indipendentemente dalle caratteristiche della coltivazione e dal quantitativo
di principio attivo ricavabile dalle delle piante. Pertanto, deve rilevarsi, ai fini di
interesse, che la richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, che
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina introdotta nel 2006, non
sortisce ricadute sul percorso interpretativo ora richiamato.
Alla luce dei superiori rilievi, si evidenzia che le censure in esame non hanno
pregio, giacché si limitano a contraddire, in assenza di nuove argomentazioni, il
richiamato orientamento interpretativo, espresso dalla giurisprudenza costituzionale
e dalle Sezioni Unite della Corte regolatrice, che assegna rilevanza penale a
qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili
sostanze stupefacenti, anche quando la stessa sia realizzata per la destinazione del
prodotto ad uso personale.
Tanto premesso, osserva il Collegio che la pena applicata al prevenuto, in
riferimento al reato per cui si procede, risulta illegittima, in ragione delle modifiche
normative che sono intervenute dopo il deposito del presente ricorso.
Nel caso di specie, è stata riconosciuta l’ipotesi di cui all’art. 73, comma V,
d.P.R. n. 309/1990, fattispecie interessata dalle modifiche introdotte dall’art. 2,
comma 1, d.l. 23 dicembre 2013 n. 146, convertito con modificazioni dall’art. 1,
comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n.10.
Ai fini di interesse, ci si limita a rilevare che la fattispecie di cui all’art. 73,
comma V, d.P.R. n. 309/1990, per effetto delle richiamate modifiche, deve
qualificarsi come autonoma ipotesi di reato. Invero, il testo della norma in esame,
per effetto delle modifiche introdotte dalla novella ora richiamata, stabilisce
espressamente che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque
commette uno dei fatti previsti dal presene articolo che, per i mezzi, le modalità o
le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze è di lieve
entità, è punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da
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che le Sezioni Unite, nella motivazione della citata sentenza, hanno sottolineato

euro 3.000 a euro 26.000”. Orbene, l’impiego della richiamata clausola di riserva
evidenzia che la disposizione integra una autonoma fattispecie di reato, rispetto alle
più gravi ipotesi previste dal medesimo art. 73, d.P.R. n. 309/1990.
Occorre poi considerare che la materia di interesse è stata oggetto di un
ulteriore intervento correttivo, ad opera della legge 16 maggio 2014, n. 79, di
conversione, con modificazioni, del decreto legge 20 marzo 2014, n. 36, recante

Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,

decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di impiego
di medicinali meno onerosi da parte del Servizio sanitario nazionale (pubblicata in
G.U. n.115 del 20.05.2014).
Per effetto del richiamato intervento normativo, il tenore dell’art. 73,
comma 5, d.P.R. n. 309/1990, è il seguente: “5. Salvo che il fatto costituisca più

grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che,
per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e
quantità delle sostanze, e’ di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da
sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329”.

La cornice

sanzionatoria, per la fattispecie di cui al V comma, dell’art. 73, cit., pertanto,
risulta compresa – sia per le droghe leggere che per le droghe pesanti – tra il
minimo di sei mesi ed il massimo di quattro anni di reclusione, oltre la multa.
E bene, la cornice edittale applicabile alla autonoma fattispecie di reato
oggetto del presente giudizio, in base al principio di retroattività della legge più
favorevole, ex art. 2, comma 4, cod. pen., prevede pene sensibilmente inferiori,
rispetto a quelle alle quali hanno fatto riferimento i giudici di merito nel
determinare il trattamento sanzionatorio, rispetto alla fattispecie di cui al V comma
dell’art. 73, d.P.R. n. 309/1990. Ed invero il trattamento sanzionatorio in materia di
sostanze stupefacenti applicato dalla Corte di Appello è quello previsto dal d.P.R. n.
309/1990, nella versione oggetto delle modifiche introdotte dal d.l. 30 dicembre
2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 – di
poi dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale del 12 febbraio 2014 n. 32 – di
talché la pena, ai sensi dell’art. 73, comma V, d.P.R. n. 309/1990, era compresa da
uno a sei anni di reclusione, oltre la multa.
L’ordine di considerazioni che precede induce conclusivamente a rilevare
che le evidenziate sostanziali modifiche alla cornice edittale di riferimento risultano
rilevanti, rispetto alla valutazione sulla congruità della pena complessivamente
inflitta nel caso di specie, poiché i giudici di merito hanno individuato lo specifico
trattamento sanzionatorio sulla base di una diversa cornice edittale, di talché la
pena irrogata si colloca oggi in una diversa fascia dello schema sanzionatorio
applicabile, rispetto alla richiamata fattispecie in addebito. Si osserva poi che la
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prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al

natura autonoma della fattispecie caratterizzata dalla lievità del fatto sottrae, ora,
quest’ultima al giudizio di comparazione previsto dall’art. 69 cod. pen., con il
duplice effetto di imporre, da un lato, l’applicazione della più favorevole disciplina
edittale della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa introdotta dal d.l.
20 marzo 2014, n. 36, art. 1, comma 24 ter, convertito con modificazioni dalla
Legge 16 maggio 2014, n. 79, e di incidere, dall’altro, sul giudizio di bilanciamento
già operato, ora da rivisitare bilanciando la contestata recidiva eventualmente con

27/06/2014, dep. 29/07/2014, Rv. 260125).
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio
alla Corte di Appello di Perugia per nuovo esame, limitatamente alla
determinazione del trattamento sanzionatorio. Nel resto il ricorso deve essere
rigettato. Ai sensi e per gli effetti dell’art. 624, comma 2, cod. proc. pen., rileva il
Collegio che la sentenza impugnata è divenuta irrevocabile, in riferimento alla
affermazione di penale responsabilità dell’imputato, per il reato in addebito.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con
rinvio sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Perugia.
Rigetta il ricorso nel resto.
Visto l’art. 624 cod. proc. pen. dichiara l’irrevocabilità della sentenza in ordine
all’affermazione di responsabilità dell’imputato.
Così deciso in Roma in data 26 maggio 2015.

le sole circostanze attenuanti generiche (cfr. Cass. Sez. 4, Sentenza n. 33423 del

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