Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 268 del 05/12/2017


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 268 Anno 2018
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: SEMERARO LUCA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
TOMMASELLI ANTONIO nato il 07/04/1939 a FOGLIANISE
nel procedimento a carico di quest’ultimo

avverso l’ordinanza del 15/03/2017 del TRIB. LIBERTÀ di BENEVENTO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere LUCA SEMERARO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale SIMONE
PERELLI, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

udito il difensore, avv. Avvocato PASQUALE TARRICONE, che ha concluso
riportandosi ai motivi del ricorso.

Data Udienza: 05/12/2017

Ritenuto in fatto

1. Il difensore di Antonio Tommaselli ha proposto ricorso per cassazione
avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Benevento del 15 marzo 2017.
Il difensore ha premesso che Antonio Tommaselli, quale legale rappresentante
della Tommaselli Autoveicoli s.r.I., è indagato per il delitto ex art. 10 ter d.lgs.
74/2000 per l’omesso versamento dell’i.v.a., per un importo di euro 482.681,00,
relativo all’anno di imposta 2014.

del 15 novembre 2016, notificato il 26 gennaio 2017, ha disposto il sequestro
preventivo esclusivamente per equivalente di somme e dei beni di Antonio
Tommaselli, fino al valore di 482.681,00.
Il Tribunale del Riesame di Benevento, con l’ordinanza del 15 marzo 2017,
ha rigettato il riesame proposto nell’interesse di Antonio Tommaselli.

2. Con il primo motivo la difesa ha dedotto il vizio di violazione di legge, ai
sensi dell’art. 606 lett. b) cod. proc. pen., in relazione all’art. 321 comma 2 cod.
proc. pen., all’art. 240 cod. pen., agli artt. 10 ter e 12 bis d.lgs. 74/2000.
Dopo aver riportato i motivi già esposti dinanzi al Tribunale del Riesame di
Benevento, la difesa ha affermato che l’ordinanza impugnata ha violato i principi
stabiliti dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n.
10561/2014, Gubert, in quanto il sequestro preventivo è stato disposto
direttamente per equivalente a carico di Antonio Tommaselli senza prima
disporre il sequestro finalizzato alla confisca diretta del profitto rinvenibile nei
beni della società.
La difesa ha argomentato sul concetto di profitto (pag. 3); ha ribadito i
principi espressi dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza
Gubert (pag. 4); ha riportato i passi dell’ordinanza impugnata contestando, in
particolare, alcune affermazioni del Tribunale del Riesame di Benevento: si tratta
di quelli in cui il Tribunale del Riesame, pur aderendo ai principi della sentenza
Gubert, ha affermato che nei casi di misure cautelari reali non è possibile
pretendere la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto del
reato, giacché, durante il tempo necessario a tale ricerca, potrebbero essere
occultati i beni suscettibili di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente,
così vanificando le esigenze di cautela.
La difesa ha poi contestato un altro passaggio dell’ordinanza nel quale si
riporta parte della motivazione della sentenza della sezione 3 della Corte di
cassazione n.1738/2015, Bartolini, sulla legittimità del sequestro «per

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Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Benevento con decreto

equivalente» quando non è ancora possibile stabilire se vi sarà confisca dei beni
che costituiscono il prezzo o il profitto del reato, previa loro certa individuazione.
Secondo la difesa, inoltre, l’ordinanza impugnata non ha fatto buon governo
dei principi espressi dalla sentenza Gubert laddove esclude l’esistenza di una
pretesa del ricorrente di un vero e proprio accertamento quale presupposto della
richiesta del p.m. di sequestro preventivo per equivalente.
Invece, secondo la difesa, proprio la sentenza Bartolini afferma che il
sequestro finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto sui beni

della persona giuridica; che nei reati tributari il p.m. è legittimato, sulla base
degli atti, a richiedere il sequestro preventivo per equivalente – invece del
sequestro finalizzato alla confisca diretta del profitto – all’esito di una valutazione
allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente, non
essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti
preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto nelle casse della società o per
ricercare i beni che costituiscono la trasformazione del profitto, incombendo al
soggetto destinatario del provvedimento cautelare l’onere di dimostrare la
sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro in forma diretta.
Secondo la difesa, il Tribunale del Riesame non ha accertato se fosse
possibile procedere al sequestro dei beni della società né ha valutato l’operato
del p.m., rispetto alla richiesta di sequestro preventivo solo per equivalente dei
beni del ricorrente.
Segnala la difesa di aver prodotto all’udienza dinanzi al Tribunale del
Riesame la documentazione dalla quale risulta che la società ha beni mobili ed
immobili per un valore superiore al profitto e ciononostante il Tribunale del
Riesame di Benevento ha ritenuto legittimo il sequestro per equivalente.
La difesa ha contestato poi la motivazione dell’ordinanza laddove, invece di
valutare l’assenza ab origine della ricerca del profitto tra i beni della società, ha
affermato che le disponibilità della società sono limitate, laddove dal complesso
dei documenti forniti dalla difesa l’attivo patrimoniale è superiore ad euro
1.600.000 senza dar conto del perché non siano stati sottoposti a sequestro
prima i beni della società.

3. Con il secondo motivo la difesa ha contestato la «Violazione dell’art. 606
lett. b, in relazione all’art. 321 comma 2, all’art. 322 ter, agli artt. 10 ter e 12 bis
d. Igs. 74/2000; per insussistenza del fumus commissi delicti».
In estrema sintesi, la difesa ha rilevato che al Tribunale del Riesame di
Benevento era stato rappresentato che la Tommaselli Autoveicoli s.r.I., già in
data 20 aprile 2015, aveva presentato ricorso per l’ammissione alla procedura di
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degli amministratori solo nell’ipotesi in cui il profitto non sia più nella disponibilità

concordato preventivo; trascorso il termine di 120 giorni concesso dal Tribunale,
in data 25 novembre 2015 ha presentato la proposta, il piano e la
documentazione.
La società è stata ammessa al concordato preventivo dal Tribunale di
Benevento con provvedimento del 26 settembre 2016; il piano prevede fra l’altro
il pagamento integrale del debito Iva. Dunque, secondo la difesa, l’ammissione
alla procedura del concordato preventivo in epoca antecedente alla scadenza del
termine per il versamento dell’imposta, rende insussistente il fumus del delitto

indicarne gli estremi.
In ogni caso, secondo la difesa, la presentazione del ricorso e il deposito del
piano di ristrutturazione che include il pagamento del debito Iva, incidono sulla
materialità del reato o quanto meno sulla sussistenza dell’elemento psicologico
del reato. Sul punto, secondo la difesa, il Tribunale del Riesame di Benevento è
stato silente, limitandosi a riportare un principio giurisprudenziale che per il
quale sussiste il reato anche in caso di ammissione alla procedura di concordato
preventivo.
Inoltre, secondo la difesa, la motivazione dell’ordinanza è manifestamente
illogica perché, invece di analizzare la sussistenza dell’elemento psicologico in
capo al Tommaselli, afferma esclusivamente che il mancato pagamento
concretizza ex se il reato contestato.
La motivazione sarebbe poi affetta da illogicità manifesta laddove afferma
che è consentita la dilazione di pagamento dell’iva e che il debitore concordatario
non viola il principio di uguaglianza tra i creditori se versa il tributo dopo la
presentazione della domanda di concordato.
Afferma la difesa che Tommaselli non può aver voluto il fatto reato se ha
deciso di soddisfare i creditori, di estinguere i debiti compreso quello relativo
all’Iva, procedendo al piano di ristrutturazione, con conseguente postergazione e
dilazione degli adempimenti, nella procedura giurisdizionalizzata.
La difesa ha quindi chiesto l’annullamento dell’ordinanza.

Considerato in diritto

1. Va premesso che avverso le ordinanze emesse nella procedura di riesame
delle misure cautelari reali il ricorso per cassazione è ammesso, ai sensi dell’art.
325 cod. proc. pen., soltanto per violazione di legge; è preclusa ogni censura
relativa ai vizi della motivazione, salvi i casi della motivazione assolutamente
mancante – che si risolve in una violazione di legge per la mancata osservanza
dell’obbligo stabilito dall’art. 125 cod. proc. pen. – e della motivazione
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contestato. La difesa ha poi citato un passo di una sentenza, senza però

apparente, tale cioè da rendere l’apparato argomentativo, posto a sostegno del
provvedimento, privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e
ragionevolezza e quindi, inidonei, a rendere comprensibile l’itinerario logico
seguito dal giudice.
Non può essere dedotto il vizio della illogicità manifesta della motivazione,
che può essere denunciato, in sede di legittimità, soltanto mediante lo specifico
ed autonomo motivo di ricorso di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc.

2. In ordine logico, va affrontato prima il secondo motivo relativo alla
sussistenza del fumus commissi delicti. Tale motivo è infondato.
2.1. L’ammissione al concordato preventivo è avvenuta dopo la scadenza del
termine ex art. 10 ter del d. Igs. 74/2000, come per altro indicato dallo stesso
ricorrente anche nei motivi presentati al Tribunale del riesame; pertanto sussiste
il fumus del delitto contestato perché la mera istanza di ammissione al
concordato preventivo lascia intatti gli obblighi fiscali del legale rappresentante
della società.
Cfr. in tal senso, con riferimento a diversa ipotesi di reato, Cass. Sez. 3, n.
8002 del 10/06/1997 Rv. 209084, Laghi: «Nel caso in cui una Società abbia
presentato domanda per essere ammessa alla procedura di concordato
preventivo, il legale rappresentante ha ancora la piena capacità di effettuare i
pagamenti dovuti, e in particolare di versare all’erario le ritenute fiscali operate
come sostituto d’imposta, fino a quando il tribunale competente abbia disposto il
decreto di ammissione alla detta procedura. Ciò perché gli effetti del concordato
preventivo nei confronti dell’imprenditore che ha presentato la relativa istanza
iniziano solo dopo l’emissione del decreto di ammissione da parte del tribunale:
infatti, solo con il decreto il tribunale dichiara aperta la procedura, nomina il
giudice delegato e il commissario giudiziale e solo dopo l’ammissione a tale
procedura il potere di amministrare dell’imprenditore rientra sotto la vigilanza del
commissario giudiziale e sotto la direzione del giudice delegato» .
Tale principio è stato ribadito anche da quella giurisprudenza che ha
ammesso l’esistenza di effetti dell’ammissione al concordato preventivo ma solo
prima della scadenza del termine degli obblighi tributari. Cfr. Cass, Sez. 3, n.
15853 del 12/03/2015, Rv. 263436, imputato Fantini: In tema di sequestro
preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, non è configurabile il “fumus
commissi delicti” del reato di cui all’art. 10 ter D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per il
mancato versamento del debito IVA scaduto, nel caso in cui il debitore sia stato
ammesso al concordato preventivo in epoca anteriore alla scadenza del termine

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pen.

per il relativo versamento, per effetto della inclusione nel piano concordatario del
debito d’imposta, degli interessi e delle sanzioni amministrative.
2.2. Quanto alla questione relativa alla insussistenza del fumus per la
mancanza dell’elemento soggettivo, va ricordato che in sede di riesame dei
provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, al giudice, benché sia
precluso l’accertamento del merito dell’azione penale ed il sindacato sulla
concreta fondatezza dell’accusa, è demandata una valutazione sommaria in
ordine al fumus del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della

difetto dell’elemento soggettivo del reato, purché esso emerga ictu °cui/ (Cass.
Sez. 2, n. 18331 del 2016 Rv. 266896, Iommi e altro) o sia di immediato rilievo
(Cass. Sez. 6, n. 16153 del 2014 Rv. 259337, Di Salvo).
Il delitto per cui si procede è punibile a titolo di dolo generico: per la
commissione del reato è sufficiente la coscienza e volontà di non versare
all’Erario l’Iva già percepita ed indicata nella dichiarazione.
In più, come affermato nella motivazione della sentenza delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione n. 37424 del 28/03/2013 Rv. 255757, Romano, proprio
in relazione al delitto ex art. 10 ter, la prova del dolo è insita in genere nella
presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a
titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non
oltre la soglia di Euro cinquantamila, entro il termine lungo previsto.
Aggiungono le Sezioni unite della Corte di Cassazione che «Il debito verso il
fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento delle operazioni
imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote
già (dall’acquirente del bene o del servizio) VIVA dovuta e deve, quindi, tenerla
accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter
adempiere all’obbligazione tributaria».
Orbene, la questione dell’insussistenza del

fumus

per la mancanza

dell’elemento soggettivo del reato è stata proposta dalla difesa al Tribunale del
riesame; nell’ordinanza impugnata non vi è un’esplicita motivazione.
Deve però ritenersi che tale questione sia stata implicitamente rigettata dal
Tribunale del riesame laddove ha ritenuto la sussistenza del fumus – e di
conseguenza la volontarietà dell’omissione – in base alla natura istantanea del
delitto, alla prevalenza degli obblighi tributari relativi all’Iva, anche con
riferimento alla natura di tributo comunitario, rispetto alle scelte privatistiche
collegate alla domanda di ammissione al concordato preventivo, ed ai diritti dei
creditori.
Va aggiunto che la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto
suscettibile di accoglimento, posto che la domanda di ammissione al concordato
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fattispecie contestata; ne consegue che lo stesso giudice può rilevare anche il

preventivo non elide gli obblighi fiscali; risulta presentata la dichiarazione Iva;
non risultano effettuati gli accantonamenti dell’Iva; l’Iva dichiarata non risulta
versata.

3. Il primo motivo di ricorso va accolto nel senso che segue.
3.1. Ai sensi dell’art. 12 bis comma 1 del d.lgs. 74/2000 (introdotto da
d.lgs. 158/2015 ed in vigore dal 22 ottobre 2015; la analoga disciplina
previgente era disciplinata dall’art. 322 ter cod. pen., richiamato dall’art. 1,

della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di
procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre
ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che
appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile,
la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a
tale prezzo o profitto».
Nei reati tributari il profitto è identificabile con «qualsivoglia vantaggio
patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può,
dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal
mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito
dell’accertamento del debito tributario» (così la sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione n. 18374 del 2013, Adami, Rv. 255036).
Tenuto conto che la condotta tipica del delitto ex art. 10 ter del d.lgs. n. 74
del 2000 consiste nell’omesso versamento dell’Iva, il profitto è rappresentato dal
denaro (non versato, oltre agli interessi ed alle sanzioni); pertanto, la confisca
delle somme o del tantundem rinvenuti nella disponibilità del soggetto che l’ha
conseguito, anche sotto forma di un risparmio di spesa attraverso l’evasione dei
tributi, avviene, alla luce della fungibilità di tale profitto, sempre in forma
specifica o diretta e mai per equivalente (Cass. Sez. 3, n. 41073 del 2015,
Scognamiglio, Rv. 265028); in tal caso non occorre, per la particolare natura del
bene, la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente
oggetto della confisca e il reato. Di conseguenza, qualora il prezzo o il profitto
c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, il sequestro delle
somme, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificato come
sequestro cd. diretto e, anche in tal caso, non necessita della prova del nesso di
derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto del vincolo preventivo e
il reato (cfr. la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 31617
del 2015, Lucci, Rv. 264437).
3.2. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. la sentenza n. 10561 del
30/01/2014, Gubert, Rv. 258647), già prima dell’entrata in vigore dell’art. 12
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comma 143, legge n. 244 del 2007) «Nel caso di condanna o di applicazione

bis, in un regime normativo di fatto immutato, hanno affermato che è consentito
nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla
confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al
profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa
quando tale profitto (o il bene direttamente riconducibile al profitto) sia rimasto
nella disponibilità della persona giuridica.
Quando il sequestro cd. diretto del profitto del reato tributario non è
possibile nei confronti della società, non è consentito nei confronti dell’ente

che la persona giuridica costituisca uno schermo fittizio, poiché i reati tributari
non sono ricompresi, nella lista del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, tra quelli che
consentono il sequestro per equivalente nei confronti di una persona giuridica.
Quando è possibile nei confronti della società il sequestro cd. diretto del
profitto di reato tributario non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla
confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per
reati tributari da costoro commessi a vantaggio della società, che non può
considerarsi, in questo caso, terza estranea al reato.
3.3. Dunque, per poter eseguire nel corso del procedimento penale il
sequestro finalizzato alla confisca «per equivalente», di beni di cui il reo abbia la
disponibilità per un valore corrispondente a quello del profitto del reato (cfr.
Cass. Sez. 3, n. 40362 del 2016, Rv. 268587, D’Agostino) è necessario
l’accertamento del presupposto costituito dalla impossibilità di sequestrare in via
diretta i beni che costituiscono il profitto del reato stesso.
Pertanto, il p.m. non ha una libera scelta tra il sequestro diretto e il
sequestro per equivalente (in tal senso in motivazione, Cass. Sez. 3, n. 35330
del 2016, Rv. 267649, Nardelli); nella fase genetica del sequestro, cioè prima di
procedere alle sue richieste, è tenuto ad accertare l’impossibilità del sequestro
del profitto del reato (sequestro cd. diretto o in forma specifica).
Tale impossibilità può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria
la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato: inoltre,
«In ogni caso, l’onere di procedere, da parte dell’accusa, all’aggressione diretta
del profitto del reato non può trasformarsi in una probatio diabolica, nel senso
che per dimostrare l’impossibilità di procedere al sequestro in via diretta non
devono ritenersi necessari accertamenti specifici e capillari» (in tal senso Cass.
Sez. 3, n. 40362 del 2016, Rv. 268587, D’Agostino).
Si è però affermato che se non è compatibile con i principi stabiliti dalle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione la pretesa del ricorrente di un vero e
proprio accertamento quale presupposto della richiesta da parte del p.m. di un
sequestro preventivo per equivalente, però, nei reati tributari, il pubblico
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collettivo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, salvo

ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti
processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per
“equivalente”, invece che in quella “diretta”, all’esito di una valutazione allo stato
degli atti della capienza patrimoniale dell’ente che ha tratto vantaggio dalla
commissione del reato, dovendosi escludere, peraltro, che in tale valutazione
possano rientrare considerazioni di “prudenza investigativa” estranee alla
concrete difficoltà di accertamento del patrimonio dell’ente beneficiato (così
Cass. Sez. 3, n. 35330 del 2016 Rv. 267649, Nardelli).

cautela ed alla natura dell’istituto: «… Così come la cognizione è sommaria in
ordine al fumus commissi delicti e al periculum in mora, parimenti non può che
essere sommaria in ordine alla identificazione della capienza patrimoniale
dell’ente che ha tratto profitto dal reato tributario. Il che significa che il PM dovrà
effettuare una verifica di quanto risulta allo stato degli atti prima di chiedere la
misura cautelare, non essendo invece obbligato a svolgere accertamenti specifici
e ulteriori rispetto a quanto è già confluito nel compendio indiziario»: (così Cass.
Sez. 3, n. 35330 del 2016 Rv. 267649, Nardelli).
Dunque, il p.m. per poter richiedere il sequestro finalizzato alla confisca per
equivalente deve assolvere quanto meno a tale onere: l’assenza di tale
accertamento, per altro minimale, rende non possibile il sequestro finalizzato alla
confisca per equivalente e l’eventuale sequestro per equivalente illegittimo,
perché in violazione di quanto disposto dall’art. 12 bis del d. Igs. 74/2000.
L’interessato potrà ricorrere al riesame nel caso in cui il giudice non abbia
disposto il sequestro in forma specifica nei confronti della persona giuridica e
quando l’onere non sia stato assolto nella fase genetica.
Inoltre, nella fase genetica, a differenza di quella funzionale, l’assenza di
tale accertamento da parte del p.m. non rende sussistente a carico del soggetto
destinatario del provvedimento cautelare un onere di dimostrare l’esistenza del
presupposto per il sequestro diretto (così Cass. Sez. 3, n. 35330 del 2016 Rv.
267649, Nardelli, in motivazione).
3.4. Come già affermato da Cass. Sez. 3, n. 40362 del 2016, Rv. 268587,
D’Agostino, l’impossibilità di ricorrere al sequestro in forma specifica è funzionale
quando, esercitata l’azione cautelare, il pubblico ministero abbia chiesto al
giudice il sequestro in forma specifica nei confronti della persona giuridica e
quello per equivalente nei confronti della persona fisica indagata o imputata del
reato tributario e – disposta dal giudice tanto l’una, quanto l’altra forma di
sequestro – non sia stato rintracciato presso la persona giuridica, in tutto o in
parte, il profitto del reato o, comunque, risulta ex actis, sulla base di
accertamenti compiuti dopo l’esercizio dell’azione cautelare e prima
9

Il grado dell’accertamento è direttamente proporzionale ai presupposti della

dell’eventuale emissione del decreto di sequestro preventivo, che presso la
persona giuridica non sia rintracciabile il profitto del reato tributario commesso
nell’interesse dell’ente.
In tal caso è dunque possibile eseguire il sequestro finalizzato alla confisca
per equivalente disposto dal giudice per le indagini preliminari.
Se, nella fase funzionale, l’indagato vuole evitare il sequestro dei suoi beni
finalizzato alla confisca per equivalente ha un onere di allegazione ed è tenuto ad
indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della

In tal caso non è in discussione la legittimità del provvedimento genetico.
L’indagato deve assolvere l’onere chiedendo al pubblico ministero di
eseguire il sequestro in forma specifica, sempre che tale forma di sequestro sia
stata chiesta ed ottenuta dal pubblico ministero, il quale innescherà il
meccanismo ex art. 321, comma 3, ultima parte, cod. proc. pen. a seguito del
quale l’interessato avrà come rimedio, nei confronti dell’eventuale
provvedimento negativo del giudice, l’appello cautelare, con contestuale richiesta
di revoca del sequestro per equivalente.
Tale richiesta non può infatti essere rivolta al tribunale del riesame che non
ha poteri istruttori ed esecutivi.

4. Nel caso in esame, il p.m., procedendo nei confronti del ricorrente per il
delitto ex art. 10 ter del d. Igs. 74\2000, ha chiesto al giudice per le indagini
preliminari esclusivamente il sequestro per equivalente dei beni del legale
rappresentante della società per un valore pari all’entità dell’imposta evasa.
Il giudice per le indagini preliminari ha disposto il sequestro come richiesto
dal p.m.
Né nella richiesta del p.m. né nella motivazione del decreto del giudice per
le indagini preliminari vi è un riferimento, anche minimo, allo stato degli atti ed
all’impossibilità di procedere al sequestro preventivo finalizzato alla confisca
diretta del profitto.
Tali circostanze di fatto rendevano il provvedimento genetico illegittimo.
L’ordinanza impugnata ha erroneamente applicato l’art. 12 bis del d.lgs.
74/2000, in collegamento con l’art. 321 cod. proc. pen., perché il Tribunale del
riesame, a pagina 5 dell’ordinanza, ha superato la specifica questione sollevata
dalla difesa – sulla illegittimità del sequestro per il mancato assolvimento
dell’onere, esistente nella fase genetica, relativo all’impossibilità di eseguire il
sequestro finalizzato alla confisca diretta del profitto – con quanto avvenuto nella
fase esecutiva del sequestro, con il rinvenimento di conti correnti di capienza
limitatissima, e con le allegazioni difensive, invertendo così l’onere della prova.
10

società.

Manca del tutto la motivazione – ed il relativo controllo – su quanto accaduto
prima del decreto di sequestro preventivo, emesso solo ed esclusivamente per il
sequestro finalizzato alla confisca per equivalente: manca cioè la verifica della
legittimità genetica di tale tipo di sequestro, e dell’assolvimento dell’onere, prima
descritto, relativo alla impossibilità di procedere al sequestro finalizzato alla
confisca diretta del profitto.
Va dunque disposto l’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio
per un nuovo esame al Tribunale di Benevento che si atterrà ai principi di diritto

P.Q.M.

Annulla il provvedimento impugnato con rinvio per un nuovo esame al
Tribunale di Benevento.
Così deciso il 05/12/2017.

ora esposti.

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