Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 26762 del 17/03/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 26762 Anno 2015
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: DIOTALLEVI GIOVANNI

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Sciascia Filippo, nato a Gela il 21.03.1947;
avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Caltanissetta in data 06.05.2014 con la
quale veniva confermata la sentenza del Tribunale di Gela del 27.03.2013 che lo condannava
alla pena di anni otto di reclusione ed euro duemila di multa, per i reati a lui ascritti di cui agli
artt. 110 cod.pen. e 4 L.895/1967 al capo B) della rubrica, diversamente sussunto nelle
previsioni dell’art. 7 L.895/1967, nonché di quelli oggetto dei capi G) ex artt. 110, 629/2 con
rif. all’art.628 cpv. n.1 e n. 3 c.p., art.7 I. 203/91 ed O) ex art. 416 bis cod.pen., valutate a
carico le contestate aggravanti, escluse quelle di cui agli artt.112 n.1 e 61 n.7 del cod.pen.,
unificate le violazioni per la continuazione.
Udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Giovanni Diotallevi.
Sentite le conclusioni del P.G., in persona del Sostituto Procuratore Generale,

Data Udienza: 17/03/2015

che ha concluso per il rigetto del ricorso
Sentito l’avv.to Flavio Sinatra che ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata
RITENUTO IN FATTO

Sciascia Filippo, rappresentato dall’avvocato di fiducia Flavio Sinatra, ha proposto ricorso per
Cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Caltanissetta in data
06.05.2014 con la quale è stata confermata la sentenza del Tribunale di Gela del 27.03.2013
che lo ha condannato alla pena di anni otto di reclusione ed euro duemila di multa, per i reati a ……..
lui ascritti di cui agli artt. 110 c.p. e 4 L.895/1967 al capo B) della rubrica, diversamente
sussunto nelle previsioni dell’art. 7 L.895/1967, nonché di quelli oggetto dei capi G) ex artt.

110, 629/2 con rif. all’art.628 cpv. n.1 e n. 3 c.p., art.7 I. 203/91 ed O) ex art. 416 bis
cod.pen., valutate a carico le contestate aggravanti, escluse quelle di cui agli artt.112 n.1 e 61
n.7 del cod.pen., unificate le violazioni per la continuazione.
Chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato, deduce:
A) Ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., la violazione degli artt. 125, comma 3, 414,
649 e 129 c.p.p., nonché dell’art. 416-bis c.p.
Nello specifico, con riferimento al capo d’imputazione O), il ricorrente si duole del fatto che la
Corte territoriale avrebbe valutato in maniera superficiale il motivo di appello con cui chiedeva

tra il 1994 ed il 10 febbraio 1997, essendo intervenuto, proprio in data

10 febbraio 1997,

decreto di archiviazione per quegli stessi fatti e non essendo stato adottato un successivo
provvedimento di riapertura delle indagini, ex art. 414 c.p.p.
Il giudice dell’appello avrebbe omesso di rilevare i dubbi interpretativi, emergenti dalla più
recente giurisprudenza di legittimità, circa l’esatta portata dell’art. 414 cod. proc. pen. e, in
particolare, circa la possibilità di esercitare l’azione penale per gli stessi fatti, oggettivamente e
soggettivamente considerati, per i quali sia stata disposta l’archiviazione, da parte del
medesimo ufficio del pubblico ministero, in assenza di un formale provvedimento di riapertura
delle indagini.
In ogni caso il giudice del gravame avrebbe dovuto dichiarare il non luogo a procedere per i
fatti anteriori al 10 febbraio 1997, verificando poi se i fatti commessi successivamente a questa
data avessero una loro autonoma rilevanza penale. Si sottolinea altresì che i fatti da ultimo
indicati avrebbero potuto integrare singole fattispecie delittuose, ma non potevano venire in
considerazione come elementi dimostrativi del delitto di cui all’art. 416-bis.
B) Ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., la violazione degli artt. 125, comma 3, c.p.p. e
81 c.p.
Viene dedotto che la Corte d’appello, pur riconoscendo la continuità tra la condotta associativa
mafiosa da essa accertata e la condotta associativa mafiosa precedentemente fatta oggetto di
un giudizio di condanna divenuto irrevocabile, in capo al medesimo soggetto imputato, non ha
riconosciuto la sussistenza del vincolo della continuazione, senza spiegare le ragioni di questa
sua scelta.
C) Ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p., violazione di legge, in relazione agli artt. 125,
comma 3, e 192, comma 1, c.p.p., nonché con riferimento agli artt. 110 e 629 c.p.
Il ricorrente, riprendendo argomenti già esposti nell’atto di appello, si duole del travisamento
del materiale probatorio posto a fondamento della condanna per il delitto di estorsione, di cui
al capo d’imputazione G). In particolare, viene contestata l’affermazione, contenuta nella

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pronuncia di seconde grado, secondo la quale il condannato si sarebbe reso “attuatore” delle

decisioni estorsive assunte dal gruppo malavitoso nei confronti della società estorta, favorendo
la positiva conclusione delle trattative e rendendosi esattore dei vari ratei del “pizzo” imposto
alla società anzidetta.
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la declaratoria di non luogo a procedere, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., rispetto ai fatti compresi

E contrario, la parte ricorrente richiama, innanzitutto, la testimonianza resa in dibattimento da
Trubia Rosario, il quale aveva dichiarato che membri del gruppo malavitoso si rifornivano
gratuitamente di vestiti presso il negozio di Sciascia Filippo; queste dichiarazioni, sempre a
detta del ricorrente, lo avrebbero presentato come vittima piuttosto che come esecutore
dell’estorsione.
Si afferma inoltre che la Corte d’appello avrebbe valorizzato, a riscontro degli elementi
probatori forniti dalla deposizione del Trubia, le dichiarazioni di Smorta Crocifisso, sebbene lo
stesso Trubia fosse la fonte dalla quale lo Smorta aveva tratto la conoscenza dei fatti narrati.

dichiarazioni rese sempre dallo Smorta, nella quale si affermava che l’odierno ricorrente, in
una occasione, aveva versato il “pizzo”, comportamento questo incompatibile con la sua
presunta posizione di concorrente nell’estorsione.
In questo motivo di ricorso sono poi riportate una serie di dichiarazioni, di altri testi, che, ad
opinione del ricorrente, risulterebbero “dissonanti” con l’attribuzione a lui stesso di un ruolo
attivo nella vicenda estorsiva oggetto di scrutinio.
Nello specifico, si fa riferimento, in primis, alle affermazioni di due collaboranti, Gammino e
Terlati, che avevano rivendicato per loro un ruolo da protagonisti nella vicenda de qua, così
escludendo l’assunzione di un simile ruolo da parte di Sciascia Filippo.
Ci si sofferma quindi con particolare attenzione sulle dichiarazioni rese in giudizio da Billizzi
Massimo Carmelo, il quale avrebbe sostenuto che il gruppo mafioso intratteneva rapporti non
con Sciascia Filippo, bensì con il fratello di quest’ultimo, Sciascia Emanuele. In relazione a tali
prove orali si contesta l’assunto della Corte territoriale in base al quale l’indicazione di Sciascia
Emanuele, invece di Sciascia Filippo, sarebbe stato dovuto ad un mero “errore mnemonico”.
Errore mnemonico che, secondo l’impugnante, verrebbe smentito dalla nitidezza della memoria
del Billizzi, che aveva addirittura ricordato il nome del genero di Filippo Sciascia. Da ultimo, si
evidenzia che sempre il Billizzi aveva riportato alcune lamentele provenienti dalla famiglia
Sciascia, incompatibili con l’ impegno assunto da Sciascia Filippo per una “felice” conclusione
delle trattative, confermando altresì che gli estorsori si rifornivano, gratuitamente, nel negozio
dell’odierno ricorrente.
Infine, si contesta il significato attribuito dalla Corte d’appello alle deposizioni di testimoni
diversi dai collaboratori di giustizia, in particolare di Pausata Rocco, e si lamenta la mancata
valutazione di specifiche affermazioni dei collaboranti Billizzi e Terlati.
D) Ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., di una ulteriore violazione di legge, in relazione
all’applicazione dell’aggravante speciale di cui all’art. 7 del D.L. n. 152 del 1991, conv. con
nnod. nella L. n. 203 del 1991, alla estorsione contestata al capo G.
In particolare, si deduce che la Corte d’appello non avrebbe dato una risposta puntuale alla
richiesta, contenuta nell’atto di gravame, di svolgere una seria riflessione sull’effettiva
sussistenza di una sua “consapevole volontà” di agevolare le finalità dell’organizzazione
mafiosa e non di una volontà di limitare il danno economico subìto.
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Inoltre, si censura il fatto che il giudice di appello non avrebbe valorizzato una delle

E) Ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., violazione di legge in relazione agli
artt. 192, comma 1, e 125, comma 3, c.p.p., nonché in relazione all’art. 157 c.p.
In questo motivo vengono enunciati due differenti profili di censura, entrambi afferenti alla
condanna per il delitto di cui agli artt. 4 e 7 della L. n. 895 del 1967 (capo d’imputazione B).
In primo luogo, si sostiene che la condanna sarebbe stata fondata sulle dichiarazioni dei testi
Smorta e Trubia, nonostante esse fossero state ritenute meno credibili di quelle dei testi
Billizzi, Portelli, Vella, Gammino ed altri nel derubricare il delitto di cui al capo d’imputazione A)
da omicidio tentato a lesioni volontarie.

congetturale della ritenuta previsione, da parte dell’odierno ricorrente, dell’impiego delle armi
al fine di realizzare la voluta intimidazione nei confronti di Lisciandra Fabrizio.
Inoltre, viene invece rilevata l’intervenuta decorrenza del relativo termine prescrizionale e si
afferma che il giudice dell’appello non avrebbe indicato il calcolo in base al quale avrebbe
ritenuto non ancora decorso il detto termine.
F) Ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., violazione di legge in relazione all’art. 62-bis
c. p.
In particolare, viene contestata la motivazione con cui la Corte d’appello ha rifiutato di
concedere all’odierno ricorrente le attenuanti generiche.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
1.1. Per quanto attiene al primo motivo il Collegio osserva, preliminarmente, che l’art. 414,
comma 1, c.p.p. affida all’autorità giudiziaria il compito di autorizzare, con un proprio decreto
motivato, la riapertura delle indagini, a fronte della previa emissione di un provvedimento di
archiviazione. Alla predetta autorizzazione è subordinata non soltanto l’utilizzabilità degli atti di
indagine compiuti successivamente all’archiviazione, ma altresì la procedibilità dell’azione
penale eventualmente esercitata dal Pubblico Ministero, essendo quest’ultima espressione di
una scelta che la pubblica accusa può compiere soltanto all’esito di una data attività d’indagine
(sul punto, v. Cass. pen., Sez. un., 24 giugno 2010, dep. 20 settembre 2010, Giuliani e altro,
n. 33885, rv. 247834, che richiama un principio già espresso, limitatamente al tema
dell’applicazione di misure cautelari, da Cass. pen., Sez. un., 22 marzo 2000, dep. 10 giugno
2000, Finocchiaro, n. 9, rv. 216004; in senso analogo si veda anche Corte cost., sent. n. 27
del 1995).
Tuttavia, la descritta efficacia preclusiva del decreto di archiviazione non può però estendersi a
fatti oggettivamente diversi da quelli cui si riferisca il provvedimento stesso (Sentenza n.
11576 del 17/02/2006 – Rv. 233793; Sentenza n. 47389 del 07/11/2013 – Rv. 257467;
Sentenza n. 3156 del 05/08/1997 – Rv. 208863). Ciò significa che la previa autorizzazione del
G.i.p. alla riapertura delle indagini, di cui all’art. 414 c.p.p., si rende necessaria unicamente
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Dello stesso tenore appare la contestazione tesa a mettere in rilievo il carattere meramente

quando la nuova azione penale riguardi il medesimo fatto oggetto del procedimento archiviato;
tale autorizzazione non si rende, invece, necessaria qualora la notitia criminis riguardi fatti
diversi o un soggetto diverso (cfr., ex plurimis, Sentenza n. 4717 del 06/07/1999 – Rv.
214099, Sentenza n. 2948 del 02/05/1996 – Rv. 205136). Il medesimo discorso vale altresì
per i fatti, “collegati” a quelli per i quali sia stata disposta l’archiviazione, che risultino
comunque diversi o successivi rispetto a questi ultimi.
L’identità o la diversità dei fatti è data dalle condizioni di persone, di luogo e anche di tempo;
costituisce senza dubbio fatto diverso quello che, pur violando la stessa norma ed integrando

agente, diversa e distinta nello spazio e nel tempo (Sentenza n. 292 del 04/12/2013 – dep.
08/01/2014 – Rv. 257992; n. 26251 del 27/05/2010 -Rv. 247849; e conformi : Rv. 255078;
Rv. 261364).

1.2. Un discorso specifico deve essere fatto con riferimento ai reati permanenti, tra i quali
rientra anche il delitto di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, oggetto del capo di
condanna contestato con il motivo di ricorso in esame. A tal riguardo, giova qui richiamare il
principio di diritto formulato da Cass., Sez. VI, 10 ottobre 2011, dep. 17 febbraio 2012,
Panzeca e altri, n. 6547, rv. 252113, stante la stretta analogia tra il caso ivi deciso e la
fattispecie oggetto del presente giudizio; anche nel precedente richiamato si poneva, infatti, il
problema di verificare l’esatta estensione dell’efficacia preclusiva del provvedimento con cui
era stata disposta l’archiviazione della contestazione di associazione mafiosa, temporalmente
delimitata sino ad una certa data, a fronte dell’esercizio di una nuova azione penale per il
medesimo reato, ma in relazione ad un orizzonte temporale più vasto.
In quella occasione, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che il fatto integrativo del
delitto associativo di stampo mafioso può essere scisso in vari “segmenti temporali”; di
conseguenza, l’archiviazione pronunciata rispetto ad un determinato “segmento”, cui non si
accompagni il decreto autorizzativo di cui al precitato art. 414, comma 1, c.p.p., non preclude
lo svolgimento di nuove indagini e, quindi, l’esercizio dell’azione penale in relazione a fatti e
comportamenti atti a dimostrare la consumazione dell’illecito de quo limitatamente a “segmenti
temporali” successivi alla detta archiviazione (nello stesso senso si era già espressa Cass. pen.,
Sez. V, 18 gennaio 2005, dep. 6 maggio 2005, Sorce, n. 17380, rv. 231780).
La sussistenza dei fatti da ultimo indicati, che configurano, stante la diversità del “segmento
temporale” preso in considerazione, una diversa notitia criminis, consente di valutare anche
quelle porzioni delle condotte integrative sviluppatesi nel periodo cui si riferisca il precedente
provvedimento di archiviazione, le quali vengono, per così dire, “attratte” dal “segmento”
successivo del fatto associativo, in quanto mirano alla dimostrazione di esso e non di quel
segmento per il quale sia intervenuta l’archiviazione medesima.
Indicazioni identiche a quelle appena illustrate si ricavano poi da alcune pronunce successive,
relative a reati permanenti ulteriori rispetto a quello di cui all’art. 416-bis c.p.; in particolare,
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gli estremi del medesimo reato, sia un’ulteriore estrinsecazione dell’attività del soggetto

questa Sezione ha statuito, in materia di lottizzazione abusiva, che il decreto di archiviazione
relativo ad indagini concernenti fatti od elementi temporalmente definiti non impone di
richiedere il decreto di riapertura delle indagini se queste riguardano fatti o elementi diversi o
successivi, ancorché essi siano collegati a quelli oggetto delle indagini archiviate (v. Cass. pen.,
Sez. II, 10 ottobre 2013, dep. 23 gennaio 2014, Rostan, n. 3255, rv. 258528).
1.1.3. Sui principi di diritto ora enunciati, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, non
è possibile ravvisare alcun effettivo contrasto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità.
Tali principi non sono certo messi in discussione, innanzitutto, dalla pronuncia delle Sezioni

unicamente l’esatta individuazione degli effetti preclusivi scaturenti da un provvedimento di
archiviazione, alla stregua del nuovo codice di rito del 1988, ma non si occupava
dell’estensione, sul piano oggettivo e temporale, di simili effetti; peraltro, il precedente in
discorso, al pari della sent. n. 27 del 1995 della Corte costituzionale, riferisce pur sempre la
preclusione anzidetta esclusivamente ai fatti coperti dalla decisione di archiviazione. A ciò
occorre aggiungere, da ultimo, che, come rilevato anche nella sent. n. 6547 del 2011, cit., le
Sezioni unite non si sono occupate della specifica questione interpretativa posta dai reati
permanenti.
Inidoneo a far emergere il su ipotizzato contrasto giurisprudenziale appare altresì l’ulteriore
precedente di legittimità citato dall’odierno impugnante, ossia Cass. pen., Sez. III, 23 aprile
2009, dep. 18 giugno 2009, Baldassarri e altro, n. 25503, rv. 244123. E’ senz’altro vero che,
in quella occasione, il Collegio giudicante ha annullato un sequestro disposto per fatti,
integranti un abuso edilizio, successivi che si ponevano in rapporto di permanenza rispetto ai
fatti oggetto di un previo provvedimento di archiviazione; tuttavia, è altrettanto vero che
l’annullamento di cui si sta parlando è dipeso non dalla formulazione di una massima di
giudizio antitetica a quelle precedentemente riportate, bensì dall’assenza di una chiara
distinzione tra fatti anteriori, coperti dall’archiviazione, e fatti susseguenti per i quali poteva
invece procedersi a nuove indagini (nel medesimo senso deve leggersi altresì Cass. pen., Sez.
III, 27 febbraio 2013, dep. 31 maggio 2013, Russo e altro, n. 23646, rv. 256163, che al
precedente qui esaminato si richiama). A riprova di ciò basti considerare che, nel corpo della
motivazione, la sentenza che si sta analizzando riporta la massima di cui alla succitata sent. n.
17380 del 2005, che ha anticipato quanto più compiutamente enunciato nella prefata sent. n.
6547 del 2011.
1.1.4. Orbene, alla luce di quanto si è venuto sin qui argomentando, non può dubitarsi della
correttezza, sul punto in esame, della decisione in questa sede censurata.
In primo luogo, va rimarcato che già la sentenza di primo grado aveva delimitato, sotto il
profilo temporale, l’originaria contestazione, circoscrivendo l’accertamento di penale
responsabilità, in ordine al delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, al periodo
compreso tra il 2 febbraio 1997 ed il luglio 2000 (v. soprattutto le pagg. 53 e 56 della
pronuncia di prime cure), come tale successivo al periodo coperto dal precedente decreto di
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unite, sopra richiamata, n. 33885 del 2010. Essa, come si è già accennato, riguardava

archiviazione (fino al 10 febbraio 1997), emesso con riferimento al medesimo reato; l’indicata
delimitazione è stata poi confermata nel giudizio di appello.
A ciò deve aggiungersi che la Corte distrettuale ha chiarito che l’accertamento de quo è stato
fondato su fatti diversi da quelli valutati dal precedente provvedimento di archiviazione,
seppure tesi a dimostrare il coinvolgimento in vicende di mafia. Ad ogni modo, è stato poi
espressamente evidenziato che il capo della sentenza contenente la condanna per il delitto
associativo in parola trovava sufficiente sostegno in fatti certamente non coperti dalla
preclusione legata alla ricordata previa archiviazione, in quanto successivi al

10 febbraio 1997,

alcune condotte inerenti all’estorsione in danno della società Gela Gas (su cui si avrà modo di
tornare in seguito) ed il procacciamento dei voti della cosca degli Ernmanuello in favore di
Alabiso Roberto, in occasione delle elezioni amministrative del 1998.
Fatti questi che, diversamente rispetto a quanto sostenuto dal ricorrente, sono pienamente
dimostrativi dell’intraneità dello stesso ricorrente al sodalizio criminoso di stampo mafioso,
come attestato dalla motivazione svolta nelle pagg. 21 e ss. della sentenza d’appello, integrate
dalle pagg. 53 e ss. della decisione di primo grado; d’altronde, l’impugnante non fornisce
elementi specifici atti ad inficiare la logicità e l’adeguatezza dei passaggi motivazionali pocanzi
richiamati. A nulla potrebbe poi rilevare la circostanza che “porzioni” di questi fatti siano venuti
ad esistenza nel periodo “coperto” dal provvedimento di archiviazione, dal momento che essi,
come si è visto, verrebbero ad essere attratti dal “segmento temporale” successivo della
ritenuta condotta associativa mafiosa.
1.3. Il secondo motivo di ricorso appare invece inammissibile.
Con esso il ricorrente introduce nel presente giudizio di legittimità una questione non
previamente dedotta in sede d’appello che, in quanto tale, non può essere esaminata nel
merito da questo Collegio, ai sensi dell’art. 606, comma 3, c.p.p., non rientrando tra le
questioni rilevabili d’ufficio di cui all’art. 609, comma 2, c.p.p. (v. Cass. pen., Sez. V, 23 aprile
2013, dep. 2 luglio 2013, Grazioli Gauthier, n. 28514, rv. 255577 e Cass. pen., Sez. II, 19
aprile 2013, dep. 24 maggio 2013, Di Domenica, n. 22362, rv. 255940).
Nello specifico, il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento, da parte del giudice
dell’appello, del vincolo della continuazione,

ex art. 81 c.p., tra la condotta associativa di

stampo mafioso accertata dalla sentenza qui scrutinata e l’analoga condotta associativa,
riferita al periodo compreso tra l’agosto del 2000 ed il luglio del 2004, oggetto di una
precedente condanna medio tempore divenuta irrevocabile, riportando alcuni passaggi dell’atto
di gravame con i quali la relativa questione sarebbe stata sollevata dinanzi alla Corte
territoriale. In realtà, a ben vedere, i passaggi citati non delineano il thema decidendum sul
quale il giudice a quo avrebbe asseritamente omesso di pronunciarsi.
Il riferimento alla necessità di valutare le due condotte associative «… in un’ottica unitaria,
essendo avvinte dal medesimo disegno criminoso…», contenuto a pag. 5 dell’atto di appello,
non era volto a domandare il riconoscimento della continuazione tra le condotte stesse, ma si
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quali l’atto intimidatorio posto in essere nei confronti del Lisciandra e la relativa preparazione,

poneva nell’ambito delle censure con cui si contestava l’assenza di elementi di prova specifici
relativi al “segmento temporale” della condotta associativa sanzionata dalla pronuncia di prime
cure; tutto ciò è reso palese dalla prosecuzione della frase pocanzi riprodotta, nella quale si
sosteneva che il giudice di primo grado avrebbe dovuto indicare «… la pertinenza di ogni
singola fonte di prova rispetto al tempo del commesso reato…» (v. pag. 6 dei motivi di
gravame).
Non depone in senso diverso neppure la frase riportata a pag. 11 dell’atto di appello, tra le
conclusioni, dove, subito dopo la domanda volta ad ottenere il riconoscimento della attenuanti

di un preciso e testuale riferimento al rapporto di continuazione con la condotta associativa
oggetto della precedente condanna passata in giudicato e, soprattutto, in assenza di uno
specifico argomento, nella parte motiva dell’atto, volto a far valere tale rapporto, la ricordata
menzione generica della categoria giuridica della continuazione non può che ritenersi riferita ai
rapporti tra il reato associativo accertato nel giudizio in esame e gli altri delitti (estorsione,
porto di armi, ecc.) che venivano in considerazione nell’ambito del medesimo procedimento.
Infine, va rimarcato che la questione dedotta dall’odierno impugnante è inidonea ad essere
rilevata d’ufficio da questa Suprema Corte, presupponendo comunque un accertamento di
ordine fattuale, relativo alla medesimezza del disegno criminoso, che non può farsi discendere,
sic et simpliciter,

dall’inserimento delle condotte associative nel medesimo contesto di

criminalità organizzata (cfr. la sent. n. 28514 del 2013, prima citata).
1.4. Per quanto concerne il terzo motivo di ricorso, se ne deve rilevare l’infondatezza.
1.4.1. Questa Collegio reputa opportuno puntualizzare, in via preliminare, che la deducibilità,
ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., di vizi della motivazione dinanzi al giudice della
legittimità non può portare ad una diversa valutazione, da parte di quest’ultimo, degli elementi
di prova raccolti nel corso dell’istruttoria dibattimentale. In altri termini, di fronte ad una
motivazione esaustiva, immune da vizi di logicità e coerente con i principi di diritto che la
decisione si trova a dover applicare, ogni contestazione relativa alla motivazione si traduce, in
verità, nella riproposizione di questioni di fatto su cui questa Suprema Corte non è legittimata
a pronunciarsi (Cass. sez. 4, 2.12.2003, Elia ed altri, 229369; SU n° 12/2000, Jakani, rv.
216260).
Infatti, essendo investita del c.d. controllo di legittimità, questa Corte non ha il potere di
stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore ricostruzione possibile
dei fatti né deve condividerne la motivazione, ma deve limitarsi unicamente a verificare che
questo percorso logico-argomentativo sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una
plausibile opinabilità di apprezzamento, secondo una formula giurisprudenziale ormai
ricorrente (Cass. sent. n. 47891 del 28.09.2004 – rv 230568).
1.4.2. All’interno del genus del “vizio motivazionale” rientra altresì il c.d. “travisamento della
prova”, consistente in un errore percettivo che porti a ritenere esistente un dato fattuale in
realtà non acquisito al processo ovvero a pretermettere un’informazione viceversa acquisita; il
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generiche, si chiedeva di dichiarare la continuazione, senza ulteriori specificazioni. In assenza

suddetto “travisamento” può però giustificare l’annullamento della decisione impugnata
soltanto laddove risulti tale da disarticolarne l’intero ragionamento probatorio, rendendo del
tutto priva di fondamento logico-razionale la relativa motivazione (si vedano, ex permultis,
Cass. pen., Sez. VI, 16 gennaio 2014, dep. 3 febbraio 2014, Del Gaudio e altri, n. 5146, rv.
258774 e Cass. pen., Sez. II, 3 ottobre 2013, dep. 26 novembre 2013, Giugliano, n. 47035,
rv. 257499).
Non è invece deducibile, in sede di legittimità, il c.d. vizio di “travisamento del fatto”,
espressione mediante la quale si suole indicare la doglianza con cui si contesti la non

sentenza censurata (si veda, in particolare, Cass. pen., Sez. VI, 14 febbraio 2012, dep. 26
giugno 2012, Minervini, n. 25255, rv. 253099); una simile preclusione discende dall’ovvia
constatazione che un sindacato così esteso porterebbe questa Corte ad esprimere una propria
valutazione sui fatti di causa, con ciò “scivolando” inevitabilmente in un giudizio di merito, che,
come tale, esula dalla sua “sfera di competenza”.
Da ultimo, va richiamata l’ulteriore massima giurisprudenziale che preclude la contestazione
del suesposto vizio di “travisamento della prova” in presenza di una “doppia conforme”, vale a
dire a fronte di due pronunce di merito che abbiano avuto il medesimo esito decisorio, tanto in
senso assolutorio quanto in senso condannatorio; siffatta preclusione non opera unicamente
qualora il giudice dell’appello, nel rispondere alle critiche espresse dai motivi di gravame, abbia
risposto con argomenti tratti da elementi di prova non assunti o, comunque, non
specificamente valutati dal giudice di prime cure (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 12 dicembre 2013,
dep. 29 gennaio 2014, Capuzzi e altro, n. 4060, rv. 258438 e Cass. pen., Sez. IV, 13
novembre 2013, dep. 4 febbraio 2014, Nicoli, n. 5615, rv. 258432).
1.4.3. Ciò posto, il motivo in esame contesta una serie di “travisamenti” di prove dichiarative
asseritamente incidenti sull’accertamento della partecipazione dell’odierno imputato al delitto
di estorsione nei confronti della Gela Gas, di cui al capo d’imputazione G.
A questo riguardo, occorre anzitutto osservare che il complesso probatorio in questione è stato
sottoposto ad un duplice vaglio di merito che ha portato al medesimo esito decisorio, così
determinando il formarsi di una “doppia conforme in facto”; tale osservazione, alla luce di
quanto si è avuto modo di precisare supra, sarebbe di per sé sufficiente a fondare il rigetto
della doglianza in esame.
1.4.4. Ad ogni modo, anche se sottoposte ad uno scrutinio nel merito, le contestazioni mosse
dalla parte ricorrente relativamente all’interpretazione delle suddette fonti dichiarative non
appaiono in grado di palesare alcun “travisamento” del materiale di prova in atti, nel senso che
si è in precedenza illustrato.
Partendo dalle dichiarazioni rese, in dibattimento, dal collaborante Trubia Rosario, il semplice
riferimento al fatto che membri del clan si rifornissero gratuitamente di vestiti presso il negozio
dell’odierno impugnante non vale di per sé a qualificare il medesimo soggetto come vittima,
piuttosto che come artefice, dell’estorsione de qua. Leggendo l’intero verbale di deposizione si
9

condivisibilità dell’interpretazione e della valutazione del materiale probatorio offerte dalla

scopre, come giustamente riportato dalla Corte d’appello (v. pag. 28 della sentenza
impugnata), che, secondo il narrato del Trubia, lo Sciascia fungeva da collettore delle somme
di denaro ricavate dall’attività estorsiva in danno della

Gela Gas e che lo stesso Sciascia

tratteneva per sé una parte delle somme in questione proprio per pagare i capi di vestiario
prelevati dal suo esercizio commerciale. Sulla scorta di questi dati, non appare affatto illogica o
irrazionale la conclusione raggiunta dai giudici di merito, i quali hanno ritenuto che lo Sciascia
fosse tra i soggetti attivi dell’estorsione.
Non appare condivisibile neppure l’argomento, anch’esso formulato dal ricorrente, in base al

sussistenza di uno degli elementi costitutivi del delitto di estorsione, quale l’ingiusto profitto.
Innanzitutto, va rilevato che lo Sciascia Filippo è stato condannato per aver concorso
nell’estorsione posta in essere da alcuni membri della cosca mafiosa degli Emmanuello. Ora, ai
sensi dell’art. 110 c.p., affinché la fattispecie concorsuale risulti integrata non è necessario che
tutti gli elementi descrittivi del fatto tipico siano imputabili al singolo concorrente; ciò che
conta è che quest’ultimo abbia comunque prestato il proprio contributo causalmente rilevante
al realizzarsi di un fatto che, nel suo complesso, presenti tutti gli elementi tipici descritti dalla
relativa norma incriminatrice. Nel caso di specie, il contributo dello Sciascia emerge
chiaramente dalle propalazioni del Trubia, il quale ha sottolineato non soltanto che questi
svolgeva il ruolo di collettore del “pizzo” imposto alla società estorta, ma altresì che era stato
proprio lui a suggerire al gruppo criminale di rivolgersi alla medesima società. In questo
quadro, non assume una rilevanza decisiva il fatto che il profitto ottenuto dall’attività estorsiva
fosse o meno incamerato, quantomeno in parte, dallo stesso Sciascia.
A ciò deve comunque aggiungersi che la sentenza d’appello, a pag. 34, spiega che il profitto
dell’imputato era legato proprio alla possibilità di trattenere somme corrispondenti all’importo
della merce prelevata dagli altri affiliati, di cui si è parlato prima.
Venendo quindi a parlare della valenza dimostrativa della deposizione di Smorta Crocifisso, le
cui dichiarazioni rappresentano uno dei riscontri della “chiamata di correo” del Trubia, non può
condividersi la posizione del ricorrente secondo cui lo Smorta si sarebbe in realtà limitato a
riportare quanto riferitogli dallo stesso Trubia. Infatti, il dichiarante in parola ha senz’altro
esposto quantomeno un accadimento che lo aveva visto personalmente protagonista, ossia la
consegna, nei suoi confronti e proprio da parte dello Sciascia, di un rateo mensile del “pizzo”
pagato dalla Gela Gas, pari a 500.000 Lire.
Né questa “consegna” sarebbe incompatibile con il ruolo di partecipe all’estorsione riferito al
ricorrente, visto che questi, nella sua posizione di collettore, così come ricostruita dai giudici di
merito, era tenuto a trasmettere i ratei mensili del “pizzo”, o almeno parte degli stessi, alle
figure apicali del clan, tra cui rientrava anche lo Smorta.
Va poi esclusa la contraddittorietà della motivazione della Corte territoriale rispetto alle
deposizioni rese dai testi Gammino e Terlati; in particolare, non vi è alcuna sovrapposizione tra
il ruolo riconosciuto allo Sciascia, che, come si è detto, agiva in veste di collettore del denaro
10

quale i dati anzidetti varrebbero comunque ad escludere, in capo al medesimo ricorrente, la

estorto, ed il ruolo ricoperto dai soggetti da ultimo nominati, che hanno ammesso unicamente
di essersi occupati di riscuotere materialmente dalla Gela Gas i vari ratei mensili del “pizzo”.
Passando dunque a valutare le contestazioni inerenti alla deposizione di Billizzi Massimo
Carmelo, si ritiene di dover affermare che l’errore percettivo eventualmente commesso dalla
Corte distrettuale nel liquidare come “errore mnemonico” il riferimento, da parte di
quest’ultimo, allo Sciascia Emanuele piuttosto che allo Sciascia Filippo, unico condannato della
famiglia Sciascia per l’estorsione de qua, nonché attuale ricorrente, risulterebbe comunque
privo della necessaria decisività, non essendo idoneo, di per sé, a “scardinare” l’intero

sulle dichiarazioni dei testi Trubia e Smorta e sugli ulteriori elementi di riscontro indicati dalle
l
J

)
I

decisioni di merito. D’altro canto, l’ipotetico coinvolgimento di Sciascia Emanuele nella vicenda
estorsiva non vale, da solo, ad escludere la responsabilità del fratello Sciascia Filippo, al quale,
come si è visto, è stato ascritto un ruolo partecipativo ben preciso, consistito nell’aver
suggerito di porre in essere l’estorsione nei confronti della Gela Gas e nell’essersi posto come
“collettore” delle somme riscosse.
Per ciò che concerne poi la “lamentela” riferita al coinvolgimento della Gela Gas nell’attività
estorsiva del gruppo malavitoso, fatto riportato sempre dal Billizzi, essendo la stessa riferibile a
Sciascia Emanuele e non a Sciascia Filippo non può certo valere a negare il coinvolgimento di
quest’ultimo.
Da ultimo, riguardo alli “usanza”, da parte degli altri affiliati, di prelevare indumenti dal
negozio dell’odierno ricorrente, riferita anche dal Billizzi, si rimanda a quanto si è già
argomentato supra. A ciò è sufficiente aggiungere che la tesi secondo cui tale fatto lascerebbe
inferire che Sciascia fosse da tempo vittima di estorsioni da parte della cosca degli
Emmanuello, oltre a proporre una rivalutazione del materiale probatorio, come tale preclusa a
questa Suprema Corte, è smentita dallo stesso dichiarante che, a pag. 43 del verbale di
deposizione, allegato al ricorso, ha precisato che la suesposta “prassi” derivava da un
precedente prestito del clan di cui Sciascia Filippo aveva beneficiato.
Quanto poi agli altri testimoni (Cunsolo Roberto, Spina Gianfilippo e Alabiso Caterina), la
censura che fa leva sulle loro propalazioni è del tutto irrilevante, dal momento che la Corte

ragionamento offerto, in punto di prova, dal giudice di seconde cure, ragionamento fondato

d’appello, come emerge chiaramente dalla lettura di pag. 29 della relativa pronuncia, ha
fondato il proprio giudizio di colpevolezza, per il reato di cui al capo d’imputazione G, sugli
apporti dichiarativi dei collaboranti di giustizia e, in particolare, di Trubia e Smorta, senza
minimamente prendere in considerazione i testi da ultimo introdotti.
Un discorso a parte merita invece la deposizione di un altro testimone, Pausata Rocco,
espressamente considerata dal giudice del gravame a pag. 30 della propria sentenza. Anche in
)
questo caso, non emerge alcun “travisamento della prova”, avendo l’autorità giudicante
riportato in maniera pedissequa il contenuto della relativa deposizione. Né, d’altra parte, la
medesima deposizione lascia trasparire elementi di prova idonei ad escludere la responsabilità
dello Sciascia; il riferimento ad altri soggetti come materiali riscossori dei ratei del “pizzo” non
11

incrina la ricostruzione dei giudici di merito che, come si è più volte sottolineato, ha attribuito
all’odierno impugnante un diverso ruolo nell’ambito della vicenda estorsiva.
Infine, le dichiarazioni del Billizzi e del Terlati sbrigativamente richiamate dal ricorrente nella
parte conclusiva del motivo di ricorso qui trattato nulla aggiungono alle censure che si sono
venute sinora confutando.
1.5. Il quarto motivo di ricorso appare inammissibile.
La “consapevole volontà” dell’odierno ricorrente di agevolare, con la sua condotta, la cosca
mafiosa degli Emmanuello emerge in maniera indubitabile dalla ricostruzione operata dal

all’estorsione di cui al capo d’imputazione G, dell’aggravante speciale di cui all’art. 7 del D.L. n.
152 del 1991.
E’ qui sufficiente richiamare i passaggi motivazionali contenuti nelle pagg. 27 e 33 della
sentenza impugnata, in cui si afferma, sulla base delle concordi dichiarazioni dei collaboratori
di giustizia Smorta e Trubia, che era stato lo stesso Sciascia ad indicare la

Gela Gas come

possibile obiettivo di un’attività di tipo estorsivo da parte del clan; sul punto sollevato dal
ricorrente non può, pertanto, ravvisarsi alcuna carenza motivazionale.
A fronte della richiamata motivazione, il ricorrente si è limitato a riprodurre, pressoché
testualmente, quanto aveva già dedotto a pag. 9 dei motivi di appello, senza rivolgere critiche
specifiche alla motivazione stessa. Ciò significa che il motivo esaminato, oltre ad essere, alla
luce di quanto si è pocanzi rappresentato, manifestamente infondato, è stato altresì proposto
in violazione dell’art. 591, comma 1, lett. c), c.p.p. e risulta perciò generico. Del resto, questa
Corte ha a più riprese avuto modo di statuire che il ricorso per cassazione non può astenersi
dall’indicare la correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste
a fondamento dell’atto di impugnazione, senza con ciò cadere nel vizio di aspecificità (si veda,
ex permultis, Sez. I, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).
1.6. Con riferimento al quinto motivo di ricorso, esso risulta in parte inammissibile ed in parte
infondato.
1.6.1. Esso è senz’altro inammissibile nella parte in cui sostiene che la Corte distrettuale, al
fine di valutare la responsabilità dell’odierno impugnante, a titolo di concorso, per il porto in
luogo pubblico dell’arma impiegata da altri affiliati nell’intimidazione posta in essere ai danni di
Lisciandra Fabrizio, non avrebbe dovuto fare affidamento, così come ha fatto, sulle deposizioni
dei collaboratori di giustizia Trubia e Smorta, dal momento che il giudice di primo grado aveva
asseritamente attribuito una maggiore valenza dimostrativa alle dichiarazioni di altri testimoni,
sulla base delle quali aveva proceduto a derubricare il reato di cui al capo A, alla cui
commissione il porto dell’arma in questione era risultato funzionale, da tentato omicidio a
lesioni personali.
In realtà, basta leggere pag. 45 della decisione di prime cure per rendersi conto, ictu ocu/i, di
come il Tribunale non abbia stabilito alcuna graduazione tra le propalazioni dei collaboratori
prima menzionati e quelle degli altri testimoni e di come, viceversa, la richiamata
12

giudice a quo, ragion per cui non possono esservi dubbi sull’applicabilità, con riferimento

derubricazione sia stata fondata, pariteticamente, sul contenuto degli apporti dichiarativi di
tutti questi soggetti. A ciò deve poi aggiungersi che, estendendo l’esame a pag. 47 della
medesima pronuncia, appare evidente che anche il giudice di prime cure ha giustificato la
declaratoria di responsabilità dello Sciascia Filippo in ordine al succitato delitto legato alle armi
sulla scorta, inter alla, delle dichiarazioni del Trubia e dello Smorta.
Pertanto, non può negarsi l’assoluta continuità tra le due pronunce di merito che, sul punto
oggetto di esame, formano una “doppia conforme”; la censura del ricorrente si palesa quindi
come manifestamente infondata.

armi per realizzare la suindicata intimidazione costituirebbe una mera congettura. In verità,
tale rilievo è sostenuto da un ragionamento perfettamente logico, che fa leva sulla notorietà,
specie nell’area di Gela, dei metodi impiegati dal gruppo criminale degli Emmanuello, che
spesso faceva ricorso alle armi per condurre le proprie intimidazioni, ragionamento suffragato
inoltre dalle prove di cui si dà conto a pag. 36 della sentenza di seconde cure.
1.6.3. Infondata è invece l’eccezione di prescrizione del reato.
A questo proposito deve anzitutto rilevarsi che il reato di porto d’armi in esame è stato
commesso anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 (2 settembre 1998),
mentre la sentenza di primo grado è stata pronunciata successivamente a tale “spartiacque”,
vale a dire il 27 marzo 2013. In ogni caso, si avrà modo di dimostrare che, indipendentemente
dall’applicazione del vecchio o del nuovo regime in materia di prescrizione, l’illecito anzidetto
non può ancora dirsi prescritto.
In primo luogo, occorre evidenziare che l’originaria contestazione veniva mossa ai sensi
dell’art. 4 della L. n. 895 del 1967, che descrive il fatto tipico del porto d’armi. Il Tribunale,
seguito in ciò dalla Corte d’appello, ha quindi qualificato l’arma in questione come comune,
conseguentemente riconducendo la fattispecie concreta nell’alveo dell’art. 7 della medesima
legge, che prevede la diminuzione obbligatoria di un terzo della pena edittale (da due a dieci
anni di reclusione) prevista dal precitato art. 4, preso nel testo ratione temporis vigente, per le
armi da guerra.
Secondo un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il
summenzionato art. 7 non introduce una circostanza attenuante, bensì individua una
fattispecie autonoma di reato, la cui pena viene determinata per relationem, attraverso il rinvio
alle disposizioni precedenti, tra cui rientra anche l’art. 4 (v. Cass. pen., Sez. I, 21 ottobre
2010, dep. 3 novembre 2010, Romeo, n. 38626, rv. 248664 e Cass. pen., Sez. I, 12 gennaio
2001, dep. 2 aprile 2001, Drisaldi e altro, n. 12919, rv. 218345). Pertanto, ai fini del calcolo
del termine prescrizionale, bisogna guardare al massimo edittale di pena che si determina
applicando la riduzione di un terzo alla pena massima di cui al succitato art. 4 (dieci anni);
massimo edittale che risulta quindi pari a sei anni e otto mesi.
Se si applica il regime introdotto dalla “ex Cirielli”, al massimo edittale così calcolato deve
aggiungersi, ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p., l’aumento massimo di pena stabilito per la
13

1.6.2. Inammissibile è anche la doglianza con cui si afferma che la “previsione” dell’uso delle

circostanza aggravante ad effetto speciale, contestata in sede di rinvio a giudizio e riconosciuta
nei gradi di merito, di cui all’art. 7 del D.L. n. 152 del 1991, pari alla metà della pena stessa;
dai sei anni e otto mesi di base si arriva così a dieci anni.
Il tempo necessario a prescrivere così computato deve poi essere raddoppiato, a norma
dell’art. 157, comma 6, c.p., dal momento che il riconoscimento dell’aggravante da ultimo
indicata fa sì che il reato in questione rientri tra quelli elencati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.
e, più precisamente, tra quelli commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.
Si arriva così ad un termine di venti anni che, a prescindere dall’interruzione legata

far risalire il relativo dies a quo, come detto, al 2 settembre 1998.
Qualora si applichi il “vecchio regime”, al massimo edittale base (sei anni e otto mesi) deve
comunque applicarsi l’aumento massimo previsto dal su ricordato art. 7 del D.L. n. 152 del
1991, ai sensi del vecchio testo dell’art. 157, comma 2, c.p. arrivandosi così di nuovo a dieci
anni; alla pena massima così corretta corrisponde perciò, a norma del vecchio testo del comma
1 dell’art. 157, un termine prescrizionale di quindici anni.
Calcolando l’aumento, pari alla metà, conseguente all’interruzione discendente dalla pronuncia
della decisione di prime cure (si veda il vecchio testo dell’art. 161, ult. co ., c.p.), si arriva così
a ventidue anni e sei mesi, termine che, di nuovo, non può di certo dirsi trascorso.
1.7. Da ultimo, va rilevata l’inammissibilità del sesto motivo di ricorso.
Contrariamente a quanto dedotto in questa sede dal ricorrente, il giudice dell’appello non ha
negato la concessione delle attenuanti generiche a fronte del solo contegno processuale
dell’imputato «… mirato al mendacio…»; al contrario, la Corte distrettuale ha sviluppato, a pag.
38 della pronuncia impugnata, una motivazione che appare assorbente rispetto al tema qui
trattato, rilevando come tutte le circostanze addotte dalla difesa, ivi compreso il contegno
tenuto in sede processuale dall’imputato, fossero “surclassate” dalla gravità dei fatti contestati,
che hanno denotato l’inserimento dello Sciascia in uno dei più sanguinari gruppi della mafia
siciliana, e dai precedenti, anch’essi di mafia, del prevenuto.
A questa decisiva ed autosufficiente argomentazione la parte impugnante non ha opposto
alcuna censura specifica, venendo così meno all’onere, su di essa gravante, di contestare, in
maniera non generica, le ragioni poste a fondamento della decisione (cfr., di nuovo, la sent. n.
39598 del 2004 di questa Suprema Corte, citata supra).
2. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

,

Così Itis

Roma, il 17 marzo 2015.

all’emissione della sentenza di primo grado, non risulta ancora interamente decorso, dovendosi

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