Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27162 del 27/04/2015


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 27162 Anno 2015
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PERASSI DARIO, nato il 27/10/1945
ROSAZZA PRIN SIMONE, nato il 12/01/1987
avverso la sentenza n. 741/2014 CORTE APPELLO di TORINO, del
13/02/2014;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/04/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. SANTE SPINACI che ha
concluso per il rigetto dei ricorsi;
udito per le parti civili l’Avv. DEANGELIS, per delega del difensore di fiducia
Avv. ROBERTO LAMACCHIA del Foro di Torino, il quale ha concluso per
l’inammissibilità o il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente Perassi l’Avv. SANDRO DELMASTRO DELLE VEDOVE del
Foro di Biella il quale si è riportato i motivi e ha chiesto l’accoglimento del
ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 25/01/2012 il Tribunale di Ivrea dichiarava Dario
Perassi, quale legale rappresentante della società Perassi Giorgio S.r.l., e Simone
Rosazza Prin, titolare dell’omonima impresa individuale, colpevoli del reato p. e

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Data Udienza: 27/04/2015

p. dagli artt. 113 e 589, commi primo e secondo, cod. pen. loro ascritto per
avere, nelle qualità appresso descritte, cagionato in cooperazione colposa tra di Q’ø

)

la morte di Fabio Castaldelli, avvenuta il 7/5/2008 a seguito di infortunio
sul lavoro.
Il sinistro si era verificato nel corso dei lavori di posa in opera di una nuova
copertura in pannelli di lamiera coibentata dell’edificio «Elevatore Idraulico», di
proprietà del Consorzio Irriguo di Cigliano, Borgo D’Aie, Villareggia, Moncrivello,
commessi in appalto alla Perassi Giorgio S.r.l. e in funzione dei quali era stato

Era accaduto che il Castaldelli, dipendente della Perassi Giorgio S.r.l., salito
sul colmo del tetto per eseguire alcuni interventi di finitura, privo di casco
protettivo e di cinture di sicurezza, era scivolato sulla liscia lamiera coibentata
bagnata dalla pioggia ed era stato spinto per gravità verso il ponteggio la cui
tavola fermapiedi non aveva retto all’urto e, sganciandosi, non ne aveva
impedito la caduta da un’altezza di circa 10-11 metri da cui erano derivate gravi
lesioni che lo avevano condotto a morte.
Il tragico evento era ascritto a Dario Perassi, nella qualità predetta di datore
di lavoro del Castaldelli, per aver redatto un piano operativo di sicurezza
inidoneo alla particolare tipologia dei lavori da svolgere, non avendo in
particolare previsto le modalità di verifica dell’idoneità del ponteggio quale
sistema di protezione collettivo per le cadute dei lavoratori; per non aver
installato alcun dispositivo di protezione contro le cadute; per non aver
predisposto un idoneo sistema di posizionamento mediante funi, né sistemi di
protezione individuale (cinture di sicurezza); per non aver fornito al Castaldelli
una formazione adeguata e mirata alle operazioni previste, né in particolare una
adeguata informazione circa l’utilizzo delle cinture di sicurezza.
Era inoltre ascritto a Simone Rosazza Prin, quale titolare della ditta fornitrice
del ponteggio, per aver omesso di elaborare un progetto che ne verificasse la
resistenza ai sovraccarichi orizzontali in caso di caduta degli operai dalle falde o
dal colmo del tetto; per aver approntato opere provvisionali non idonee e
proporzionate allo scopo per cui erano state allestite, non essendo il ponteggio
provvisto di un parapetto idoneo a contenere i predetti sovraccarichi orizzontali.
Concesse le attenuanti generiche al solo Rosazza Prin, con giudizio di
equivalenza rispetto alla contestata aggravante, il Tribunale condannava Dario
Perassi alla pena di due anni di reclusione e Simone Rosazza Prin a quella di un
anno di reclusione, con il beneficio, per quest’ultimo, della sospensione
condizionale. Condannava, inoltre, entrambi gli imputati in solido al risarcimento
dei danni in favore delle parti civili, liquidati: in favore di Matteo Castaldelli,
Edoardo Castaldelli e Ilaria Pastorello, in € 300.000,00 per ciascuno; in favore di
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elevato un ponteggio, fornito dalla ditta Rosazza Prin Simone.

Carla De Stefano e Tonino Castaldelli, in C 155.000,00; in favore di Gabriele
Castaldelli, in C 77.500; nonché al risarcimento dei danni anche in favore della
Filca Cisl Biella da liquidarsi in separata sede.

2. Interposto gravame da parte di entrambi gli imputati, la Corte d’appello di
Torino, con sentenza del 13/2/2014, in parziale riforma della sentenza appellata
riconosceva anche in favore di Dario Perassi le circostanze attenuanti generiche
con giudizio di equivalenza sulla contestata aggravante e dichiarava, nei

aggravante, per l’effetto rideterminando la pena, nei confronti del primo, in un
anno e quattro mesi di reclusione e, nei confronti del secondo, in otto mesi di
reclusione; concedeva al primo il beneficio della sospensione condizionale della
pena e al Rosazza Prin anche quello della non menzione. Confermava nel resto
l’impugnata sentenza.

3. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione entrambi gli
imputati, per mezzo dei rispettivi difensori.
Dario Perassi articola a fondamento del proprio ricorso quattro motivi.

3.1. Con il primo deduce inosservanza o erronea applicazione della legge
penale in relazione alla ammissione della costituzione di parte civile della FilcaCìsl.
Sostiene che avrebbe dovuto ritenersi la carenza di legittimazione attiva del
predetto sindacato, in mancanza di un danno derivante dalla lesione di un
interesse proprio dell’associazione sindacale, eziologicamente riferibile alla
condotta penalmente sanzionata, non essendovi in particolare alcuna coincidenza
tra il bene giuridico tutelato dall’art. 589 cod. pen. (ossia il diritto alla vita inteso
come bene individuale) e i diritti e gli obiettivi perseguiti dall’associazione
sindacale.
Contesta inoltre che i documenti richiamati in sentenza possano costituire
prova certa dell’iscrizione del Castaldelli all’organizzazione sindacale.

3.2. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione in relazione
all’affermazione di penale responsabilità.
Rileva anzitutto che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che non vi
fossero elementi per riconoscere in capo alla vittima la qualifica di preposto e
capo cantiere, assumendo che tale affermazione è frutto di una valutazione
lacunosa e parziale delle emergenze probatorie. Richiama, al riguardo, le
deposizioni dei testi Rivardo e Perassi Andrea dalle quali emergerebbe una
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confronti dell’altro imputato, prevalenti le già concesse attenuanti generiche sulla

posizione di totale autonomia del Castaldelli nell’esecuzione del lavoro
assegnatogli e nella direzione delle relative fasi e che, inoltre, egli venne
assunto, circa quattro anni prima dell’incidente, come carpentiere esperto,
essendosi anche pattuita una paga superiore proprio in considerazione della
maggiore esperienza acquisita. Rileva che analoga valutazione venne espressa
anche dal consulente del PM.
Sotto altro profilo contesta l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui
mancavano sul luogo di lavoro le cinture di sicurezza ma queste erano soltanto a

provato, in particolare dalla trascrizione della deposizione del consulente del PM
resa all’udienza del 19/10/2011, che le cinture erano presenti in numero
sufficiente presso l’ufficio/magazzino della sede della ditta e che, inoltre,
diversamente da quanto affermato in sentenza, era possibile ancorarle al
ponteggio anche prima dell’infortunio.
Deduce ancora l’illogicità e la contrarietà alle risultanze dibattimentali
dell’affermazione secondo cui non vi sarebbe agli atti prova adeguata della
partecipazione del lavoratore a corsi di formazione, richiamando in particolare le
deposizioni dei testi Fasso e Anselmo; sostiene che, piuttosto, la decisione di
accedere al colmo del tetto senza precauzioni era da attribuirsi esclusivamente a
una iniziativa imprudente e negligente dello stesso lavoratore.
Contesta, infine, l’affermata esistenza di lacune nel piano operativo di
sicurezza nonché la riferibilità ad esso ricorrente della omessa verifica
dell’idoneità del ponteggio rispetto alle finalità prevenzionistiche che lo stesso
avrebbe dovuto svolgere, essendo stata l’esecuzione del ponteggio e la relativa
verifica di idoneità affidata esclusivamente alla ditta Rosazza Prin Simone.

3.3. Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in
relazione alla commisurazione della pena.
Rileva in particolare la carenza di motivazione dell’operato giudizio di
equivalenza tra circostanze, specie in relazione al risarcimento effettuato.

3.4. Con il quarto motivo, infine, deduce violazione di legge e vizio di
motivazione in relazione alla quantificazione del danno riconosciuto in favore
delle parti civili.
Rileva che la liquidazione del danno è immotivata, facendo riferimento a
circostanze semplicemente dedotte ma mai provate in dibattimento, quali il
rapporto con i congiunti e il ruolo di sostegno economico dei genitori. Sostiene
che, in assenza di prova specifica del maggior danno, il giudice di merito avrebbe
dovuto attenersi ai valori minimi previsti dalle tabelle milanesi.
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disposizione dei lavoratori in magazzino. Assume di contro che risulterebbe

Chiede infine disporsi la sospensione dell’esecuzione delle statuizioni civili in
ragione del grave danno che l’impresa ne subirebbe, in quanto piccola impresa
artigiana occupante, all’epoca dell’infortunio, quattro dipendenti.

4. Simone Rosazza Prin pone a fondamento del proprio ricorso due motivi.

4.1. Con il primo deduce la nullità della sentenza impugnata per mancata
assunzione di una prova decisiva (art. 606 lett. d cod. proc. pen.), quale –

legale rappresentante della ditta Global Sei -vice s.n.c., che aveva provveduto alla
rimozione delle lastre di fibro-cemento (eternit) dal tetto del cantiere del
consorzio committente: questa, infatti, secondo il ricorrente, avrebbe dimostrato
come tutte le operazioni di rimozione delle lastre e di rifacimento del tetto erano
state effettuate utilizzando il piano dì calpestio, senza accedere al tetto, in
assoluta sicurezza.

4.2. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione, anche per
travisamento di prova, in relazione all’affermazione di penale responsabilità.
Lamenta, anzitutto, che la Corte d’appello ha fatto esclusivo riferimento alla
erronea previsione contenuta nel piano operativo di sicurezza secondo cui il
ponteggio avrebbe dovuto presentare un parapetto al piano del tetto di altezza
non inferiore a 1,20 4:oltre la linea di gronda, al fine di proteggere il rischio di
caduta dall’alto durante la realizzazione del tetto, omettendo di considerare che
invece il PIMUS (piano di montaggio uso e smontaggio) del ponteggio fornito da
esso ricorrente si limitava a garantire la protezione dalle cadute dal piano di
calpestio del ponteggio medesimo e non dalle cadute dal tetto dell’edificio.
Rileva che, del resto, l’oggetto specifico e la tipologia dei lavori da eseguire
gli erano ignoti, essendosi egli limitato solo a fornire i componenti del ponteggio,
senza provvedere alle operazioni di montaggio effettuate da altra ditta e senza
comunque essere stato più richiamato in cantiere successivamente, rimanendo
pertanto priva di giustificazione l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui
egli «non poteva ignorare le lavorazioni da svolgere sul tetto, né il fatto che,
dopo la rimozione dell’amianto, doveva essere posizionato un nuovo tetto».
Deduce che, parimenti, la Corte territoriale non ha tenuto conto delle
valutazioni espresse dallo stesso consulente tecnico del PM secondo cui il
materiale fornito e, in particolare, la tavola fermapiede, erano conformi alla
normativa ed erano stati montati correttamente, tanto che lo stesso consulente
ha ritenuto che il sinistro fosse da imputarsi esclusivamente alla mancata
predisposizione e adozione dei dispositivi di protezione individuale.
5

assume – doveva considerarsi la richiesta audizione del teste Patrizio Parisio,

Sottolinea che, secondo concorde valutazione dei consulenti, anche la
predisposizione di un rinforzo al parapetto non sarebbe stata rispettosa delle
norme di sicurezza, prevedendo queste che le cadute dalla falda del tetto
vengano evitate esclusivamente a mezzo dell’utilizzo di cinture di sicurezza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

5. È infondato il secondo motivo del ricorso proposto da Dario Perassi, il cui

responsabilità.
La Corte d’appello motiva adeguatamente il proprio convincimento sul
punto, conforme j51.4–Dyerfoí a quelle del giudice di primo grado, evidenziando
l’esistenza di gravi carenze in tema di sicurezza tali da interpellare le dirette
responsabilità del datore di lavoro. Ha rimarcato in tal senso, per quel che in
questa sede interessa: la mancanza di cinture di sicurezza, non presenti sul
luogo di lavoro ma solo «a disposizione» in magazzino; la mancata previsione nel
piano di sicurezza di una adeguata verifica della tenuta del ponteggio, rapportata
alla situazione del luogo di lavoro e al previsto posizionamento di un tetto molto
spiovente, il quale avrebbe richiesto un ancoraggio in realtà omesso;
l’insussistenza di elementi certi indicativi della qualità in capo alla vittima di
preposto e l’irrilevanza comunque della circostanza, anche in tal caso dovendo
nei suoi confronti predisporsi adeguati mezzi di protezione collettivi e individuali
rispetto al rischio di caduta; l’impossibilità di qualificare il comportamento della
vittima come abnorme, posto che egli stava svolgendo le mansioni che gli erano
state assegnatecon modalità bensì imprudenti ma non tali da potersi le stesse
ritenere eccezionali e imprevedibili; l’inadempimento del datore di lavoro
dell’obbligo di dare idonee e concrete istruzioni per le operazioni da svolgere sul
tetto spiovente.
Tali affermazioni poggiano su un impianto motivazionale intrinsecamente
coerente, il quale si sottrae – tanto più se integrato, come è necessario fare, con
le ampie ed esaustive valutazioni svolte nella conforme sentenza di primo grado
(pagg. 10 – 25) – alle censure del ricorrente, volte essenzialmente a contestarne
la fondatezza e a contrapporvi conclusioni di segno opposto, alla stregua, però,
di un discorso meramente valutativo, inidoneo a palesare l’esistenza di lacune o
contraddizioni evidenti nell’opposto ragionamento e caratterizzato piuttosto da
un esame solo parziale degli elementi considerati dai giudici di merito e delle
argomentazioni dagli stessi svolte.
Così in particolare la circostanza che il Castaldelli avesse o meno la qualifica
di preposto, oltre ad essere stata esclusa come detto dai giudici di merito, sulla
6

esame deve ritenersi preliminare, investendo esso l’affermazione di penale

base di una esauriente valutazione dei mezzi di prova, condotta con linearità
argomentativa e pertanto insindacabile in questa sede, è stata anche rettamente
valutata come irrilevante ai fini del riscontro delle omissioni ascritte al datore di
lavoro, in quanto riferita – come rimarcato dalla Corte territoriale, sul punto non
fatta segno di specifica censura – ad obblighi dai quali lo stesso non può ritenersi
sollevato nei confronti del preposto. La previsione di tale figura è diretta infatti
ad affiancare a quella del datore di lavoro altra posizione di garanzia con compiti
di più stretta e diretta vigilanza in cantiere, da valere nei confronti degli altri

vigilanza – sia pure meno assidua e stringente, e quindi ad un livello
sopraordinato, ove ciò sia reso necessario dalle dimensioni dell’azienda – sulla
corretta osservanza, anche da parte del preposto ed anche a salvaguardia della
sua stessa sicurezza, delle misure e dei protocolli di sicurezza, né tanto meno da
quelli su di lui gravanti – e che nel caso di specie vengono in rilievo – di
formazione, informazione, attenta analisi dei rischi, predisposizione di adeguate
misure di sicurezza.
Analogamente, con riferimento alla dedotta disponibilità di cinture di
sicurezza, il Tribunale ha rimarcato che queste, non presenti in cantiere, erano
bensì presenti in magazzino ma in numero inferiore agli addetti alle lavorazioni di
carpenteria, ciò ulteriormente provando che l’uso delle stesse non era previsto
né attuato quale misura di protezione aggiuntiva.
Anche con riferimento all’attività di formazione il trilgunale, proprio sulla
I
base delle dichiarazioni dei testi Anselmo e Fasso, cui si fa rferimento in ricorso,
ha evidenziato che i lavoratori erano stati sottoposti a un corso di formazione
molto generico, nel quale comunque non era stato spiegato come ancorare le
cinture di sicurezza, avendo anzi essi maturato il convincimento che queste
dovevano essere indossate soltanto quando non c’era il ponteggio.
Ha infine evidenziato il primo giudice, sulla base della perizia, che: il P.O.S.
della ditta Perassi non contemplava il rischio di scivolamento, né l’uso delle
cinture di sicurezza nella fase della posa in opera dei pannelli di copertura sul
tetto spiovente; la previsione di un «rischio caduta dall’alto» era generica e
riguardava comunque un rischio diverso da quello («caduta da scivolamento»)
tragicamente verificatosi; correlativamente esso prevedeva bensì genericamente
l’uso dell’imbracatura, senza tuttavia specificare le modalità con cui operare
l’aggancio della cinture ad un punto fisso, con particolare riferimento alle
lavorazioni da compiere sul tetto.
Allo scopo di contrastare tali considerazioni il ricorrente propone una
rilettura degli elementi istruttori richiamati testualmente per ampi stralci nel
corpo stesso del ricorso, in tal modo sollecitando una rivalutazione degli stessi
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lavoratori, ma non ad esonerare il datore dagli obblighi su di esso gravanti di

come noto inammissibile nel giudizio di legittimità o, a tutto concedere,
ipotizzando un vizio di travisamento di prova.
Sul punto è, però, appena il caso di rammentare, anzitutto, che versandosi come detto – in ipotesi di c.d. doppia conforme e cioè di doppia pronuncia di
eguale segno (nel nostro caso, di condanna), un travisamento di prova potrebbe
essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti
(con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è
stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione

Rv. 243636).
Invero, sebbene in tema di giudizio di cassazione, in forza della novella
dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. introdotta dalla legge n. 46 del
2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando
nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel
processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può
essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella
di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite
del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice
d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti
a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (v. Sez. 2, n. 5223 del
24/01/2007, Medina, Rv. 236130).
Nel caso di specie, invece, il giudice di appello ha riesaminato lo stesso
materiale probatorio già sottoposto al Tribunale e, dopo avere preso atto delle
censure dell’appellante, è giunto alla medesima conclusione della sussistenza
della dedotta responsabilità.

6. È altresì palesemente infondato il terzo motivo di ricorso afferente il
trattamento sanzionatorio.
Al riguardo varrà rammentare che in tema di valutazione dei vari elementi
per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di
comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del
sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Corte non solo
ammette la c.d. motivazione implicita (Sez. 6, n. 36382 del 04/07/2003,
Dell’Anna, Rv. 227142) o con formule sintetiche (tipo «si ritiene congrua» v. Sez.
6 , n. 9120 del 02/07/1998, Urrata, Rv. 211583), ma afferma anche che le
statuizionì relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed
attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., sono
censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o
ragionamento illogico (Sez. 3, n. 26908 del 22/04/2004, Ronzoni, Rv. 229298).
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del provvedimento di secondo grado (Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, Buraschi,

Parimenti, con specifico riferimento alla dosimetria della pena, è stato
condivisibilmente precisato che «la determinazione della misura della pena tra il
minimo e il massimo edittale rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di
merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato globalmente gli
elementi indicati nell’art. 133 cod. pen. Anzi, non è neppure necessaria una
specifica motivazione tutte le volte in cui la scelta del giudice risulta contenuta in
una fascia medio bassa rispetto alla pena edittale»

(Sez. 4, n. 41702 del

20/09/2004, Nuciforo, Rv. 230278).

caso in esame, la quantificazione della pena ovvero il giudizio di equivalenza
delle circostanze eterogenee ritenuto in sentenza, siano frutto di arbitrio o di
illogico ragionamento o che comunque si espongano a censura di vizio di
motivazione, avendo il giudice a quo sia pure sinteticamente motivato con
generico, ma tuttavia sufficiente e insindacabile, riferimento a «tutti i parametri
di cui all’art. 133 cod. pen.».

7. Deve invece ritenersi inammissibile – in quanto precluso dalla mancata
proposizione di specifico motivo di censura nel precedente grado d’appello e,
comunque, perché aspecifico – il quarto motivo di ricorso inerente alla
quantificazione del danno in favore dei congiunti della vittima, costituiti parti
civili, in quanto asseritamente eseguita in termini difformi da quanto previsto
dalle c.d. tabelle milanesi per la liquidazione del danno (non patrimoniale) da
perdita del rapporto parentale.
Secondo principio consolidato nella giurisprudenza civile di questa Corte,
certamente applicabile anche in questa sede stante il carattere strettamente
civilistico della statuizione impugnata e delle stesse ragioni di doglianza, nella
liquidazione del danno non patrimoniale, l’applicazione di criteri diversi da quelli
risultanti dalle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano può essere fatta valere
in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, soltanto quando in grado
di appello il ricorrente si sia specificamente doluto della mancata liquidazione del
danno in base ai valori delle tabelle milanesi ed abbia altresì versato in atti dette
tabelle (v. Cass. Civ., Sez. 3, Sentenza n. 24205 del 13/11/2014, Rv. 633430)
Nel caso di specie il ricorrente non aveva proposto specifico motivo di
appello sul punto, tanto meno vi era menzione delle tabelle da applicare o
produzione delle stesse.
Peraltro le tabelle milanesi risultano invece espressamente richiamate nella
sentenza di primo grado, sia pure senza alcuna particolare illustrazione delle
stesse né della scelta operata tra il minimo e il massimo, ciò tuttavia bastando a
rendere a maggior ragione avvertita l’esigenza, nel caso di specie per quanto
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In relazione alle esposte coordinate di riferimento è da escludersi che, nel

detto non soddisfatta, di una tempestiva e specifica impugnazione atta a
dimostrare l’inosservanza delle tabelle richiamate.

8. È infine infondato il primo motivo si ricorso, con il quale come detto il
ricorrente si duole della ammessa costituzione di parte civile del sindacato Filca
Cisl Biella.
Come questa Corte ha avuto modo di più volte affermare, è ammissibile,
indipendentemente dall’iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di

lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica,
quando l’inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e
diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita
di credibilità dell’azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con
riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie
professionali (vds. in tal senso il precedente, correttamente richiamato da
entrambi i giudici di merito, di Sez. 4, n. 22558 del 18/01/2010, Ferraro, Rv.
247814).
Nello stesso senso, più in generale è stato anche di recente autorevolmente
ribadito il principio secondo cui è ammissibile la costituzione di parte civile di
un’associazione anche non riconosciuta che avanzi,

iure proprio, la pretesa

risarcitoria, assumendo di aver subito per effetto del reato un danno,
patrimoniale o non patrimoniale, consistente nell’offesa all’interesse perseguito
dal sodalizio e posto nello statuto quale ragione istituzionale della propria
esistenza ed azione, con la conseguenza che ogni attentato a tale interesse si
configura come lesione di un diritto soggettivo inerente la personalità o identità
dell’ente (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn, Rv. 261110,
nel noto caso ThyssenKrupp, processo riguardante il decesso di alcuni dipendenti
a causa della violazione delle norme di prevenzione degli infortuni, con
riferimento al quale le Sezioni Unite hanno riconosciuto la legittimazione a
costituirsi parte civile dell’associazione “Medicina Democratica – Movimento per la
salute – Onlus”, che persegue statutariannente lo scopo di tutelare la salute dei
lavoratori nell’ambiente di lavoro).
Il ricorrente del resto si richiama anche lui espressamente al primo dei
succitati precedenti, per ricavarne però l’onere da parte del sindacato di dar
prova di aver subito un danno diretto conseguente alla lesione ad un proprio
interesse compreso o comunque legato ai propri scopi statutari e per sostenere
pertanto, sull’assunto della mancanza di tale prova, l’infondatezza della pretesa
risa rcitoria .
Tale assunto, però, non può essere condiviso, dovendosi invece tale lesione
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parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o

- nel caso, quale quello di che trattasi, di infortunio sul lavoro derivante dalla
violazione delle norme per la prevenzione e la sicurezza sui luoghi di lavoro ritenere in re ipsa e con essa anche il conseguente pregiudizio, quanto meno
potenziale e

sub specie

di danno non patrimoniale, salvi gli opportuni

approfondimenti sull’entità dello stesso opportunamente demandati al separato
giudizio civile.
Come, infatti, condivisibilmente evidenziato proprio dall’arresto di Sez. 4, n.

tutela delle condizioni di lavoro intese non soltanto nei profili collegati alla
t
stabilità del rapporto e agli aspetti ecònomici dello stesso, oggetto principale e
specifico della contrattazione collettiva:, ma anche per quanto attiene la tutela
delle libertà individuali e dei diritti primari del lavoratore tra i quali quello,
costituzionalmente riconosciuto, della àalute. La tutela delle condizioni di lavoro
con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e di prevenzione delle malattie
professionali costituisce sicuramente il specie nel momento attuale, uno dei
compiti delle organizzazioni sindacali, di ciò potendosi trovare ampio
riconoscimento in plurime fonti riormative – interne e sovranazionali,
puntualmente richiamate nel cit. preCedente – tra le quali: a) l’art. 9 dello
Statuto dei lavoratori ha costituito il primo riconoscimento della presenza
organizzata dei lavoratori a tali finif consentendo la costituzione di proprie
rappresentanze con il compito di controllare l’applicazione delle norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavol -o e delle malattie professionali e di
promuovere la ricerca al fine della migliore tutela della loro salute e integrità
fisica; b) la Direttiva CEE n. 391 del 12 giugno 1989 che, con riferimento alla
sicurezza sul lavoro, sollecitava gli Stati a garantire ai lavoratori e ai loro
rappresentanti un diritto di partecipazione conforme alle prassi e/o alle
legislazioni dei singoli Stati; c) gli artU 18 e 20 del d.lgs. 19 settembre 1994, n.
626, che dando attuazione della direttiva, hanno previsto che in tutte le aziende
o unità produttive deve essere eletto o designato il rappresentate dei lavoratori
per la sicurezza, con funzioni di accesso, consultazione e proposizione
espressamente previste e con garanzie di libertà per l’esercizio dei suoi compiti e
la costituzione, a livello territoriale, di «organismi paritetici tra le organizzazioni
sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, con funzioni di orientamento e di
promozione di iniziative formative nei confronti dei lavoratori»; d) il d.lgs. 9
aprile 2008, n. 81 (Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza
nei luoghi di lavoro), che ha confermato ed anzi rafforzato il descritto sistema,
distinguendo tre tipologie di rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza,
rispettivamente al livello aziendale, territoriale o di comparto, e di sito
produttivo; assicurando loro una specifica formazione i cui contenuti sono
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12558 del 2010, è pacifico che il sindacato annovera tra le proprie finalità la

demandati alla contrattazione collettiva; prevedendo altresì la presenza di dieci
esperti designati delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente
più rappresentative a livello nazionale all’interno della «Commissione consultiva
permanente per la salute e sicurezza sul lavoro» costituita presso il Ministero del
Lavoro; prevedendo infine un potere di interpello al Ministero del lavoro da parte
delle stesse organizzazioni sindacali.
Non può pertanto dubitarsi che la violazione, con le tragiche conseguenze di
che trattasi, della normativa in tema di sicurezza comporti al tempo stesso, oltre

lavoratore destinatario di quelle norme, anche la lesione dei suddetti interessi
dell’associazione di categoria, in ragione di una ben possibile capacità del fatto
illecito di ledere al tempo stesso più interessi non patrimoniali (plurioffensività
del fatto illecito), di cui siano titolari la stessa persona (fisica o giuridica) o
invece riconducibili a diversi titolari (come accade nella specie).
Né può revocarsi in dubbio la almeno potenziale derivabilità da tale lesione
di pregiudizi di carattere non patrimoniale, sub specie in particolare di danno
all’immagine, rappresentato dalla diminuzione della considerazione dell’ente nel
che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che
tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi
dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente medesimo, sia sotto il profilo della
diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o
categorie di essi con le quali l’ente di norma interagisca (v. Cass. civ., Sez. 3, n.
4542 del 22/03/2012, Rv. 621596; Sez. 3, n. 12929 del 04/06/2007, Rv.
597309).
Ciò che in definitiva certamente giustifica sia l’ammissione di costituzione di
parte civile, sia la condanna generica al risarcimento dei danni.

9. Venendo quindi al ricorso proposto da Simone Rosazza Prin, se ne deve
parimenti rilevare l’infondatezza.

9.1. A fondamento dell’affermazione di penale responsabilità è posta dai
giudici di merito, con valutazione conforme, la inadeguatezza del ponteggio
realizzato dal predetto rispetto alla finalità prevenzionistíche che lo stesso
avrebbe dovuto assicurare, secondo l’espressa previsione del piano di sicurezza,
anche rispetto al rischio di caduta dall’alto «durante la realizzazione del tetto»:
finalità di cui si ritiene, sulla base di emergenze documentali puntualmente
richiamate, il Rosazza Prin fosse pìenamente consapevole e del resto
testimoniata anche dalla previsione che il ponteggio dovesse risultare munito di
un parapetto di altezza non inferiore a 1,20 m oltre la linea di gronda, non
12

che naturalmente la lesione di beni primari alla vita e alla salute proprio del

altrimenti comprensibile se non in funzione di prevenire il rischio di caduta
dall’alto di chi si trovasse a operare sul tetto.
L’inadeguatezza a posteriori evidentemente rivelatasi di tale parapetto è poi
ascritta a colpa del Rosazza Prin in ragione della omessa verifica della capacità di
resistenza delle relative strutture anche rispetto ad eventuali azioni orizzontali
derivanti dallo scivolamento in falda (i calcoli contenuti nel progetto nonché nel
P.I.M.U.S. riguardano infatti la resistenza del ponteggio, e dei diversi suoi
elementi, ai carichi verticali) ed, inoltre, per avere egli omesso di verificare

predetto più ritornato in cantiere.
La tesi secondo cui tali calcoli non erano necessari poiché, trattandosi di
lavorazione in quota, oltre l’ultimo piano del ponteggio, unica misura di
protezione adeguata era da considerarsi la cintura di sicurezza, viene
espressamente respinta dal giudice di primo grado in quanto contrastante con la
previsione contenuta nell’art. 36-bis d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, secondo
cui è nei lavori in quota occorre sempre attribuire priorità alle misure di
protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale, dovendosi
queste ritenere pertanto meramente aggiuntive quando le prime non sono
sufficienti a prevenire tutti i rischi individuati.
Viene altresì evidenziata l’irrilevanza del fatto che al montaggio abbia
provveduto altra ditta individuale, sul rilievo che l’inadeguatezza della struttura
trova origine non in difetti del montaggio ma in carenze strutturali che come tali
investivano le responsabilità del titolare del ponteggio.

9.2. A fronte di tale impianto motivazionale le censure svolte in ricorso si
appalesano di carattere meramente oppositivo e non sono in grado di
evidenziare profili di manifesta illogicità o carenza motivazionale.
Nessuno dei segnalati aspetti della vicenda risulta, infatti, trascurato nella
motivazione posta a fondamento della condanna, quale risultante dalla lettura
combinata delle due sentenze di primo e secondo grado – la prima, come noto, in
caso di doppia conforme, integrando la seconda, confluendo con essa in un
risultato organico ed inscindibile (cfr.

ex plurimis,

Sez. 3, n. 4700 del

14/02/1994, Scauri, Rv. 197497) – di guisa che le reiterate critiche si risolvono
nella prospettazione di una diversa valutazione del compendio probatorio, non
consentita nel presente giudizio di legittimità.
È noto al riguardo che compito del giudice dì legittimità nel sindacato sui vizi
della motivazione non è, infatti, sovrapporre la propria valutazione a quella
compiuta dai giudici di merito, ma stabilire se questi ultimi abbiano esaminato
tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta
13

l’idoneità della struttura successivamente al suo montaggio, non essendo il

interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni
delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello
sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate
conclusioni a preferenza di altre.
Una tale manifesta illogicità non è predicabile nella specie con riferimento
alla valutazione operata dai giudici di merito, rivelandosi quella sopra sintetizzata
motivazione esaustiva e condotta secondo corretti criteri di valutazione

9.3. È poi certamente da escludere in tale contesto che possa ravvisarsi il
dedotto vizio di mancata ammissione di prova decisiva (art. 606 comma 1 lett. d
cod. proc. pen.).


È noto al riguardo che la nuova formulazione dell’art. 606, comma 1, lett. d,

introdotta dall’art. 8 legge 20 febbraio 2006, n. 46, non ha avuto influenza sulla
nozione di decisività della prova, per cui deve continuare a ritenersi che per
«prova decisiva» sia da intendere unicamente quella che, non incidendo soltanto
su aspetti secondari della motivazione (quali, ad esempio, quelli attinenti alla
valutazione di testimonianze non costituenti fondamento della decisione) risulti
determinante per un esito diverso del processo, nel senso che essa, confrontata
con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare
che, ove fosse stata esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa
pronuncia (v. ex aliis Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323;
Sez. 2, n. 16354 del 28/04/2006, Maio, Rv. 234752).
Tale caratteristica deve escludersi possa ravvisarsi con riferimento alla
audizione del teste Patrizio Parisio, legale rappresentante della ditta Global
Service s.n.c., che aveva provveduto alla rimozione delle lastre di fibro-cemento
(eternit) dal tetto del cantiere del consorzio committente: prova richiesta allo
scopo di dimostrare come tutte le operazioni di rimozione delle lastre e di
rifacimento del tetto erano state effettuate utilizzando il piano di calpestio, senza
accedere al tetto, in assoluta sicurezza.
Quand’anche tale obiettivo dimostrativo fosse raggiunto, infatti, non ne
emergerebbe alcuna insanabile contraddizione rispetto alle conclusioni tratte in
sentenza sulla base di diversi elementi e argomenti logici.

10. In ragione delle considerazioni che precedono, deve in definitiva
pervenirsi al rigetto di entrambi i ricorsi, con la conseguente condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese processuali oltre che alla rifusione in favore
delle costituite parti civili delle spese sostenute per la partecipazione al presente
giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.
14

probatoria.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali
oltre alla rifusione delle spese in favore delle parti civili spese che liquida in
complessivi euro 2.500,00 in favore della FILCA-CISL di Biella e in euro 3.500,00
in favore di DE STEFANO Carla, CASTALDELLI Tonino e CASTALDELLI Gabriele;
oltre, per tutti, accessori come per legge.

Così deciso il 27/4/2015

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