Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 27113 del 19/02/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 27113 Anno 2015
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: ACETO ALDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Merlo Giorgio, nato a Montefiascone (VT) il 24/03/1960,

avverso la sentenza del 09/01/2014 della Corte di appello di Ancona;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Aldo Aceto;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Giulio
Romano, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1.11 sig. Giorgio Merlo ricorre, per il tramite del difensore di fiducia, per
l’annullamento della sentenza del 09/01/2014 della Corte di appello di Ancona
che ha confermato la condanna alla pena, condizionalmente sospesa, di quattro
mesi di reclusione, oltre pene accessorie, inflittagli dal Tribunale di Senigallia
che, con sentenza 18/04/2013, l’aveva riconosciuto colpevole del reato di cui
all’art. 10-ter, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, perché, quale liquidatore e legale
rappresentante, della società «Trasporti e Spedizioni S.r.l.», non aveva

Data Udienza: 19/02/2015

versato l’imposta sul valore aggiunto, pari ad C 216.972,00, dovuta in base alla
dichiarazione annuale IVA presentata nel 2007 per l’anno d’imposta 2006.
La Corte di appello ha disatteso l’eccezione difensiva secondo la quale
l’imputato non si era volontariamente sottratto al pagamento del dovuto perché
costretto, dalla mancanza di disponibilità finanziarie, a estinguere i debiti
contratti con i fornitori e con l’Erario attingendo alle risorse derivanti dalla
disnnissione dell’attività e dall’incasso dei crediti residui ma non dai proventi
dell’attività di autotrasporto perché ormai cessata.

verso i privati, a scapito di quelli maturati verso l’Erario, prova sia la volontà
dell’omissione, sia l’esistenza di disponibilità finanziarie, ancorché limitate, da
parte della società. Peraltro, aggiunge la Corte di appello, il contribuente diviene
debitore verso l’Erario quando incassa l’imposta che i clienti gli corrispondono,
con la conseguenza che della quota IVA da versare non può disporre sulla base
di scelte gestionali. La prova della sussistenza del dolo, concludono, è insita nella
presentazione della dichiarazione annuale dalla quale risulta l’importo della
somma da versare
1.1.Con il primo motivo l’imputato eccepisce la mancanza e la
contraddittorietà della motivazione in punto di sussistenza della prova
dell’elemento soggettivo del reato.
Tre sono gli argomenti che sostengono l’eccezione.
Per un primo profilo, non è vero, afferma, che il contribuente diviene
debitore dell’Erario nel momento in cui incassa l’importo dovuto a titolo di
imposta sul valore aggiunto, poiché tale veste viene assunta nel successivo
momento in cui deve essere effettuata la liquidazione trimestrale (o mensile, a
seconda dei casi) e quantificata, all’esito di eventuali compensazioni, la somma
effettivamente dovuta. Non è dunque vero che il contribuente non possa disporre
delle somme corrisposte a fini IVA.
Ne consegue (secondo profilo) che tale errata ricostruzione dei rapporti
contribuente/Erario, ha consentito alla Corte territoriale di eludere il cuore del
problema sollevato con l’atto di appello e consistente nel fatto che l’imputato non
ha mai deciso di sottrarsi al pagamento del debito erariale essendo stato
costretto dalla crisi di liquidità a non poter nemmeno proseguire nell’attività
d’impresa. La natura generica del dolo, prosegue, da un lato non esclude
atteggiamenti colposi mai sondati, dall’altro non esime l’accusa dall’obbligo di
provare in modo rigoroso la volontà di non adempiere, non essendo sufficiente la
mera presentazione della dichiarazione annuale che, semmai, può solo costituire
un indizio, una presunzione, insufficiente a provare il dolo.
L’ultimo argomento denunzia il travisamento dei motivi di appello e il
fuorviante sillogismo secondo il quale l’impresa in liquidazione sarebbe per ciò

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Secondo i giudici distrettuali la scelta di preferire il pagamento dei debiti

solo in grado di pagare le tasse. Tale sillogismo, di per sé errato e in contrasto,
semmai, con massime di esperienza di segno contrario, si fonda su una lettura
distorta e parziale dei motivi di appello, certamente non utilizzabili a danno
dell’imputato. La Corte di appello avrebbe dovuto piuttosto verificare in che
termini si era svolta la fase di liquidazione prima di giungere a conclusioni
semplicistiche e fondate su petizioni di principio.
1.2.Con il secondo motivo eccepisce l’inosservanza e l’erronea applicazione
degli artt. 166, comma 1, cod. pen., e 12, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, perché il

della pena limitandola alla pena principale e non a quella accessoria, e di questo
errore non si è avveduta nemmeno la Corte di appello.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2. Il ricorso è infondato.

3.11 primo motivo di ricorso è infondato.
3.1.In sede di appello l’imputato aveva dedotto che la società da lui
rappresentata, a causa delle gravi difficoltà economiche che avevano comportato
una perdita di C 14.448,00 nel bilancio chiuso al 31/12/2005, una conseguente
riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale e la cessazione di ogni
attività, era stata posta in liquidazione sin dal 27 luglio 2006, così che l’omesso
versamento dell’IVA era dovuta a causa di forza maggiore per la incolpevole
mancanza di liquidità. L’imputato aveva sostenuto di essersi limitato a svolgere il
proprio compito liquidando le attività sociali, riscuotendo i crediti e cercando di
estinguere i debiti maturati nei confronti dei fornitori e dell’Erario.
3.2.La Corte di appello, attenendosi alle questioni devolute, ha fornito la
risposta, già illustrata in premessa, secondo la quale: a) il pagamento dei debiti
dimostra che la società aveva comunque risorse finanziarie; b) il dolo non può
essere escluso dal fatto che l’imputato avesse comunque preferito il pagamento
dei fornitori privati.
3.3.Non v’è, in tale affermazione, alcun travisamento, né lettura parziale
dei motivi di appello, tantomeno un loro illegittimo utilizzo “contra reum”; la
Corte di appello ha colto esattamente il senso ed il contenuto dei motivi di
gravame (sinteticamente esposti nel capoverso che precede) e non ha mai
sostenuto che poiché la società era in liquidazione sarebbe perciò solo stata in
grado di pagare le tasse. Ed è assolutamente generica la doglianza secondo la
quale i giudici distrettuali avrebbero dovuto accertare in che modo si era svolta
la fase della liquidazione poiché, in disparte la totale mancanza di profili di

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giudice di primo grado aveva concesso il beneficio della sospensione condizionale

decisività di una simile obiezione, tale argomento non costituiva oggetto di
specifica censura avverso la condanna inflitta in primo grado.
3.4.0sserva, piuttosto, la Suprema Corte che il dato derivante dalla
presentazione della dichiarazione annuale a fini dell’imposta sul valore aggiunto
costituisce certamente prova del fatto che, nel periodo di imposta considerato
(nel caso di specie il 2006), sono state poste in essere operazioni imponibili che
hanno generato un debito tributario pari alla somma non versata (C
216.972,00).

l’affermazione di sussistenza dell’obbligazione tributaria e dell’inadempimento
penalmente rilevante.
3.6.Non ha alcun rilievo, ai fini penalistici che qui interessano, quando il
contribuente assuma la qualità di debitore nei confronti dell’Erario; conta il fatto
che l’obbligazione tributaria sia sorta e che alla data e nei limiti quantitativi
previsti dall’art. 10-ter, d.lgs. 74 del 2000, il contribuente non l’abbia ancora
estinta.
3.7.Quanto all’elemento soggettivo del reato è necessario sgombrare il
campo da un equivoco di fondo che rischia di alterare la corretta impostazione
dogmatica del problema: per la sussistenza del reato per il quale si procede non
è richiesto il fine di evasione, tantomeno l’intima adesione del soggetto alla
volontà di violare il precetto.
3.8.Quando il legislatore ha voluto attribuire all’elemento soggettivo del
reato il compito di concorrere a tipizzare la condotta e/o quello di individuare il
bene/valore/interesse con essa leso o messo in pericolo, lo ha fatto in modo
espresso, escludendo, per esempio, dall’area della penale rilevanza le condotte
solo eventualmente (e dunque non intenzionalmente) volte a cagionare l’evento
(art. 323, cod. pen., artt. 2621, 2622, 2634, cod. civ., art. 27, comma 1, d.lgs.
27 gennaio 2010, n. 39), incriminando, invece, quelle ispirate da un’intenzione
che va oltre la condotta tipizzata (i reati a dolo specifico), attribuendo rilevanza
allo scopo immediatamente soddisfatto con la condotta incriminata (per es., art.
424 cod. pen.), assegnando al momento finalistico della condotta stessa il
compito di individuare il bene offeso (artt. 393 e 629 cod. pen., 416, 270, 270bis, 305, cod. pen., 289-bis, 630, 605, cod. pen.).
3.9.11 dolo del reato in questione è integrato dalla condotta omissiva posta
in essere nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma,
quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto
con il precetto violato.
3.10.Gli argomenti utilizzati dal ricorrente a sostegno della pretesa
applicabilità, al caso concreto, della «forza maggiore», appaiono, alla luce
della considerazioni che precedono, frutto di un’operazione dogmaticamente
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3.5.11 dato non è contestato e correttamente fonda, sul piano oggettivo,

errata che tende ad attrarre nell’orbita del dolo generico requisiti che, per
definizione, non gli appartengono e che si collocano piuttosto nell’ambito dei
motivi a delinquere o che ne misurano l’intensità (art. 133 cod. pen.).
3.11.La scelta di non pagare prova il dolo; i motivi della scelta non lo
escludono.
3.12.La forza maggiore esclude la
l’impostazione tradizionale, è la

“suitas” della condotta. Secondo

«vis cui resisti non potest», a causa della

quale l’uomo «non agit sed agitur» (Sez. 1, n. 900 del 26/10/1965, Sacca,

del 21/0471980, Ruggieri, Rv. 145855).
3.13.Per questa ragione, secondo la costante giurisprudenza di questa
Suprema Corte, la forza maggiore rileva come causa esclusiva dell’evento, mai
quale causa concorrente di esso (Sez. 4, n. 1492 del 23/11/1982, Chessa, Rv.
157495; Sez. 4, n. 1966 del 06/12/1966, Incerti, Rv. 104018; Sez. 4 n. 2138 del
05/12/1980, Biagini, Rv. 148018); essa sussiste solo e in tutti quei casi in cui la
realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è
dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al
comando, mai quando egli si trovi già in condizioni di illegittimità (Sez 4, n. 8089
del 13/0571982, Galasso, Rv. 155131; Sez. 5, n. 5313 del 26/03/1979, Geiser,
Rv. 142213; Sez. 4, n. 1621 del 19/01/1981, Sodano, Rv. 147858; Sez. 4 n. 284
del 18/02/1964, Acchiardi, Rv. 099191).
3.14.Poiché la forza maggiore postula la individuazione di un fatto
imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta
dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo
ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria
dell’agente, questa Suprema Corte ha sempre escluso, quando la specifica
questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versi il soggetto
agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n.
4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013,
Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez.
3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del
22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv.
165822).
3.15.Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati
omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la
semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116
del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856).
3.16.Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza
maggiore perché non esclude la “suitas” della condotta; b) la mancanza di
provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente
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Rv. 100042; Sez. 2, n. 3205 del 20/1271972, Pilla, Rv. 123904; Sez. 4, n. 8826

rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore
quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a
fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore
quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dai
mancati accantonamenti e dal mancato pagamento alla singole scadenze
(mensili o trimestrali che siano) e dunque da una situazione di illegittimità; d)
l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza
maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha

che sfuggono al suo dominio finalistico.
3.17.Alla luce delle considerazioni che precedono, la tesi difensiva appare in
tutta la sua genericità e contraddittorietà.
3.18.Non è infatti sufficiente allegare il fatto che l’impresa fosse in
liquidazione, poiché la crisi di liquidità (che secondo la deduzione difensiva aveva
comportato l’azzeramento del capitale sociale) non aveva però impedito la
prosecuzione dell’attività stessa che aveva, a sua volta, generato un debito a fini
IVA decisamente consistente con distrazione delle somme periodicamente non
versate ad altri fini.
3.19.Tanto più che il ricorrente non ha mai dedotto, nemmeno in sede di
appello, di essersi attivato per cercare di onorare l’impegno alla scadenza
annuale. Non risultano al riguardo allegazioni circa richieste di finanziamenti,
avvio di ingiunzioni giudiziarie o altre iniziative per cercare di tamponare la
mancanza di liquidità. La generica indicazione della perdita di esercizio dell’anno
2005 non costituisce affatto prova rigorosa della assoluta impossibilità di
adempiere (al dicembre 2007) derivante da causa non imputabile, essendo
peraltro principio incontroverso, nella dottrina e nella giurisprudenza civilistica,
che la crisi di liquidità salvo casi davvero eccezionali non manda esente da colpa
il debitore pecuniario inadempiente.

4.E’ infondato anche il secondo motivo di ricorso.
4.1.Prennesso che il ricorrente non aveva sollevato in appello la questione di
diritto posta oggi per la prima volta, osserva il Collegio che nel caso di specie il
Tribunale di Senigallia aveva espressamente affermato, in motivazione, di poter
concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena collocando le
relative argomentazioni in coda alle ragioni che presiedevano alla quantificazione
della pena principale e di quella accessoria. Nel dispositivo aveva poi intercalato
la concessione del beneficio della pena tra la condanna alla pena principale e
l’applicazione delle pene accessorie, quasi a voler affermare che il beneficio non
potesse applicarsi anche a queste ultime. In realtà non vi sono ragioni, alla luce

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potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e

di quanto detto, per ritenere che il Tribunale avesse voluto espressamente
escludere il beneficio per le pene accessorie.
4.2.Va pertanto ribadito il principio, derivante peraltro dalla letterale
formulazione della norma, secondo il quale la sospensione condizionale delle
pene accessorie, a seguito della modificazione dell’art. 166 cod. pen., introdotta
dall’art. 4, legge 7 febbraio 1990 n. 19, è un effetto della sospensione
condizionale della pena principale e si realizza automaticamente senza necessità
di un provvedimento che faccia esplicito riferimento alle pene accessorie (Sez. 5,

del 28/10/2009, Tomasetti, Rv. 245898).
4.3.11 ricorso deve dunque essere respinto con condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 19/02/2015

n. 2131 del 09/01/1992, Fabbri, Rv. 189560; cfr. sul punto anche Sez. 3, n. 763

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