Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27114 del 19/02/2015

Penale Sent. Sez. 3 Num. 27114 Anno 2015
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: DI NICOLA VITO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
A.A.
avverso la sentenza del 05-07-2013 della Corte di appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Giulio Romano che ha concluso
per il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente

Data Udienza: 19/02/2015

RITENUTO IN FATTO

1. E’ impugnata la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di
appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia emessa dal Gup presso il
tribunale di Monza, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Paolo
A.A. in ordine alla violazione riferibile all’anno 2004, per essersi il relativo
reato estinto per prescrizione, e ha rideterminato nei suoi confronti la pena per
le residue imputazioni in anni uno e mesi otto di reclusione.

110 cod. pen. e 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, perché (in concorso con B.B. professionista che curava l’annotazione delle fatture per operazioni
inesistenti, la presentazione delle dichiarazioni fiscali, i rapporti con la Guardia di
Finanza operante in sede di verifica, essendo il B.B. non punibile ai sensi
dell’art. 9 d.lgs. n. 74 del 2000 in quanto concorrente nel reato di cui all’art. 8
d.lgs. n. 74 del 2000), con più atti esecutivi del medesimo disegno criminoso, in
tempi diversi, in qualità di legale rappresentante della G.D.L Soc. Coop.
esercente l’attività di “Trasporto merci per conto di terzi ed in proprio”, al fine di
evadere le imposte dirette e l’iva, indicato nelle dichiarazioni relative agli anni
d’imposta 2004, 2005 e 2006 elementi passivi fittizi avvalendosi delle fatture per
operazioni inesistenti per un imponibile di C 194.700,00 oltre a IVA al 20% nel
2004, per un imponibile di C 598.300,00 oltre a IVA al 20% nel 2005, per un
imponibile di C 823.700,00 oltre a IVA al 20% nel 2006 e C 384.700,00 oltre a
IVA al 20% nel 2007 (peraltro la società stornava in seguito elementi passivi
appostando la voce note di credito da ricevere, così che gli elementi passivi fittizi
da considerare in relazione agli anni d’imposta 2004, 2005 e 2006 e alle imposte
dirette erano risultati pari rispettivamente a C 179.345,00, C 322.217,00 e C
514.700,00) nonché il reato (capo GG) previsto dagli artt. 81 cpv. e 110 cod.
pen. e 3 d.lgs. n. 74 del 2000 per aver, in concorso tra loro, in tempi diversi, con
più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, al fine di evadere le
imposte dirette e l’Iva A.A., in qualità di legale rappresentante della
G.D.L. Soc. Coop. e B.B., quale depositario delle scritture contabili e
professionista curante la consapevole annotazione delle fatture contraffatte e la
presentazione delle dichiarazioni fiscali, indicato nella dichiarazione redditi e Iva
relativa all’anno d’imposta 2007 elementi passivi fittizi pan a euro 334.700,00
(redditi) ed euro 73.940,00 (Iva), sulla base di una falsa rappresentazione nelle
scritture contabili e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei a ostacolarne
l’accertamento consistiti nel contabilizzare nel conto intestato “Lavorazioni
esterne”, costi pari ad C 384.700,00, documentati da fatture passive registrate
ma non rinvenute, né esibite.

2

Al ricorrente si rimprovera il reato (capo FF) previsto dagli artt. 81 cpv.,

2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza ricorre per cassazione,
tramite il difensore, A.A. con otto motivi di gravame, qui enunciati, ai
sensi dell’articolo 173 disposizione di attuazione al codice di procedura penale,
nei limiti strettamente necessari per la motivazione, deducendo:
1)

l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale (art. 606,

comma 1, lett. b), codice di procedura penale) relativamente agli artt. 47 e 48
codice penale; la contraddittorietà della motivazione ex art. 606, comma 1, lett.
e) codice di procedura penale) con riferimento ai soggetti avvantaggiati dai reati;

procedura penale) quanto all’inganno di cui l’imputato sarebbe rimasto vittima.
Si assume che il ricorrente, legale rappresentante della cooperativa “GDL”,
essendo “alle prime armi” nella gestione dell’amministrazione societaria si affidò
all’esperienza ed alle direttive di un esperto della materia, ossia del rag. B.B.
facente parte del consiglio d’amministrazione della G.D.L. stessa. Anche alla luce
di tale carica, il ricorrente legittimamente ritenne che costui non potesse con le
sue azioni compiere atti pregiudizievoli nei confronti della società. Sfruttando la
complessità della normativa tributaria, il commercialista, conoscendo il difetto di
disponibilità “liquide” di denaro della cooperativa, additò al ricorrente il Consorzio
Coesi quale “ancora di salvezza” contabile per la G.D.L. Precisamente, il rag.
Voghi indicò che vi era un regime proprio delle cooperative atto a contemperare
la necessità di pagare meno imposte per alcune e di fatturare di più per altre.
Specificò che, avvalendosi di un Consorzio (nella fattispecie Coesi), era possibile
operare una sorta di compensazione tra debiti e crediti di cooperative consorziate e non – così da eliminare per alcune le “plusvalenze” e ridurre per
altre l’imposizione fiscale. Egli dipinse tale operazione come assolutamente
legittima e regolare a fronte di versamenti mensili tra i 3.000 ed i 5.000 Euro da
destinare al consorzio per poter usufruire di tale regime agevolato,
formalizzando, a richiesta del ricorrente, anche per iscritto tale proposta e
ricevendo nel corso degli anni i bonifici bancari da parte del ricorrente.
Avendo appreso dalla Guardia di Finanza e dai giornali che le operazioni
poste in essere dal B.B. per conto della GDL erano tutt’altro che legittime, il
ricorrente chiese lumi al proprio commercialista e, successivamente, ritenendo di
essere stato truffato, chiese, per il tramite del proprio legale, la restituzione dei
137.000,00 euro che aveva scoperto non servissero per un’operazione fiscale
lecita;
2) la manifesta illogicità della motivazione (art. 606, comma 1, lett. e)
codice di procedura penale) in relazione alle somme versate dal ricorrente al
B.B. nella misura in cui la Corte territoriale ha erroneamente ravvisato la
scarsa credibilità della tesi difensiva;

3

la mancanza e/o illogicità della motivazione (art. 606, comma 1, lett. e) codice di

3)

la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della

motivazione (art. 606 comma 1, lett. e) codice di procedura penale)
relativamente

all’annessa

valutazione

delle

circostanze

contenute

nell’interrogatorio dell’imputato.
Si assume che la Corte distrettuale non ha tenuto conto delle emergenze
processuali contenute nel verbale di sommarie informazioni rese ai sensi
dell’articolo 350 codice di procedura penale, verbale redatto in data 23 giugno
2009 nel quale il ricorrente ha fornito minuziosamente la propria versione dei

4)

la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della

motivazione (art. 606, comma 1, lett. e) codice di procedura penale)
relativamente alla mancata acquisizione delle intercettazioni ed all’annessa
valutazione del loro contenuto.
Contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici di secondo grado, tali
intercettazioni facevano parte del materiale probatorio acquisito dal Giudice per
l’udienza preliminare, essendo le relative risultanze contenute nel fascicolo del
pubblico ministero per essere stato il processo definito con il rito abbreviato;
5) la mancanza della motivazione (art. 606, comma 1, lett. e) codice di
procedura penale) con riferimento all’omessa valutazione delle doglianze
contenute nell’atto di appello, non avendo la Corte di merito tenuto conto della
corrispondenza intercorsa tra ricorrente ed il B.B. circa i rilievi che il primo
aveva mosso nei confronti del secondo, circa la documentazione allegata agli atti
processuali comprovante la buona fede del ricorrente, ivi compresi i risultati delle
intercettazioni (di cui alla precedente doglianza) nonché della singolare posizione
del ricorrente rispetto a tutti gli altri coimputati essendo egli l’unico che avesse
predisposto pagamenti in favore del B.B. in maniera tracciata e trasparente;
6) la manifesta illogicità della motivazione (art. 606, comma 1, lett. e)
codice di procedura penale) con riferimento alla valenza probatoria delle
dichiarazioni del coindagato rag. B.B. e della sua asserita chiamata in correità
del A.A.;
7) la mancanza della motivazione (art. 606, comma 1, lett. e) codice di
procedura penale) con riferimento alla omessa valutazione delle doglianze
sollevate sull’entità della pena base e sugli aumenti in continuazione;
8) l’erronea applicazione della legge penale (art. 606, comma 1, lett. b)
codice di procedura penale con riferimento agli artt. 42, 43, 47 e 48 codice
penale.

4

fatti;

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.

I primi sei motivi di gravame e l’ottavo, siccome vertono sulla

ricostruzione del fatto e sulle conseguenze giuridiche che ne sono derivate
secondo l’interpretazione fornita dai giudici del merito, possono essere
congiuntamente esaminati.
Essi sono inammissibili perché manifestamente infondati o non consentiti nel

2. La Corte territoriale ha ritenuto del tutto non condivisibile la versione
difensiva fornita dal ricorrente secondo la quale egli sarebbe stato convinto dal
B.B. del fatto che

“vi fosse un regime proprio delle cooperative atto

contemperare la necessità di pagare meno imposte per alcune e di fatturare di
più per altre” e che “avvalendosi di un consorzio (nella fattispecie Coesi) era
possibile operare una sorta di compensazione, lecita, tra debiti e crediti di
cooperative, consorziate e non, così da eliminare per alcune le plusvalenze per
ridurre per altre l’imposizione fiscale”.
Come si evince dal testo della sentenza impugnata, l’operazione sarebbe
stata descritta dal B.B. come assolutamente legittima, e da effettuarsi con
versamenti mensili di 3000/5000 euro, da destinare, a detta del medesimo, al
consorzio, per poter usufruire di tale regi me agevolato. La prova dell’errore del
A.A. consisterebbe poi nell’avere egli versato tali somme al proprio
consulente per un totale di C 137.205,60, querelandolo poi per truffa nel
momento in cui era venuto a sapere, dall’indagine della Guardia di Finanza che
ha dato origine al presente procedimento, che il predetto si era trattenuto il
denaro che gli aveva fatto credere destinato al consorzio.
La Corte di merito, con logica ed adeguata motivazione, ha stimato
totalmente priva di credibilità tale ricostruzione dei fatti, osservando come non
fosse stata affatto chiarita la dinamica del meccanismo fiscale che sarebbe stato
prospettato all’imprenditore , tanto che tale meccanismo, così come descritto, è
apparso, all’evidenza, privo di qualsiasi logica e quindi inidoneo ad ingannare
anche il soggetto più sprovveduto.
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte di appello ha evidenziato come
l’unico soggetto a vantaggio del quale operasse il meccanismo fraudolento fosse
proprio il AA. e perciò ha condiviso la valutazione operata dal primo giudice,
secondo il quale la spiegazione fornita dal B.B., circa il giro di fatture, era in
realtà una esplicitazione del meccanismo attraverso il quale era stata posta in
essere l’evasione fiscale, così comprendendosi anche il motivo per il quale i
137.000,00 euro erano stati bonificati dal A.A. direttamente sui conti del
B.B., versamenti che sarebbero stati privi di senso ove riconducibili a
5

giudizio di legittimità.

procedure fiscali lecite in relazione alle quali il commercialista si sarebbe dovuto
limitare a svolgere un ruolo di consulente.
Né sono state ritenute significative, quanto alla prospettata buona fede del
ricorrente, la querela per truffa (del resto in seguito archiviata) e le telefonate
intercettate nell’ambito del procedimento da quest’ultima scaturito, essendosi
rilevato che, in ogni caso, sia la querela che le telefonate richiamate dal
difensore nell’atto d’impugnazione erano successive all’emersione dell’evasione
fiscale, e quindi potenzialmente strumentali; inoltre le conversazioni citate,

lamentele del primo circa il mancato versamento delle somme bonificate agli
emittenti delle fatture (Lo Coco e Raguso), non emergendo affatto in tali colloqui
la buona fede dell’imputato con riferimento alla supposta liceità fiscale delle
operazioni poste in essere.
La Corte territoriale ha quindi tenuto conto dei risultati delle intercettazioni,
pur avendo evidenziato come le stesse non fossero materialmente acquisite al
corredo processuale, e tale rilievo non appare meritevole di censura, né decisivo,
posto che, sulla base degli atti comunque a disposizione, i risultati di esse sono
stati considerati sia pure nella prospettiva della loro potenziale strumentalità
perché, come logicamente segnalato, il mezzo di ricerca della prova seguiva e
non precedeva le denunce che il ricorrente aveva sporto nei confronti del
commercialista.
Tantomeno appare decisiva la doglianza circa la parte della motivazione
dove la Corte territoriale ha affermato la mancanza in atti dell’interrogatorio del
ricorrente che contenesse lo svolgimento della tesi difensiva, che comunque i
Giudici del merito hanno compiutamente esplorato, per aver dato atto, tra l’altro,
che essa era articolata in memorie (pagina 8 della sentenza impugnata), delle
quali quindi hanno debitamente tenuto conto; memorie che, secondo la stessa
versione del ricorrente, compiutamente contenevano, a loro volta, lo svolgimento
delle tesi prospettate.
Del resto, l’assenza in atti di un interrogatorio non è smentita dallo stesso
ricorrente che infatti deduce di aver reso sommarie informazioni, senza alcuna
significativa ed ulteriore precisazione, necessaria sul punto, attesa l’ontologica e
giuridica differenza tra i due atti ed il momento cronologico nel quale, avuto
riguardo alla progressione processuale, essi si innestano.
2.1. Al cospetto perciò di una motivazione che ha ampiamente affrontato i
temi devoluti con l’atto di appello e decisivi per il giudizio, le doglianze del
ricorrente si risolvono sostanzialmente in censure fattuali tendenti a sostenere
un’interpretazione alternativa dei fatti, preclusa in sede di legittimità.
Fermo il principio che la Corte di cassazione è giudice della motivazione del
provvedimento impugnato e non giudice delle prove acquisite nel corso del
6

intervenute fra A.A. e B.B. , facevano riferimento esclusivamente alle

procedimento, va ricordato che il vizio di motivazione, che risulti dal testo del
provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati, in
tanto sussiste se ed in quanto si dimostri che il testo del provvedimento sia
manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non invece quando si
opponga alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una
diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di
Francesco, Rv. 205621).
Infatti, come più volte affermato da questa Corte, l’indagine di legittimità sul

sindacato demandato al giudice di legittimità essere limitato – per espressa
volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argonnentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di
verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è
avvalso per sostanziare il suo convincimento, esulando dai poteri della Corte di
cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di
merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di
una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze
processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone ed altri, Rv. 207944),
con la specificazione che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile,
deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu ()culi”,
dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di
macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e
considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente
confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché le
ragioni del convincimento siano spiegate in modo logico e adeguato (Sez. U, n.
24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003,
Petrella, Rv. 226074).
Consegue da ciò la manifesta infondatezza dell’assunto circa la carenza
motivazionale della sentenza impugnata in relazione ai primi sei motivi di
gravame.
2.2. Quanto al primo motivo, sotto il profilo dell’erronea interpretazione
delle legge penale, ed all’ottavo, posta la premessa circa la non credibilità della
versione difensiva in ordine alla pretesa buona fede dell’imputato, la Corte
territoriale ha correttamente aggiunto la considerazione, di per sé comunque
assorbente, che l’eventuale errore, nei termini prospettati dal ricorrente,
inciderebbe su norme extrapenali integrative del precetto, con conseguente
ricaduta nella presunzione legale di conoscenza e nella irrilevanza dell’errore
medesimo.

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discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il

Obietta il ricorrente che nella fattispecie de qua si verterebbe in tema di
carenza dell’elemento soggettivo (assenza cioè del dolo specifico) a causa dei
raggiri perpetrati dal commercialista, raggiri che avrebbero fatto ricadere l’errore
sul fatto che costituisce il reato ex artt. 47 e 48 cod. pen.
Tuttavia, così argomentando, il ricorrente, e a parte ogni altra
considerazione, solo apparentemente eccepisce un vizio di violazione di legge
mentre nuovamente prospetta, in maniera pertanto inammissibile, una

3. Manifestamente infondato è anche il settimo motivo di gravame.
Con esso il ricorrente lamenta il fatto di non aver mai eccepito lo sforamento
dei limiti previsti dall’art. 81 cpv. cod. pen. per gli aumenti in continuazione, ma
censurato l’incongruenza ed ingiustizia degli incrementi disposti per i reati
satellite, ed in secondo luogo l’entità della pena base, con la conseguenza che la
Corte d’appello, avendo erroneamente interpretato le censure sollevate (si
trattava di commisurazioni nel merito e non di vizi procedurali nel conteggio),
non ha valutato le reali contestazioni addotte dalla difesa, traducendosi ciò in un
evidente pregiudizio per il condannato.
Tuttavia la Corte era chiamata a valutare la legalità della pena irrogata e,
affermando che essa era contenuta nei limiti dello sbarramento previsto per la
fattispecie del reato continuato, ha correttamente ritenuto del tutto infondato il
motivo di appello.
Peraltro, a seguito della declaratoria di prescrizione del reato relativo
all’anno di imposta 2004, la Corte di appello ha proceduto alla rideterminazione
della pena attraverso una autonoma fissazione della pena base e degli aumenti
disposti per la continuazione, in ordine ai residui reati satelliti, e tale
determinazione, autonoma rispetto a quella operata dal primo giudice e che era
stata attinta con il motivo di appello, non è stata minimamente oggetto di critica
specifica con il ricorso per cassazione, derivando da ciò l’inammissibilità del
motivo.

4. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto
che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per
il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del
procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13
giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso
sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via
equitativa, di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
8

ricostruzione del fatto del tutto motivatamente esclusa dai giudici di merito.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.

Così deciso il 19/02/2015

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