Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 2693 del 09/01/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 2693 Anno 2014
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: CARRELLI PALOMBI DI MONTRONE ROBERTO MARIA

SENTENZA
Sul ricorso proposto da Remo Giovanni nato a Reggio Calabria il 8/7/1957
avverso l’ordinanza del Tribunale di Reggio Calabria, sezione del riesame in
data 30/8/2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Roberto Maria Carrelli Palombi di
Montrone;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale,
dott.ssa Elisabetta Cesqui, che ha concluso chiedendo l’annullamento con
rinvio del provvedimento impugnato limitatamente alle esigenze cautelari;
udito per il ricorrente gli avvocati Giuseppe Panuccio e Carlo Morace che
hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso;

RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 24/6/2013 il Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Reggio Calabria disponeva l’applicazione della misura della
custodia cautelare in carcere nei confronti di Remo Giovanni in ordine al
reato di estorsione pluriaggravata in concorso di cui agli artt. 110, 61 nn. 6 e

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Data Udienza: 09/01/2014

P

7, 629 comma 2 cod. pen., 7 legge 203/1991.
1.1. Avverso tale provvedimento proponeva istanza di riesame l’indagato
contestando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze
cautelari.
1.2.

Il Tribunale di Reggio Calabria, sezione del riesame, in data

30/8/2013, respingeva l’istanza proposta, confermando l’ordinanza

2.

Ricorreva per Cassazione l’indagato, per mezzo dei suoi difensori di

fiducia, sollevando i seguenti motivi di gravame:
2.1. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma
1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 629 e 43 cod. pen.,
273, 125 cod. proc. pen. Si lamenta, in particolare, la carenza di
comportamenti riferibili al ricorrente tali da delineare, sia sotto il profilo
oggettivo, che sotto il profilo soggettivo, un concorso nel reato,
evidenziando che non è indicata quale sarebbe stata la condotta minacciosa
finalizzata all’acquisto del capannone; ci si duole, al riguardo, che sia stata
individuata una minaccia implicita nella richiesta di restituzione di soldi dati
a prestito dall’indagato alla persona offesa e nell’avere ritenuto detta
azione finalisticamente orientata ad un evento diverso e cioè l’acquisto del
terreno. Si rappresenta che dall’intercettazione valorizzata in relazione al
reato in questione ci si riferisce al ricorrente solo in quanto a costui la
persona offesa aveva nel corso degli anni restituito soldi avuti in prestito,
ma non ci si riferisce mai a pressione che avrebbe posto in essere il
ricorrente Remo Giovanni in danno dello zio durante le trattative finalizzate
alla cessione del capannone. Ed inoltre si rappresenta che anche dall’altra
fonte di prova, costituita dalle dichiarazioni della persona offesa Remo
Umberto, neppure si fa riferimento a trattative commerciali viziate da

impugnata.

modalità violente, ma solo alle insistenze dei due nipoti per la restituzione
di quanto dovuto, aggiungendosi che era la vittima che, per timore che
accadesse qualcosa ai figli, aveva deciso di incaricare il genero di vendere il
capannone alle condizioni che gli avrebbero imposto. Si aggiunge, ancora,
che non vi è traccia della partecipazione del ricorrente alle trattative o di un
suo interesse per il bene in oggetto o anche solo di una consapevolezza da
parte dello stesso dell’operazione economica in corso.
2.2. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma

1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 117 Cost., 6 CEDU,

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192 e 125 cod. proc. pen. Si contesta, in particolare, la mancata
applicazione della giurisprudenza della Corte Edu sul rispetto del principio
del contraddittorio e la necessità che le dichiarazioni della persona offesa,
acquisite senza la possibilità di un contraddittorio anche futuro con la
persona offesa, trovino conforto in ulteriori elementi. Si contesta poi il
criterio di valutazione frazionata delle dichiarazioni della persona offesa,
laddove la parte riconosciuta falsa è in stretto collegamento probatorio con

prova sulla partecipazione alle trattative da parte del ricorrente. Ci si duole
della mancata risposta ai rilievi difensivi sull’inattendibilità della persona
offesa con riguardo alla divergenza fra quanto dichiarato dallo stesso in
sede di sommarie informazioni e quanto risultante dalla conversazione
intercettata con riferimento all’individuazione dei soggetti, fra i quali anche
l’attuale ricorrente, interessati alle trattative per l’acquisto del terreno. Si
contesta il ricorso al criterio della valutazione frazionata delle dichiarazioni
della persona offesa, che si applica solo con riferimento a fatti diversi,
evidenziandosi che il Tribunale, trattandosi dello stesso fatto, avrebbe
dovuto scendere minuziosamente nell’analisi delle due dichiarazioni. Si
eccepisce l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione con riferimento
alla frase «io negai» pronunciata dalla persona offesa Umberto Remo in
una conversazione con la figlia intercettata subito dopo l’interrogatorio del
primo dinanzi al RM., contestandosi anche in questo caso il criterio della
valutazione frazionata. Si eccepisce la carenza ed illogicità della
motivazione con riferimento all’attendibilità dei testimoni della difesa,
evidenziandosi come la circostanza che si trattasse di dipendenti di ditte
commerciali facenti capo al ricorrente non può inficiarne l’attendibilità e si
evidenzia la mancata risposta alla memoria difensiva nella parte relativa ai
motivi di rancore nutriti dallo zio nei confronti del ricorrente per via dei
rifiuti opposti da quest’ultimo ad erogare allo zio ulteriori prestiti.
2.3. violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. c) cod. proc.
pen. in relazione agli artt. 63 commi 1 e 2 e 191 cod. proc. pen. Si
eccepisce, al riguardo, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nel maggio
del 2001 da Umberto Remo, in quanto, nel momento in cui lo stesso non ha
accusato Michele Labate, gli si sarebbero dovuti immediatamente
contestare i reati di cui agli artt. 371 bis e 378 cod. pen., sollevando
analoga doglianza in relazione alle dichiarazioni rese dalle figlie di Umberto
Remo.

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quella utilizzata a carico del ricorrente, volendosi riferire all’assenza di

2.4. violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc.
pen., in relazione all’art. 393 cod. pen. Ci si duole della qualificazione
giuridica del fatto, evidenziandosi che nella richiesta di restituzione del
denaro non può configurasi una minaccia volta a conseguire un profitto
ingiusto.
2.5. violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc.
pen., in relazione all’art. 7 legge n. 203 del 1991, per non potersi ipotizzare
l’utilizzo del metodo mafioso solo sulla base della circostanza che il

ricorrente è il cognato di Michele Labate.
2.6. violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma
1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 274 lett. a) e c) cod.
proc. pen. Con riferimento al pericolo di inquinamento probatorio si
contesta la possibilità di fare pressioni sulle figlie di Umberto Remo
evidenziandosi che le stese sono state già sentite nel 2011 e che l’indagine
è aperta dal 2009 e quanto al pericolo di reiterazione del reato si contesta
che siano stati utilizzati fatti in relazione ai quali il ricorrente è stato
assolto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è infondato e deve essere, pertanto, rigettato. È anzitutto
necessario chiarire i limiti di sindacabilità da parte di questa Corte dei
provvedimenti adottati dal giudice del riesame dei provvedimenti sulla
libertà personale. Secondo l’orientamento di questa Corte, che il Collegio
condivide, l’ordinamento non conferisce alla Corte di Cassazione alcun
potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende
indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, né alcun potere di
riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso
l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate,
trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile
del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare, nonché
del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità sui punti devoluti è,
perciò, circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di
verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di
carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto
incensurabile in sede di legittimità: 1) – l’esposizione delle ragioni
giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) – l’assenza di
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N

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illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. (Sez. 6 n. 2146 del 25.05.1995, Tontoli,
Rv. 201840; sez. 2 n. 56 del 7/12/2011, Rv. 251760). Inoltre il controllo di
legittimità sulla motivazione delle ordinanze di riesame dei provvedimenti
restrittivi della libertà personale è diretto a verificare, da un lato, la
congruenza e la coordinazione logica dell’apparato argomentativo che
collega gli indizi di colpevolezza al giudizio di probabile colpevolezza

stabilito a garanzia del provvedimento, non involge il giudizio ricostruttivo
del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito circa l’attendibilità delle
fonti e la rilevanza e la concludenza dei risultati del materiale probatorio,
quando la motivazione sia adeguata, coerente ed esente da errori logici e
giuridici. In particolare, il vizio di mancanza della motivazione
dell’ordinanza del riesame in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza non può essere sindacato dalla Corte di legittimità, quando
non risulti “prima facie” dal testo del provvedimento impugnato, restando
ad essa estranea la verifica della sufficienza e della razionalità della
motivazione sulle questioni di fatto. (Sez. 1 n. 1700 del 20.03.1998,
Barbaro, Rv. 210566). Non possono essere dedotte come motivo di ricorso
per cassazione avverso il provvedimento adottato dal tribunale del riesame
pretese manchevolezze o illogicità motivazionali di detto provvedimento,
rispetto a elementi o argomentazioni difensive in fatto di cui non risulti in
alcun modo dimostrata l’avvenuta rappresentazione al suddetto tribunale,
come si verifica quando essa non sia deducibile dal testo dell’impugnata
ordinanza e non ve ne sia neppure alcuna traccia documentale quale, ad
esempio, quella costituita da eventuali motivi scritti a sostegno della
richiesta di riesame, ovvero da memorie scritte, ovvero ancora dalla
verbalizzazione, quanto meno nell’essenziale, delle ragioni addotte a
sostegno delle conclusioni formulate nell’udienza tenutasi a norma dell’art.
309, comma 8, cod. proc. pen. (Sez. 1 sent. n. 1786 del 5.12.2003,
Marchese, Rv 227110). Tanto precisato, sul caso di specie deve rilevarsi
quanto segue.
3.1. Con riferimento a quanto dedotto nel primo motivo di ricorso, nel
provvedimento impugnato è contenuta un’analitica ricostruzione del fatto
contestato ed in particolare del contesto ambientale nell’ambito del quale lo
stesso è maturato. A questo riguardo appare significativo evidenziare come
sia stata rappresentata, con argomentazioni in fatto non contestate nel

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dell’indagato e, dall’altro, la valenza sintomatica degli indizi. Tale controllo,

ricorso, l’origine del prestito che la persone offesa aveva richiesto ai propri
nipoti, fra i quali l’attuale ricorrente: Umberto Remo, titolare di una ditta di
commercializzazione all’ingrosso di carne di pollame, si è venuto a trovare
in una situazione di bisogno economico per via di atti di concorrenza sleale
posti in essere in suo danno da personaggi facenti capo alla cosca Labate, i
quali agivano nell’interesse della ditta «Giuseppe Remo e figli», della
cui compagine societaria fa parte l’attuale ricorrente. Nel provvedimento

che l’impresa della persona offesa aveva subito un tracollo finanziario
determinato dal controllo preponderante ed opprimente della cosca Labate,
sul settore merceologico della vendita di carni macellate e pollame ed in
particolare la clientela della prima era stata dirottata verso l’impresa
concorrente di Remo Pasquale, risultata collegata appunto alla cosca
Labate. Significativo appare, al riguardo, il contributo dichiarativo fornito
dal collaboratore di giustizia Fragapano Giovan Battista, riportato nel
provvedimento impugnato circa i rapporti fra l’impresa «Remo Giuseppe e
figli», di cui è contitolare il ricorrente, con la cosca Labate finalizzati ad
assicurarsi il controllo di una buona fetta del mercato all’ingrosso di
pollame in danno dell’impresa della persona offesa.
In questo contesto di fatto, alla luce di quanto risulta dal
provvedimento impugnato con argomentazioni prive di contraddittorietà, si
inseriscono i prestiti che Remo Umberto aveva ricevuto dai nipoti Remo
Pasquale e Remo Giovanni, attuale ricorrente; quest’ultimi poi, avevano
preteso che il pagamento del prestito avvenisse, non solo con la
restituzione del denaro, ma anche con la cessione dell’immobile descritto
nell’imputazione, che veniva effettivamente ceduto ad un prezzo ritenuto
incongruo rispetto al valore reale del bene. Vengono, quindi,
adeguatamente descritti quegli elementi ritenuti idonei ad integrare
l’estorsione patrimoniale, che si realizza quando al soggetto passivo sia
imposto di porsi in un rapporto negoziale di natura patrimoniale con
l’agente o con altri soggetti in violazione della propria autonomia negoziale,
essendogli, di fatto, impedito di perseguire i propri interessi economici nei
modi e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune (sez. 6 n. 46058
del 14/11/2008, Rv. 241924).
L’estorsione descritta nella provvisoria imputazione, secondo la
ragionevole ricostruzione delle risultanze investigative operata dai giudici di
Reggio Calabria, era maturata in precedenza nel quadro dei rapporti tra

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impugnato si dà atto delle risultanze delle indagini dalle quali era emerso

imprenditoriali fra la persona offesa ed i suoi nipoti Remo Pasquale e Remo
Giovanni; in tal senso nel provvedimento impugnato si dà atto che costoro
<< ...avvalendosi della forza di intimidazione della cosca Labate per il tramite del loro comune cognato Michele Labate, dapprima avevano indotto in difficoltà finanziarie la persona offesa, quindi si erano proposti come suoi sostenitori economici, anche al fine di evitare l'esecuzione forzata sull'immobile di cui al capo B); infine, avendo posto la persona offesa ed i bene immobile predetto a prezzo vile, approfittando del precario equilibrio economico della persona offesa e della capacità intimidatoria della cosca». Il Tribunale, attraverso l'esame dei dialoghi intercettati, ben ha posto in evidenza lo stato di costrizione che aveva determinato la persona offesa a cedere alle pretese degli indagati, fra i quali l'attuale ricorrente ed ha enunciato, in modo chiaro e preciso, rispondendo alle specifiche contestazioni che erano state mosse dalla difesa, la condotta materiale ascritta a quest'ultimo ritenuta, legittimamente, idonea ad integrare, al livello di gravità indiziaria, il reato provvisoriamente ipotizzato; in tale direzione viene evidenziato come l'attuale ricorrente si fosse adoperato, anche nell'interesse del cognato Michele Labate e della cosca di riferimento, a costringere la persona offesa dapprima alla restituzione immediata del credito e poi anche a cedere il capannone ad un prezzo di gran lunga inferiore a quello di mercato; e viene dato atto di come la persona offesa e le figlie fossero consapevoli della qualità criminale dei loro interlocutori, che escludeva possibilità alternative a quelle da loro prescelte in ordine alla cessione del capannone. Ci si sofferma, quindi, sul ruolo di compartecipazione nel reato che avrebbe ricoperto l'attuale ricorrente, evidenziando, in modo logico sulla base di una lettura ragionevole delle risultanze investigative, come detto ruolo si sia rivelato essenziale nella suoi familiari in una sorta di vicolo cieco, avevano imposto la cessione del realizzazione della complessa operazione criminosa: in tal senso viene dato atto che «il denaro venisse restituito ai due fratelli Remo, ..., e che gli stessi si rendessero portatori dell'immediata richiesta di restituzione del denaro nei confronti della persona offesa, consapevoli della carica di intimidazione derivante dalla cosca mafiosa dei Labate cui risultavano contigui». Risulta, quindi, che nel provvedimento impugnato si è fatto buon uso delle costanti affermazioni di questa Corte in tema di minaccia costitutiva del delitto di estorsione (sez. 5 n. 41507 del 22/9/2009, Rv. 7 p)_ 245431; sez. 2 n. 19724 del 20/5/2010, Rv. 247117), laddove si è affermato che detta minaccia, oltre ad essere palese o esplicita, può manifestarsi, come appunto avvenuto nel caso di specie, anche in maniera implicita ed indiretta, essendo soltanto necessario, ai fini dell'integrazione del reato, che essa sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità sopraffattrice dell'agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle Rv. 254297). 3.2. Quanto alla dedotta violazione del principio del contraddittorio di cui all'art. 6 della CEDU, nell'interpretazione che è allo stesso è stata data dalla stessa Corte EDU e da questa Corte di legittimità, non erra il Tribunale di Reggio Calabria nell'affermare che i principi richiamati dalla difesa e riportati anche nel ricorso per Cassazione attengono alla fase del giudizio, precisamente al rispetto del principio del contraddittorio nel processo, e non sono pedissequamente applicabili alla fase delle indagini preliminari ed in particolare nel procedimento incidentale di applicazione di una misura cautelare. Con riferimento, poi, alla riconosciuta attendibilità della persona offesa, in via preliminare il Tribunale ha evidenziato che al ricorrente sia stata ascritta la condotta criminosa descritta nella provvisoria imputazione non solo sulla base delle dichiarazioni rese dalla stessa persona offesa al RM., ma anche in forza delle conversazioni intercettate, dalle quali era emerso un contesto di intimidazioni e pressioni, elementi questi ragionevolmente ritenuti costituire la base della gravità indiziaria del reato di estorsione. A questo fine si è proceduto, in via preliminare, ad un'analisi dell'attendibilità intrinseca di quanto riferito dalla persona offesa, evidenziandosi come le figlie di Umberto Remo, nell'ambito dei dialoghi intercettati, abbiano confermato integralmente le circostanze riferite dal padre. Quindi si è valutato come quanto emerso dai colloqui intercettati sia stato pienamente confermato dalla persona offesa dinanzi al RM. ed alla polizia giudiziaria. Segnatamente, contrariamente a quanto eccepito nel motivo di ricorso in esame, non vi è stata una valutazione frazionata delle dichiarazioni della persona offesa, essendosi, invece, rilevata l'iniziale reticenza della stessa, subito superata in seguito alla contestazione del contenuto delle intercettazioni, dandosi atto che la narrazione inerente i 8 condizioni ambientali in cui questa opera (sez. 2 n. 2833 del 27/9/2012, protagonisti della vicenda e le dinamiche vessatorie subite è risultata del tutto coerente con quanto era emerso dai colloqui intercettati. Il Collegio ragionevolmente non ha considerato, quindi, credibile quanto riferito dalla persona offesa nella parte iniziale dell'atto investigativo, quando ancora non era stato contestato il contenuto delle intercettazioni, in ordine all'assenza di interesse da parte dell'attuale ricorrente rispetto all'acquisto del capannone, in quanto la complessità della vicenda ed il ruolo disvelato dalla persona offesa immediatamente dopo l'iniziale indecisione di cui si è detto ed allorquando gli investigatori avevano rivelato alla persona offesa il contenuto delle intercettazioni. Ed ancora il ruolo e l'interesse del Remo Giovanni nella vicenda estorsiva di cui si discute non è stato considerato escluso in conseguenza del fatto che il capannone sia stato poi effettivamente ceduto al solo fratello del ricorrente Remo Pasquale; difatti nel provvedimento impugnato si era ampiamente dimostrato come i due fratelli fossero «in affari» tra loro e come la restituzione del prestito, considerata prodromica alla cessione del capannone, fosse avvenuta in favore del Remo Giovanni, il quale, sulla base delle parole della persona offesa, era risultato pienamente coinvolto nell'operazione al di là della mera intestazione formale del capannone. Il Tribunale ha esaminato poi il contenuto dell'intercettazione effettuata nella sala adiacente a quella ove era stata appena sentita dagli inquirenti la persona offesa, escludendo, ragionevolmente, che quanto intercettato potesse incidere in alcun modo sulla genuinità delle dichiarazioni rese; in tal senso, alla luce della sequenza temporale dei fatti, deve escludersi qualsiasi contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione laddove è stato affermato che non vi poteva essere stato un tentativo del Remo di concordare con le figlie la versione da fornire agli inquirenti, in quanto la frase captata era stata pronunciata subito dopo la conclusione dell'attività d'indagine alla quale aveva partecipato la persona offesa. Da un punto di vista logico il contenuto di quell'intercettazione è stato giustamente inteso come un ulteriore elemento avvalorante lo stato di intimidazione in cui versava la persona offesa, la quale non voleva rivelare ai suoi familiari quanto aveva appena riferito agli inquirenti. Quanto poi alla valutazione delle dichiarazioni rese in sede di indagine difensiva, il Tribunale, contrariamente a quanto sostenuto nel 9 significativo ricoperto all'interno della stessa dal Remo Giovanni è stato ricorso, non si è limitato affatto a valutarne l'attendibilità esclusivamente sulla base della considerazione che si trattava di dichiarazioni provenienti da soggetti dipendenti della ditta del ricorrente; piuttosto, con motivazione priva di contraddittorietà o illogicità manifeste, viene evidenziato, quanto alle dichiarazioni rese Morabito Francesco, l'estrema genericità delle stesse e l'incoerenza con il dato investigativo acquisito dell'esistenza di un legame societario fra i due fratelli Giovanni e Pasquale Remo, dal quale viene fatto cui ha avuto origine l'estorsione; ed anche con riguardo alle dichiarazioni rese da Fiumanò Carlo viene evidenziata la genericità delle stesse relativamente ai rapporti fra i due fratelli Giovanni e Pasquale Remo e l'imprecisione relativamente ai prestiti ricevuti dalla persona offesa. Ed analoga valutazione di genericità viene, ragionevolmente, attribuita al contributo conoscitivo offerto dai suddetti soggetti in ordine all'interesse dell'attuale ricorrente all'acquisto del capannone oggetto della vicenda estorsiva di cui si discute. 3.3. Passando all'esame del terzo motivo di ricorso, rileva il Collegio che il Tribunale ha adeguatamente affrontato la questione relativa all'utilizzabilità delle dichiarazioni rese da Remo Umberto, pervenendo alla ragionevole e legittima conclusione della loro piena utilizzabilità, per non ricorrere, nel caso di specie, l'ipotesi disciplinata dall'art. 63 comma 1 cod. proc. pen. In tale direzione viene esclusa la possibilità di ipotizzare qualsiasi reato a carico del Remo Umberto, evidenziandosi l'assenza di qualsiasi intento elusivo o di favoreggiamento degli autori del reato; viceversa il Tribunale dà atto di come le dichiarazioni rese dallo stesso siano risultate pienamente coerenti con le risultanze delle intercettazioni e con particolare riferimento al ruolo ricoperto nell'intera vicenda dall'attuale ricorrente. Al riguardo deve affermarsi, in linea con quanto già ritenuto da questa Corte (sez. 5 n. 215 discendere, per via logica, una cointeressenza imprenditoriale nel settore in del 20/1/2003, Rv. 193812), che la persona che rende dichiarazioni al giudice o al pubblico ministero ha l'obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte, ai sensi degli artt 198 comma 1 e 362 cod. proc. pen. e di quest'obbligo deve essere avvertita sia inizialmente, sia quando sia sospettata di falsità o reticenza, senza che in seguito a questo sospetto ed al conseguente avvertimento mutino le forme dell'assunzione e diventi necessario procedere considerando la persona come sottoposta alle indagini. Inoltre, in ogni caso, la disciplina relativa alle dichiarazioni indizianti 10 h)u rese, come nel caso di specie, da persona non imputata né sottoposta alle indagini all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria non trova applicazione nel caso in cui quelle dichiarazioni possano concretare esse stesse un fatto criminoso (sez. 2 n. 35538 del 5/6/2008, Rv. 240657). A tale conclusione è da tempo pervenuta la giurisprudenza di questa Corte, ritenendo di dovere circoscrivere il concetto di dichiarazioni indizianti di cui all'art. 63 comma 1 cod. proc. pen. nell'ambito di quelle rese da un circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale in relazione appunto a quei fatti. Difatti la norme in questione svolge una funzione di garanzia in applicazione del principio nemo tenetur se detegere, nell'ottica di salvaguardare una persona che abbia commesso un reato e non quella che il reato debba ancora commettere (sez. 6 n. 21116 del 31/3/2004, Rv. 229024; sez. 2 n. 36284 del 9/7/2009, Rv. 245597). Sulla base delle stesse argomentazioni fin ora svolte, la doglianza deve considerarsi infondata anche con riguardo alle dichiarazioni rese dalle figlie di Umberto Remo. 3.4. La problematica relativa alla qualificazione giuridica del fatto, di cui si occupa il quarto motivo di ricorso, è stata adeguatamente affrontata nel provvedimento impugnato con argomentazioni puntuali in fatto e corrette in diritto. In tale direzione viene evidenziato che «... la forza di grave intimidazione, promanante dalla cosca mafiosa dei Labate, ha determinato in capo alle persone offese la rappresentazione di un evidente e chiarissimo pericolo per la propria incolumità personale al punto che non vi è stata alcun altra via d'uscita se non quella di cedere alle richieste estorsive e vendere un bene al valore di molto inferiore a quello di mercato». Ed è stata, ragionevolmente, esclusa la possibilità di inquadrare il fatto nell'ambito del reato di cui all'art. 393 cod. pen., come prospettato nei motivi di riesame, sulla base del principio, costantemente affermato da questa Corte (sez. 6 n. 41365 del 28/10/2010, Rv. 248736; sez. 5 n. 19230 del 6/3/2013, Rv. 256249), in base al quale integra il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di fare valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell'altrui volontà assume ex se i caratteri dell'ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva. 3.5. La ritenuta provvisoria contestazione della circostanza aggravante 11 soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli prevista dall'art. 7 legge n. 203 del 1991, contrariamente a quanto sostenuto nel quinto motivo di ricorso, non si fonda esclusivamente sul rapporto familiare che lega l'attuale indagato a Labate Michele; piuttosto il Tribunale ha evidenziato come Remo Giovanni, unitamente al fratello Pasquale, abbia agito attraverso l'utilizzo del caratteristico metodo mafioso, cioè avvalendosi della capacità d'intimidazione della cosca mafiosa dei Labate; proprio l'utilizzo di tale metodo, grazie alla capacità di alla cosca di conseguire il controllo economico del settore in cui operava la persona offesa e quindi di conseguire il profitto del reato provvisoriamente ipotizzato nell'imputazione; ed inoltre il fatto, nel caso di specie, risulta essere stato commesso da soggetti appartenenti alla cosca di Michele Labate, il quale all'epoca del fatto era latitante. Al riguardo è noto che l'art. 7 legge n. 203 del 1991 configura due diverse ipotesi di circostanze aggravanti: la prima si applica al reato commesso da un soggetto, appartenente o meno all'associazione di cui all'art. 416 bis c.p., che si avvale del metodo mafioso; tale è quella condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica fatta di intimidazione su un numero determinato o indeterminato di persone. Non deve formare oggetto di prova ai fini dell'integrazione dell'aggravante l'esistenza dell'associazione mafiosa, essendo sufficiente avere ingenerato nella vittima del reato la consapevolezza che l'agente appartenga a tale associazione. In questo senso si è espressa questa Corte nell'individuare la ratio della circostanza aggravante in argomento: «La ratio della disposizione di cui all'art. 7 D.L. 152/1991 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando metodi mafiosi o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l'atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino da mafiosi, oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi, quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata >> (sez. 6 n. 582 del 19.2.1998, Rv. 210405). Invece la
seconda ipotesi di circostanza aggravante, richiedendo, per la sua
integrazione, che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare
l’attività di un’associazione di tipo mafioso, implica necessariamente

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sopraffazione del sodalizio criminale, ha consentito all’impresa collegata

l’esistenza reale e non semplicemente supposta di essa (sez. 1 n. 1327 del
18.3.1994, Rv. 197430). Ma non dovrà essere provata l’effettiva
agevolazione dell’associazione mafiosa, essendo sufficiente accertare
l’oggettiva finalizzazione dell’azione all’agevolazione del gruppo criminale e
non già a favorire soltanto un partecipe di detto gruppo. Ora, per quanto
sopra evidenziato, dalla motivazione del provvedimento impugnato
emerge in modo evidente la ricorrenza della circostanza aggravante in

giustificare un aggravamento della pena.
3.6. Quanto alle esigenze cautelari, cui attiene l’ultimo motivo di ricorso,
non presenta vizi di legittimità la motivazione del provvedimento
impugnato che ha ravvisato la sussistenza di entrambe le esigenze di cui
alle lettere a) e c) dell’art. 274 cod. proc. pen. Difatti, con motivazione in
fatto congrua e priva di contraddizioni logiche, il Tribunale di Reggio
Calabria ha evidenziato la persistenza di specifici elementi che fanno
ritenere fondato il pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie, in
considerazione della qualità personale dell’indagato, risultato essere un
imprenditore contiguo alla cosca Labate e delle modalità del fatto, dalle
quali, ragionevolmente, si è desunta una non occasionalità della condotta
posta in essere.

4. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
respinge il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere
condannata al pagamento delle spese del procedimento.
4.1. Inoltre, poiché dalla presente decisione non consegue la rimessione in
libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’articolo 94, comma 1 ter,
delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale – che copia
della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui gli si
indagato trovano ristretti perché provveda a quanto stabilito dal comma 1
bis del citato articolo 94.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Si provveda a norma dell’articolo 94, comma 1 ter, delle disposizioni di
attuazione del codice di procedura penale.

13

argomento sotto entrambi gli aspetti considerati dal legislatore idonei a

Così deliberato in camera di consiglio, il 9 gennaio 2014

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