Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27134 del 08/04/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 27134 Anno 2015
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Pecoraro Maria Donata, nata a Specchia (Le) il 15/11/1953

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Lecce in data
29/1/2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Francesco Salzano, che ha chiesto il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 29/1/2014, la Corte di appello di Lecce, in riforma della
pronuncia emessa dal locale Tribunale il 6/10/2011, dichiarava non doversi
procedere nei confronti di Maria Donata Pecoraro in ordine alla violazione di cui
all’art. 44, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, così rideterminando la pena per
il residuo reato di cui all’art. 349 cod. pen. nella misura di tre anni di reclusione e
314,00 euro di multa; alla stessa era ascritto di aver violato i sigilli relativi ad un

Data Udienza: 08/04/2015

manufatto abusivo, del quale era stata nominata custode, al fine di proseguire i
lavori non autorizzati sullo stesso.
2. Propone ricorso per cassazione la Pecoraro, a mezzo del proprio
difensore, deducendo cinque motivi:
– mancanza e manifesta illogicità della motivazione quanto all’eccepita
violazione del divieto di bis in idem. La Corte di appello avrebbe rigettato questa
eccezione (relativa alla sentenza n. 468/09 emessa dal Tribunale di Lecce il
,3/7/2009) non considerando che le due pronunce hanno invece ad oggetto le
medesime condotte – tenute dalla Pecoraro – relative al medesimo bene;

all’art. 349 cod. pen., atteso che, in entrambi i casi, alla ricorrente era stato
ascritto di aver proseguito abusivamente i lavori sull’immobile;
– mancata assunzione di prova decisiva. La Corte di appello avrebbe
confermato la decisione del primo Giudice di non ammettere alcun testimone
indotto dalla difesa, attesa la genericità delle circostanze come indicate sulla lista
depositata nei termini; questa motivazione sarebbe però errata, in quanto il
riferimento “ai fatti di causa” ed alla “conoscenza” degli stessi sarebbe invero
sufficiente ai sensi dell’art. 468, comma 1, cod. proc. pen.. E con l’ulteriore
precisazione per cui la circostanza sulla quale i testimoni erano stati indicati ovvero che la Pecoraro non era l’unica persona a recarsi al manufatto per dar da
mangiare ai cani lì presenti – aveva un particolare rilievo, poiché volta ad
insinuare un ragionevole dubbio in ordine al reato di cui all’art. 349 cod. pen.;
– inosservanza od erronea applicazione di legge penale con riguardo al dolo
del delitto. La sentenza avrebbe confermato la condanna pur in assenza
dell’elemento psicologico del reato, atteso che la Pecoraro – priva di conoscenze
tecniche – avrebbe in buona fede ritenuto di poter accedere all’immobile in
sequestro per eseguire i necessari lavori di manutenzione;
– inosservanza od erronea applicazione di legge penale con riguardo all’art.
54 cod. pen.. La ricorrente avrebbe commesso i reati esclusivamente per stato di
necessità, atteso lo sfratto che aveva subito dall’immobile che conduceva in
locazione e la mancanza di qualsivoglia diversa soluzione abitativa;

mancanza e manifesta illogicità della motivazione quanto alla

responsabilità per la contravvenzione di cui all’art. 44, cit.. La Corte di appello
avrebbe confermato la colpevolezza della Pecoraro (salvo poi dichiarare estinto il
reato per prescrizione) con motivazione carente ed illogica, anche alla luce della
citata compressione del diritto di difesa. La stessa, in ogni caso, non avrebbe
compiuto l’abuso.

identità che, in particolare, emergerebbe evidente con riguardo al delitto di cui

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo alla prima doglianza, osserva la Corte che la sentenza rispondendo alla medesima censura in tema di bis in idem

ha steso una

motivazione del tutto adeguata, logica e priva di vizi argomentativi di sorta. In
particolare, ha evidenziato che la pronuncia n. 468/2009 del 3/7/2009 si riferiva
sì alle medesime contestazioni (artt. 44, lett. c, d.P.R. n. 380 del 2001 e 349

concerneva la violazione di sigilli e l’esecuzione di opere abusive quali “la
copertura con panelli in coibentato e spianamento con tufina del vespaio
interno”, tutte accertate il 16/1/2008; la condotta di cui al presente ricorso,
invece, ha ad oggetto (oltre alla copertura, invero “duplicata” nella
contestazione, come riconosce la stessa Corte di appello) l’ulteriore violazione di
sigilli e l’esecuzione di differenti opere, quali la realizzazione di due colonne di
2mtx0,5mt e di una recinzione di 11,60mt., accertate il 21/8/2008. Opere,
quindi, realizzate in epoca successiva al 16/1/2008. Con riguardo a queste
condotte, dunque, il Collegio salentino ha correttamente rigettato l’eccezione di
cui all’art. 649 cod. proc. pen., avendo le stesse un’oggettività – fattuale e
giuridica – del tutto distinta da quelle di cui alla precedente sentenza.
4. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.
Osserva la Corte che, per consolidato indirizzo interpretativo, in tema di lista
testimoniale l’onere dell’indicazione delle circostanze di esame è soddisfatto
anche con il semplice riferimento ai “fatti del processo”, a condizione che si versi
nell’ipotesi di un’unica contestazione di reato per fatti storicamente semplici, non
valendo invece ciò ove la vicenda processuale sia complessa, gli imputati siano
più di uno e molteplici siano i capi di imputazione (per tutte, Sez. 3, n. 32530 del
6/5/2010, H., Rv. 248221). Orbene, nel caso di specie l’oggetto della
contestazione era certamente limitato e circoscritto, sì che il riferimento di cui
alla lista depositata poteva ritenersi sufficiente nell’ottica dell’art. 468, comma 1,
cod. proc. pen., contrariamente all’assunto della Corte di appello; cionondimeno,
però, la stessa ha indicato in sentenza quale fosse la concreta circostanza sulla
quale i testimoni erano stati indicati (poiché esplicitata in udienza dal difensore),
ritenendola irrilevante ai fini del giudizio con una motivazione che il ricorso
contesta, nei termini già indicati in premessa, ai sensi dell’art. 606, comma 1,
lett. d), cod. proc. pen..
Tale assunto difensivo non può esser condiviso.
Per costante orientamento di legittimità,

l’error in procedendo

è

configurabile e rilevante ai sensi della norma da ultimo citata soltanto quando la

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cod. pen.), ma non anche ai medesimi fatti. La condotta giudicata, invero,

prova richiesta e non ammessa, confrontata con le motivazioni addotte a
sostegno della sentenza impugnata, risulti decisiva, cioè tale che, se esperita,
avrebbe potuto determinare una decisione diversa (Sez. 4, n. 6783 del
23/1/2014, Di Meglio, Rv. 259323; Sez. 3, n. 27851 del 15/6/2010, M., Rv.
248105; Sez. 6, n. 14916 del 25/3/2010, Brustenghi, Rv. 246667); in
particolare, la valutazione circa la decisività della prova deve essere compiuta
accertando se i fatti indicati nella relativa richiesta fossero tali da poter inficiare
le argomentazioni poste a base del convincimento del giudice di merito (ex

premesso, rileva il Collegio che il ricorso non ha affatto esplicitato questo
carattere decisivo, limitandosi ad affermare che la dimostrazione della presenza
di altri soggetti sui luoghi (per manutenzione delle opere o per dar da mangiare
ai cani) «avrebbe consentito quanto meno di insinuare il ragionevole dubbio»
circa la responsabilità della Pecoraro.
Il che, all’evidenza, non integra il motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett.
d), cod. proc. pen..
5. Anche la terza doglianza è manifestamente infondata.
Con riguardo al dolo del delitto ex art. 349 cod. pen., la Corte di appello ancora rispondendo alla stessa censura – ha sottolineato l’assenza di qualsivoglia
elemento dal quale poter desumere un eventuale errore in capo all’imputata,
peraltro custode, circa il lecito accesso all’immobile e la prosecuzione dei lavori;
a tal fine, peraltro, la sentenza ha richiamato il condiviso indirizzo per cui, in
tema di violazione dei sigilli, l’elemento psicologico del reato è configurabile
anche nella forma del dolo eventuale, non rilevando l’ipotetica buona fede
dell’agente cui incombe l’obbligo, nei casi dubbi, di interpellare il proprio
difensore ovvero la stessa autorità procedente (Sez. 3, n. 21918 del 7/3/2008,
Vissicchio, Rv. 240033). A ciò si aggiunga, peraltro, che alcun elemento di segno
contrario è stato poi indicato dalla Pecoraro, neppure nel presente ricorso,
laddove ci si limita ad un generico richiamo alla mancanza di conoscenze
tecniche in capo all’imputata, la quale avrebbe ritenuto di poter fare libero
ingresso nel bene per eseguire lavori di manutenzione ordinaria.
6. Il motivo relativo all’art. 54 cod. pen. è poi parimenti del tutto infondato,
in quanto non sollevato innanzi alla Corte di appello; sì da doversi riaffermare il
costante principio in forza del quale non possono essere dedotte con il ricorso
per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente
omesso di pronunciare, perché non devolute alla sua cognizione (per tutte, Sez.
5, n. 28514 del 23/4/2013, Grazioii Gauthier, Rv. 255577).
7. Da ultimo, il motivo in ordine alla responsabilità penale; anche lo stesso
non può essere accolto per palese infondatezza.

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plurimis, Sez. 4, n. 23505 del 14 marzo 2008, Di Dio, Rv. 240839). Ebbene, ciò

Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della
decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo,
restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella,
n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa
Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art.

spessore tale da risultare percepibile ictu ocu/i; ciò in quanto l’indagine di
legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto,
dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa
volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione
alle acquisizioni processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv.
226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla
ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è limitato
alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono
insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo
hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Ciò premesso, osserva la Corte che – dietro l’apparenza di un vizio
motivazionale – il ricorso sollecita in realtà una nuova e diversa valutazione delle
medesime emergenze istruttorie già esaminante dai Giudici di merito e, in
particolare, della deposizione del teste Cazzato con riguardo alla presenza della
Pecoraro sull’area in esame; quel che, come appena affermato, non è consentito
in sede di legittimità.
Il gravame, peraltro, disattende sul punto la motivazione – logica, congrua
ed immune da censure – stesa dalla Corte di appello, la quale ha sottolineato che
1) la ricorrente era stata sempre rinvenuta sull’area (formalmente intestata alla
figlia, invero residente in Svizzera), della quale aveva piena disponibilità; 2) la
stessa era stata già tratta in arresto il 16/1/2008 per analoghe violazioni (quelle
di cui alla sentenza n. 468/09); sì da pervenire, con solido percorso
argomentativo, alla conferma della penale responsabilità della Pecoraro.

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606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di

Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, 1’8 aprile 2015

nsigliere estensore

Il Presidente

equitativamente fissata in euro 1.000,00.

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