Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 2674 del 17/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 2674 Anno 2014
Presidente: CASUCCI GIULIANO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
su ricorso proposto da:
1. ALABISO SALVATORE nato il 25/08/1958;
2. ANTONA SALVATORE nato il 26/01/1978;
3.

DAINOTTO BERNARDO nato il 02/06/1978;

4.

DI FALCO FRANCO nato il 29/04/1964;

5. GRECO ANGELO nato il 10/01/1987;
6.

GRECO ANTONINO nato il 28/04/1970;

7.

GRECO DOMENICO nato il 04/04/1959;

8.

MAROTTA GIUSEPPE nato il 14/05/1978;

9. TERMINE SALVATORE nato il 16/07/1977;
avverso la sentenza del 01/06/2012 della Corte di Appello di Palermo;
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino Rago;
udito il Procuratore Generale in persona della dott.ssa Maria Giuseppina
Fodaroni che ha concluso per il rigetto dei ricorsi Alabiso, Dainotto e Di
Falco; per l’inammissibilità dei restanti ricorsi;
uditi i difensori avv.to Giuseppe Glicerio (per Greco Angelo, Greco
Antonino, Greco Domenico, Antona Salvatore) anche in sostituzione

Data Udienza: 17/12/2013

dell’avv.to Meli (per Alabiso e Di Falco), avv.to Luigi Giuliano (per
Marotta), avv.to Raffaella Monaldi (per Termine e Dainotto) che hanno
concluso per l’accoglimento dei ricorsi;
FATTO

confermava la sentenza pronunciata in data 03/11/2010 dal Tribunale di
Agrigento nella parte in cui aveva ritenuto:

Greco Antonino – con il ruolo di capo e promotore – Greco Angelo
classe 1987, Greco Domenico e Marotta Giuseppe colpevoli di
avere partecipato ad un’associazione a delinquere finalizzata alla
commissione di reati di usura ed estorsione in danno di diversi
soggetti, dall’anno 2004 fino alla richiesta di rinvio a giudizio;

Greco Antonino e Marotta Giuseppe colpevoli, in concorso tra
loro, di diversi episodi di usura e di estorsione in danno delle
vittime di usura, meglio precisati in rubrica ai capi D4 (usura
Iacopinelli ), L2 e L3 (usura e tentata estorsione Gatì) e P1
(usura Collura) e di detenzione illecita di sostanza stupefacente,
riconosciuta l’ipotesi di lieve entità (capo S2); Greco Domenico
colpevole, in concorso con i predetti Greco Antonino e Marotta
Giuseppe, del reato di usura ai danni di Collura Salvatore (capo
Pi)

,

il solo Greco Antonino, colpevole dei reati di usura in danno di
Nicosia Fabio (capo 13) e di Gatì Claudio ( L1);

Alabiso Salvatore e Dainotto Bernardo, colpevoli di diversi episodi
di usura commessi in concorso tra loro (capi D2 in danno di
Iacopinelti e Fl usura in danno di Lo Brutto); il solo Alabiso
colpevole dei reati di usura in danno di Cassaro Giuseppe (E1) e
in danno di Nicosia Fabio (I1) e di tentata estorsione in danno di
Abbate Giuseppe (capo C); il solo Dainotto colpevole degli
episodi di usura ai danni di Minnelli Calogero e di Cavaleri
Giuseppe, meglio precisati ai capi G1 e Ml;

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1. Con sentenza del 01/06/2012, la Corte di Appello di Palermo

Dainotto Bernardo, Antona Salvatore e Termine Salvatore
responsabili in concorso tra loro del reato di tentata estorsione
continuata in danno di Claudio Gatì diretta a costringerlo a
versare al Termine la somma di 15.000 euro, in epoca
antecedente e prossima al 25 marzo 2005;

contestato al capo E4.

2. Avverso la suddetta sentenza, tutti i suddetti imputati hanno
proposto ricorso per cassazione.

3. ALABISO Salvatore, ha proposto tre separati ricorsi redatti uno
in proprio e gli altri due rispettivamente dagli avv.ti Calogero Meli e Lillo
Fiorello.
3.1. Con ricorso redatto dall’avv.to Fiorello, il ricorrente ha dedotto
i seguenti motivi:
3.1.1. TENTATA ESTORSIONE ai danni di Abbate Giuseppe (capo sub
C): sostiene il ricorrente che la prova a suo carico costituita dal
contenuto delle conversazioni captate sarebbe viziata perché si basa
esclusivamente sul riconoscimento vocale (per ciò che riguarda Abbate)
nonché sulla base della titolarità dell’autovettura (nel caso di Alabiso),
senza che la suddetta prova fosse stata accompagnata da un servizio di
osservazione in grado di riscontrare con certezza l’identità degli
interlocutori.
Il ricorrente, in particolare, contesta che le intercettazioni del
17/04/2004, del 11/04/2004 e del 15/09/2004, effettuate all’interno
della sua autovettura, avessero alcun significato compromettente atteso
che in esse si parlava solo della richiesta – priva di toni minacciosi e
intimidatori – di denaro avente ad oggetto un prestito concesso da esso
ricorrente all’Abbate alcuni anni prima e non ancora restituito. In altri
termini, tutte e tre le conversazioni, proverebbero, contrariamente a
quanto ritenuto dalla Corte territoriale, che tra esso ricorrente e l’Abbate
c’era stato esclusivamente un rapporto creditizio non definito, non erano
mai state effettuate richieste con toni minacciosi come peraltro aveva

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Di Falco Franco colpevole del reato di usura in danno di Cassaro

affermato lo stesso Abbate che aveva sempre negato di essere stato
mai minacciato o percosso dal ricorrente.
La Corte territoriale, nonostante la suddetta doglianza fosse stata
dedotta, aveva confermato la sentenza di primo grado, negando che la
condotta contestata potesse rientrare nel paradigma di cui all’art. 393

dalle conversazioni captate il 11/05/2004, il 11/06/2004 – sulla base
delle quali la Corte aveva ritenuto che l’Abbate era stato percosso – e da
un’agendina ritrovata nella disponibilità dello stesso Abbate.
Ma, non era chiaro sulla base di quali elementi la Corte avesse
potuto ritenere che il soggetto di cui si parlava e che era stato percosso,
fosse proprio l’Abbate.
Il contenuto dell’agendina, infine, era del tutto generico: al più, le
cifre esposte indicavano che il tasso richiesto non era di natura usuraria.
3.1.2. USURA AI DANNI DI IACOPINELLI (Capo sub D2): il ricorrente
sostiene che le dichiarazioni della suddetta parte offesa – che aveva
affermato che il denaro che aveva ricevuto in prestito da Greco Polito
Gaetano e da Dainotto Bernardo era, in realtà, di esso ricorrente che
fungeva da finanziatore – era stata smentita dallo stesso Iacopinelli che,
all’udienza del 20/04/2009, aveva affermato che lui i rapporti li teneva
esclusivamente con Greco Polito e Dainotto.
Il ricorrente, poi, confuta la motivazione con la quale la Corte
aveva ritenuto che il ruolo di finanziatore occulto del ricorrente si
desumesse dalle intercettazioni del 21/06/2006, 11/10/2006 e
08/11/2006: le suddette captazioni, infatti, avevano ad oggetto
circostanze che nulla avevano a che vedere con la pretesa usura e alle
quali esso ricorrente era estraneo.
3.1.3. USURA AI DANNI DI CASSARO GIUSEPPE (CAPO SUB E1): il ricorrente,
dopo avere premesso che le fonti di prova a suo carico, erano costituite
dalle dichiarazioni di Iacopinelli e Lo Brutto, nonché dalle intercettazioni
delle conversazioni del 27/09/2006 e 28/09/2006, sostiene che: a) le
dichiarazioni di Iacopinelli e Lo Brutto erano de relato e comunque non
provavano il coinvolgimento del ricorrente; b) dal contenuto
dell’intercettazione del 27/09/2006 (fra Alabiso e Greco Polito Gaetano)

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cod. pen. in quanto la prova del tentativo di estorsione si desumerebbe

non si evinceva che la vendita del terreno – della quale peraltro non vi
era alcuna certezza – avesse avuto lo scopo di saldare un debito né che
fosse servita per pagare gli interessi derivanti da un prestito usurario.
Inoltre, dall’intercettazione del 28/09/2006 (fra Greco Polito e tale
Peppe) non si poteva desumere il coinvolgimento dell’Alabiso nella

Cassaro aveva escluso il coinvolgimento del ricorrente.
3.1.4.

USURA AI DANNI DI LO BRUTTO (CAPO SUB F1):

il ricorrente

sostiene che, anche per il suddetto capo d’imputazione, non vi era
traccia di un suo ruolo come finanziatore occulto, ruolo che si
desumerebbe da quanto riferito da terzi. In realtà, le sole dichiarazioni
accusatorie erano quelle del Lo Brutto che, però, aveva riferito di avere
appreso dal Greco che i soldi ricevuti in prestito erano dell’Alabiso: ma si
trattava di una dichiarazione rimasta priva di riscontro. Nessuna
valenza, aveva, poi, la conversazione del 30/10/2006 tra Greco Polito e
Lo Brutto nella quale non era emerso il coinvolgimento del ricorrente.
Infatti, sebbene fosse vero che il Greco Polito, nella suddetta
conversazione aveva utilizzato il nome dell’Alabiso, tuttavia, doveva
ritenersi che si trattasse di un’affermazione priva di credibilità in quanto
il Greco aveva fatto «il nome del ricorrente proprio al fine di alleggerire
la sua esposizione verso i debitori, in maniera tale da avere maggiore
possibilità di movimento con gli stessi».
Infine, nessuna valenza poteva avere l’annotazione del
commissariato di Licata nel quale si attestava di un incontro avvenuto il
02/11/2006 tra Greco Polito, Lo Brutto ed Alabiso presso il bar “Avana”
in quanto si trattava di un incontro del tutto casuale.
3.1.5.

USURA AI DANNI DI NICOSIA FABIO (CAPO SUB Il):

il ricorrente

sostiene che «le molteplici divergenze interne nelle dichiarazioni della
stessa persona offesa, nonché l’impossibilità di qualunque controllo in
ordine alla concreta sussistenza degli episodi di usura riferiti, con
riguardo ai quali nessuna conferma può trarsi né dagli accertamenti di
P.G., né dalle intercettazioni effettuate, avrebbero dovuto indurre la
Corte territoriale a compiere un’analisi maggiormente rigorosa, sia della
credibilità della persona offesa, sia degli elementi di riscontro alle

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vicenda, sol perché si parlava di un tale “Totò” tanto più che lo stesso

dichiarazioni accusatorie, nonché sulla idoneità del materiale acquisito a
costituire piattaforma probatoria per ritenere sussistente il reato di
usura». Il ricorrente, poi, lamenta che la Corte non aveva tenuto in
debita considerazione la circostanza che la stessa persona offesa,
all’udienza del 21/12/2009, aveva affermato di non avere mai avuto con

Inoltre, la circostanza che i soldi ricevuti dal Nicosia fossero di
esso ricorrente non poteva considerarsi riscontrata dalle affermazioni
dello Iacopinello e Gatì – due usurati – perché la fonte delle loro
propalazioni era il Greco Polito.
Anche dalle intercettazioni del 20/09/2006 – la prima fra la moglie
e la figlia di Greco Polito, la seconda fra Greco Polito e la moglie – non si
rinvenivano elementi tali che confermassero che i soldi ricevuti da
Nicosia erano dell’Alabiso e, comunque la fonte ben poteva essere
costituita dalle millanterie dello stesso Greco Polito.
Infine, neppure dalla conversazione del 05/08/2006, intercorsa fra
Alabiso e Cannizzaro, era possibile desumere la prova che il ricorrente
fosse il finanziatore occulto nella vicenda usuraria in questione in quanto
da essa non emergeva né la natura illecita del favore né che il
destinatario fosse proprio il Nicosia.
3.1.6. VIOLAZIONE DEGLI AR-rr. 62 BIS, 99 COD. PEN.: il ricorrente
censura la sentenza impugnata nella parte in cui aveva negato le
attenuanti generiche sulla sola base dei precedenti penali. Quanto alla
ritenuta recidiva (nonostante fosse facoltativa), la motivazione era
apodittica avendo la Corte fatto leva sugli stessi argomenti spesi per
negare le attenuanti generiche.
3.2. Con ricorso redatto dall’avv.to Meli, il ricorrente ha dedotto i
seguenti motivi:
3.2.1. Con i motivi sub 1-2-3-4-5, il ricorrente ha ribadito le stesse
censure dedotte con il ricorso dell’avv.to Fiorello in relazione alle
imputazioni di tentata estorsione ai danni di Abbate (motivo sub 1: sul
punto, il ricorrente, insiste nel sostenere che mancherebbero proprio gli
elementi costitutivi della fattispecie criminosa), e di usura nei confronti

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esso ricorrente alcun contatto.

di Iacopinelli (motivo sub 2), Cassaro (motivo sub 3), Lo Brutto (motivo
sub 4), Nicosia (motivo sub 5);
3.2.2. VIOLAZIONE DELL’ART. 644/5 N° 3-4 COD. PEN.: il ricorrente
sostiene che, in relazione ai vari episodi di usura, non sarebbe
configurabile né l’aggravante dello stato di bisogno (in quanto i prestiti

commessa in danno di chi svolge attività imprenditoriale (non essendovi
la prova che i prestiti fossero stati concessi per la suddetta attività).
3.2.3. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 62

BIS,

99, 81 COD. PEN.: il ricorrente,

oltre che ribadire le censure in ordine alla mancata concessione delle
attenuanti generiche e alla ritenuta sussistenza della recidiva, si duole
del fatto che l’aumento per la continuazione (pari ad anni tre) sarebbe
stato immotivatamente eccessivo.
3.3. Con ricorso redatto in proprio, il ricorrente ha, infine, ribadito,
ulteriormente illustrandole, le medesime censure dedotte nei ricorsi
redatti dai propri difensori, sia in punto di responsabilità che di
trattamento sanzionatorio.

4. DAINOTTO Bernardo, in proprio, ha dedotto i seguenti motivi:
4.1. MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE in ordine al reato di
usura ai danni di Iacopinelli Salvatore (capo sub D2): il ricorrente
sostiene che la Corte territoriale non avrebbe risposto ai motivi di
appello. La Corte, infatti, avrebbe omesso di motivare in ordine alle
numerose contraddizioni in cui sarebbe incorsa la parte offesa ed, in
particolare, sia sulle modalità del prestito – che, in una prima versione,
sarebbe avvenuto in contanti, e, in una seconda versione, tramite
assegno in un’unica soluzione – sia sull’ammontare del prestito (che , in
una prima versione, era stato indicato in C 4.000,00, in una secondo
versione in C 4.000,00 + 1.000,00). In realtà, esso ricorrente aveva sì
prestato del denaro allo Iacopinelli ma senza pattuire alcun interesse:
era la stessa persona offesa che, spontaneamente, di volta in volta lo
gratificava con una piccola regalia. Anche gli accertamenti bancari erano
privi di alcuna valenza non offrendo alcun elemento dal quale desumere
la natura usuraria dei prestiti.

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non venivano chiesti per sopperire ad esigenze primarie) né quella

4.2. MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE in ordine al reato di
usura ai danni di Lo Brutto Eugenio (capo sub F1): il ricorrente censura
la sentenza impugnata sostenendo che la Corte territoriale, solo con
motivazione apparente, avrebbe disatteso le doglianze dedotte in sede
di appello con le quali si era stigmatizzata l’inattendibilità delle

né la somma che aveva avuto in prestito né il tasso praticato. La Corte
aveva disatteso la tesi difensiva – secondo la quale esso ricorrente si
limitava ad effettuare piccoli prestiti in cambio di piccole regalie sostenendo che era inverosimile: ma l’affermazione era arbitraria ed
illogica nella parte in cui si sosteneva che i guadagni erano così
spropositati da consentire al ricorrente anche di rinunciare all’intera
restituzione del capitale senza averne un sostanziale pregiudizio
economico. In realtà, quest’ultima affermazione era stata smentita dalla
stessa CT del P.M. dalla quale si desumeva che la rinuncia ad C
10.000,00 di capitale, in pratica, avrebbe vanificato ogni margine di
guadagno.
4.3. MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE in ordine al reato di
usura ai danni di Minnelli Calogero (capo sub G1): il ricorrente, anche in
relazione al suddetto episodio, reitera sostanzialmente, le stesse critiche
già dedotte: ossia che la Corte non avrebbe preso in esame la sua tesi
difensiva (prestiti concessi gratuitamente salvo piccole regalie
spontanee da parte degli stessi), che le dichiarazioni del Minnelli erano
inattendibili (in specie sotto il profilo che il tasso usurario,
contrariamente a quanto avveniva di solito, doveva essere pagato in un
momento successivo alla stipula del prestito ed alla consegna
dell’assegno).
4.4. MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE in ordine al reato di
estorsione ai danni di Gatì Claudio (capo sub L6): il ricorrente censura la
sentenza impugnata sostenendo che la Corte avrebbe ignorato la stessa
testimonianza della parte offesa che aveva escluso di avere ricevuto
minacce da esso ricorrente e si era affidata, per ritenere la colpevolezza,
al contenuto ambiguo ed incerto di due conversazioni ambientali del
25/03 e 23/04/2006 nonché a mere supposizioni.

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dichiarazioni della parte offesa che non era stata in grado di specificare

4.5. MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE in ordine al reato di
usura ai danni di Cavaleri Giuseppe (capo sub M1): il ricorrente sostiene
che la Corte, travisando gli esiti della svolta istruttoria, erroneamente lo
aveva ritenuto responsabile, nonostante la stessa parte offesa avesse
reiteratamente negato l’esistenza di qualunque accordo che prevedesse

4.6. MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE in ordine al reato di
usura ai danni di Giardina Gioacchino Antonio (capo sub U1): il
ricorrente sostiene che la Corte non avrebbe dato risposta alle specifiche
doglianze con le quali si erano stigmatizzate le carenze della tesi
accusatoria sia in ordine al tasso di interesse praticato, sia in ordine
all’importo mutuato che, secondo gli stessi accertamenti bancari,
ammontava ad C 11.590,00 e non ad C 150.000,00 circa.
4.7.

MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE

in ordine alle

testimonianze di Casà Paolo e Picone Francesco e agli accertamenti
bancari: il ricorrente sostiene che la Corte territoriale, in modo del tutto
generico ed apodittico aveva svalutato le testimonianze dei suddetti
testi che avevano confermato la tesi difensiva secondo la quale esso
ricorrente prestava denaro in cambio di qualche regalia spontanea da
parte degli stessi debitori. Il ricorrente, infine, si duole del fatto che la
Corte non aveva dato risposta alla censura con la quale si era messo in
rilievo che l’andamento stesso dei conti correnti registrato nel corso
degli anni, suggeriva che «più o meno, quello che veniva accreditato
equivaleva a quello che veniva addebitato»: il che confermava la tesi
difensiva.
4.8. VIOLAZIONE DELL’ART. 99 COD. PEN.: il ricorrente censura

la

sentenza impugnata sostenendo che la Corte aveva motivato in modo
illogico in ordine alla ritenuta recidiva che era semplice e non specifica
non avendo egli commesso reati della stessa indole.

5. DI FALCO Franco, a mezzo del proprio difensore, ha dedotto i
seguenti motivi:
5.1. MANIFESTA ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE in ordine al reato di
usura ai danni di Cassaro Giuseppe (capo sub E4): il ricorrente sostiene

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il pagamento di un tasso di interesse.

che la motivazione addotta dalla Corte per affermare la sua penale
responsabilità era disancorata dalle emergenze processuali che avevano
evidenziato che non vi fosse mai stato alcun rapporto di usura come
testimoniato dal teste Lana Vincenzo e dallo stesso Cassaro.
Infatti, il Cassaro si era ritrovato debitore del Di Falco sol perché il

assegno per la restituzione di una caparra di una compravendita
immobiliare non stipulata – gli aveva detto di intestare il suddetto
assegno direttamente al Di Falco essendo esso Lana, a sua volta,
debitore del Di Falco per l’acquisto di due veicoli: «da questo momento
si instaura un rapporto diretto tra il Cassaro e l’odierno imputato; il
Cassaro comunicava al Di Falco di pazientare in quanto non aveva
disponibilità economica e che l’assegno de quo sarebbe stato pagato a
poco a poco attraverso l’emissione di altri assegni di piccolo taglio […»).
Alla stregua dei suddetti fatti, il ricorrente sostiene che la tesi
accusatoria del prestito usurario non aveva trovato alcun riscontro
oggettivo e che non era stato possibile neppure accertare la somma
asseritamente prestata né il tasso usurario.
5.2.

VIOLAZIONE DEGLI ARTT.

62

BIS,

99, 133

COD. PEN.:

in ordine al

trattamento sanzionatorio, il ricorrente sostiene che la Corte, con
motivazione illogica e carente, aveva negato la concessione delle
attenuanti generiche, aveva riconosciuto la sussistenza della recidiva ed
aveva inflitto una pena eccessiva.

6. TERMINE Salvatore, in proprio, ha dedotto
629 – 393

COD. PEN.:

VIOLAZIONE DEGLI

AR-rr.

il ricorrente, in relazione all’unico capo

d’imputazione per cui è stato condannato (tentata estorsione ai danni di
Gatì Claudio: capo sub L6), dopo avere premesso i fatti per cui è
processo – e cioè che si era rivolto al Gatì per ottenere quanto pattuito
per la vendita di un’autovettura per la quale aveva ricevuto in
pagamento assegni protestati – sostiene che, nella fattispecie erano
ravvisabili non gli estremi della tentata estorsione ma solo quelli di cui
all’art. 393 cod. pen.

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Lana – a favore del quale il Cassaro avrebbe dovuto rilasciare un

7. ANTONA Salvatore, a mezzo del proprio difensore, ha dedotto
VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 629 – 393 COD. PEN.: il ricorrente, in relazione

all’unico capo d’imputazione per cui è stato condannato (tentata
estorsione ai danni di Gatì Claudio: capo sub L6), ha ribadito la tesi
difensiva del coimputato Termine e cioè che il fatto addebitatogli andava

tutti i requisiti oggettivi e soggettivi.

8. GRECO Antonino, a mezzo del proprio difensore, ha dedotto i
seguenti motivi:
8.1. VIOLAZIONE DEGLI AR-rr. 268/1-270-271 COD. PROC. PEN.:

il

ricorrente, sostiene che le intercettazioni effettuate a seguito dei decreti
n. 1635/05 del 27/6/2005 e n° 5246/2005 del 20/10/2005 – con i quali
furono disposte d’urgenza le intercettazioni nella sala colloqui del
carcere Pagliarelli tra Antonino Greco e i suoi familiari a colloquio,
nonché quelle ambientali a casa di Cellura Vincenza e quelle presso
l’abitazione in uso a Greco Antonino – sarebbero inutilizzabili perché il
P.M., per giustificare il ricorso ad impianti esterni, motivò con
l’indisponibilità di postazioni libere presso la Procura di Agrigento
nonostante non vi fosse alcuna ragione di urgenza in quanto, in quel
periodo non emergeva alcun indizio circa il reato associativo. Inoltre,
era stato violato anche il disposto dell’art. 270 cod. proc. pen. in quanto
«l’iscrizione nel registro G.N.R. è del 2003 (3172/2003) e non trova
giustificazione alcuna l’urgenza nel 2005 quando si procede per fatti
diversi e quindi si viola anche l’art. 270 cod. proc. pen.».
8.2. VIOLAZIONE DELL’ART. 416 COD. PEN.: sostiene il ricorrente che
non sussistono i presupposti per il reato associativo in quanto manca il
pactum sceleris in quanto «i componenti della famiglia del ricorrente
non hanno tratto neanche un vantaggio economico, essendosi limitati a
recuperare denaro che aveva dato in prestito il congiunto, allora agli
arresti domiciliari»: si trattava, quindi, di una partecipazione occasionale
non essendo essi a conoscenza delle modalità e contenuti dell’attività
criminosa e che il loro apporto ricadesse nella sfera associativa.

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qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni sussistendone

8.3. VIOLAZIONE DELL’ART. 644 COD. PEN.: il ricorrente, in relazione a
tutti gli episodi di usura per i quali è stato riconosciuto colpevole (ai
danni di Iacopinelli: capo sub D4; di Nicosia: capo sub 13; di Gatì: capo
sub L1-L2; di Collura: capo sub P1;) sostiene, da una parte, che «dagli
atti risulta che le parti offese non hanno corrisposto neanche il capitale

si trovassero in difficoltà economiche e finanziarie: di conseguenza, le
aggravanti non sarebbero configurabili.
8.4. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 629-393 COD. PEN.: il ricorrente, in
relazione al reato di estorsione nei confronti di Gatì Claudio (capo sub
L3), sostiene che avendo egli prestato a costui del denaro, aveva il
diritto di chiederne la restituzione: quindi, al più, era configurabile il
reato di cui all’art. 393 cod. pen.
8.5.

VIOLAZIONE DELL’ART.

73 DPR 309/1990 (CAPO SUB S2): il

ricorrente, in ordine al suddetto reato, sostiene che la responsabilità
sarebbe stata affermata su apodittiche congetture, non essendovi
alcuna prova in ordine alla ipotizzata cessione di stupefacente. Peraltro il
ricorrente era già stato arrestato e condannato per detenzione di
stupefacente nell’ambito dell’operazione “Cane di paglia”, sicchè non
poteva essere condannato per un’ipotesi commessa prima dell’arresto
ed in concomitanza con la suddetta operazione.
8.6. VIOLAZIONE DELL’ART. 158 COD. PEN. per non avere la Corte
applicato l’indulto per i fatti commessi prima del 02/05/2006 come,
appunto quello di cui al capo S2 ed i reati di usura.
8.7. VIOLAZIONE DELL’ART. 7 L. 575/1965: il ricorrente rileva che la
suddetta aggravante – contestatagli per il reato associativo di cui al
capo sub B) – non avrebbe potuto essergli contestata in quanto il
decreto di prevenzione della sorveglianza speciale, pur notificato, non
ebbe mai esecuzione, trovandosi il ricorrente in stato di custodia
cautelare con conseguente sospensione dell’esecutività del decreto.

9. GRECO Domenico, a mezzo del proprio difensore, ha dedotto i
seguenti motivi:

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ricevuto in prestito» e, dall’altra, che egli ignorava che le persone offese

9.1.

VIOLAZIONE DEGLI ARTT.

268/1-270-271

COD. PROC. PEN.:

si tratta

della stessa doglianza dedotta da Greco Antonino al precedente § 8.1.
9.2.

VIOLAZIONE DELL’ART.

416

COD. PEN.:

il ricorrente sostiene che,

essendo stato coinvolto in un solo episodio, in modo del tutto
occasionale, al quale, peraltro, aveva apportato un contributo non

il profilo dell’elemento oggettivo, ma anche per mancanza di dolo.
D’altra parte, la svolta istruttoria aveva evidenziato che neppure i testi
avevano mai indicato il ricorrente come soggetto pienamente inserito
nella struttura associativa.
9.3.

VIOLAZIONE DELL’ART.

644

COD. PEN.:

il ricorrente, in relazione

all’episodio per cui è stato condannato (usura ai danni di Coltura: capo
sub P1), sostiene che ignorava che il prestito concesso dal fratello Greco
Antonino fosse a tassi usurari. Neppure il Ct del P.m. aveva fatto luce
sulla pretesa attività usuraria del ricorrente in quanto le operazioni
effettuate dalla moglie di esso ricorrente (Incorvaia Maddalena) erano
risultate del tutto lecite.
9.4.

VIOLAZIONE DELL’ART.

158

COD. PEN.

per non avere la Corte

applicato l’indulto di cui alla L. 241/2006 nonostante non vi fosse alcuna
prova che, alla data del 02/05/2006, fosse inserito nella consorteria
mafiosa.

10. GRECO Angelo, a mezzo del proprio difensore, ha dedotto i
seguenti motivi:
10.1.

VIOLAZIONE DEGLI ARTT.

268/1-270-271

COD. PROC. PEN.: Si

tratta della stessa doglianza dedotta da Greco Antonino al precedente §
8.1.
10.2.

VIOLAZIONE DEGLI ARTT.

416

COD. PEN. –

649

COD. PROC. PEN.:

il

ricorrente sostiene, innanzitutto, che non vi sarebbe alcuna prova della
sua partecipazione all’associazione criminosa sia sotto il profilo oggettivo
che soggettivo. In secondo luogo, il ricorrente, rileva che, con due
sentenze passate in giudicato, era stato assolto dai reati fine. Di
conseguenza sussisteva il divieto del bis in idem di cui all’art. 649 cod.
proc. pen.

13

insostituibile, il suddetto reato non sarebbe configurabile non solo sotto

11. MAROTTA Giuseppe, in proprio, ha dedotto i seguenti motivi:
11.1. VIOLAZIONE DELL’ART. 416 COD. PEN.: il ricorrente sostiene che
non vi sia alcuna prova della sua partecipazione al reato associativo
(capo sub B). Infatti, egli non compariva in nessuna attività della
famiglia, con uno specifico ruolo partecipativo: la sua attività era

all’interno della compagine familiare, non essendo stata evidenziata,
nella motivazione della sentenza impugnata, alcuna prova certa di un
sodalizio criminale stabile con i propri parenti coimputati. Illogica e
meramente congetturale, in altri termini, doveva ritenersi la
motivazione impugnata che aveva desunto il coinvolgimento di esso
ricorrente nell’associazione criminosa dalla semplice consumazione dei
reati di estorsione, usura e detenzione di sostanze stupefacenti.
11.2. VIOLAZIONE DELL’ART. 629 COD. PEN.: il ricorrente sostiene che
non vi sarebbe alcuna prova in ordine al delitto di estorsione ai danni di
Gatì Claudio (capo sub L3).
Il compendio probatorio, costituito dalle dichiarazioni della parte
offesa e dalle risultanze delle captazioni tra il Gatì e Nicosia Fabio ed
all’interno della casa Circondariale tra Greco Antonino ed alcuni suoi
familiari, avrebbero una scarsa valenza probatoria perché: a) il Gatì
aveva affermato di non conoscere i rapporti fra esso ricorrente ed il
Greco Antonino; b) le minacce di cui il Gatì aveva riferito, non erano
riferibili ad esso ricorrente in quanto non coincidente con il periodo
indicato nel capo d’imputazione; c) neppure dalle intercettazioni, era
desumibile la prova dell’estorsione non parlandosi di alcun atto
intimidatorio.
11.3. VIOLAZIONE DELL’ART. 644 COD. PEN.: il ricorrente, in ordine ai
due episodi di usura addebitatigli (ai danni di Gatì Claudio: capo sub L2;
ai danni di Iacopinelli; capo sub D4) sostiene che non aveva avuto alcun
ruolo negli accordi sulle somme inizialmente date in prestito e non vi era
alcuna prova che egli sapesse dell’ammontare delle somme iniziali e di
quelle comprensive degli interessi. Peraltro, la stessa parte offesa aveva
reso dichiarazioni contraddittorie e confuse in ordine sia all’ammontare
del prestito che agli interessi pattuiti. Il ricorrente, poi, rileva che la

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consistita in una semplice condotta meramente occasionale compiuta

Corte territoriale non avrebbe considerato che egli, benché incaricato di
riscuotere il dovuto dal Gatì, non era riuscito nell’intento: di
conseguenza, il suo comportamento, al più, avrebbe potuto essere
qualificato come favoreggiamento reale ex art. 379 cod. pen. non
essendo configurabile neppure il reato di tentata usura da parte

Stessa cosa poteva dirsi in relazione all’usura nei confronti di Iacopinelli,
non avendo esso ricorrente partecipato alla fase della pattuizione, non
avendo mai richiesto la restituzione con tono minaccioso e, comunque,
non avendola ottenuta.
11.4.

VIOLAZIONE DELL’ART.

73 DPR 309/1990: il ricorrente, in

relazione alla condanna per detenzione di stupefacenti (capo sub S2),
sostiene che la prova addotta dalla Corte territoriale, consistente
sostanzialmente nel contenuto di alcune intercettazioni effettuate nella
casa Circondariale “Pagliarelli”, sarebbe insufficiente perché priva di
alcuna valenza in ordine alla partecipazione di esso ricorrente nella
commissione del reato.
DIRITTO
1. ALABISO
1.1. TENTATA ESTORSIONE ai danni di Abbate Giuseppe: la doglianza è

infondata per le ragioni di seguito indicate.
La Corte territoriale tratta l’episodio in esame, a pag. 17 ss ed
indica come fonti di prova a carico dell’imputato:
a) le dichiarazioni rese dallo stesso Abbate che, nonostante la
reticenza, «non ha potuto negare che Alabiso gli aveva prestato la
somma di 7.500,00 euro in contanti e che si erano accordati per la
restituzione di 200 euro al mese come interessi (v. pag.14 trascrizioni).
Abbate ha poi riconosciuto di avere restituito la somma di 2500.00
euro, ma di non essere riuscito a dare altro: Alabiso si era pertanto
appropriato di una vettura, asportandola dalla sua officina di
carrozziere, avvalendosi dell’aiuto di tale Bartolo Consagra», circostanza
questa riscontrata dalla denuncia sporta 1’8/09/2003;

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dell’esattore, considerata la natura unitaria di cui all’art. 644 cod. pen.

b) il contenuto dell’agendina sequestrata alla stessa parte offesa,
nella quale era annotata la somma di C 7.500,00 ricevuta dall’Alabiso e
le somme versate a titolo di interessi ampiamente usurari;
c)

«dalle trascrizioni in atti può apprezzarsi il contenuto

apertamente minaccioso delle conversazioni intercorse tra Alabiso e

riportate per ampi stralci in sentenza, nel corso delle quali Alabiso
sollecita Abbate a pagare il debito contratto circa due anni prima,
minacciandolo pesantemente e affermando di essere disposto ad
andare in galera per colpa sua».

Il ricorrente, in questa sede, ha dedotto le censure sintetizzate
nella presente parte narrativa

(supra §

3.1.1.) con le quali,

sostanzialmente, non fa altro che offrire una lettura alternativa del
suddetto compendio probatorio con la notoria tecnica retorica
consistente, da una parte, nella minimizzazione di ogni fatto e,
dall’altra, nella lettura frazionata del compendio probatorio all’esito della
quale, stigmatizza la motivazione addotta dalla Corte territoriale
sostenendo che avrebbe travisato la prova.
Sul punto, poiché tutti e tre i ricorsi del ricorrente sono congegnati
in modo similare, è allora opportuno rammentare quali sono i principi di
diritto che questa Corte ha enunciato sul travisamento della prova e sul
travisamento del fatto.
Il fenomeno della prova “omessa”, rilevante e decisiva (cioè del
vizio di omessa pronuncia rispetto a un significativo dato processuale o
probatorio), come quello della prova “travisata”, (cioè della palese
divergenza del risultato probatorio rispetto all’elemento di prova
emergente dagli atti processuali: è ammesso un fatto sicuramente
escluso o contraddetto in atti, o è escluso un fatto palesemente
confermato in atti; è affermata esistente una prova fenomenicamente
inesistente o è supposto il contenuto di una prova, pure esistente, ma
incontrovertibilmente divergente dal risultato probatorio), è stato
sempre ben presente nella giurisprudenza di questa Corte che lo
ammesso veicolandolo fra i vizi di legittimità inerenti alla mancanza o
manifesta illogicità della motivazione secondo il previgente art. 606 lett.

16

Abbate il 17 aprile 2004,I’ll giugno 2004 e il 15 settembre 2005,

e) c.p.p.: ex plurimis Cass. 1647/2003 Rv. 227105 secondo la quale «In
tema di cosiddetto travisamento del fatto, salvo il limite costituito dal
divieto di ricostruire il fatto diversamente da quanto abbia fatto il
giudice di merito in presenza di elementi di significato non univoco, il
giudice di legittimità, investito di un ricorso che indichi in modo specifico

processo, può, negli stretti limiti della censura dedotta, verificare
l’esistenza di una palese e non controvertibile difformità fra i risultati
obiettivamente derivanti dalla prova assunta e le conseguenze che il
giudice di merito ne abbia tratto. Costituisce infatti pur sempre vizio di
legittimità, denunciabile a norma dell’art. 606, comma primo, lett. e),
cod. proc. pen., quello che, mediante il solo esame del testo del
provvedimento impugnato, possa essere riscontrato verificando se un
fatto affermato come esistente sia invece pacificamente inesistente
ovvero se le argomentazioni motivazionali siano sostenute da elementi
fattuali acquisiti agli atti: in sostanza, se il giudice del merito abbia
fotografato correttamente la realtà sulla scorta di quanto dalla stessa
sentenza risulti accertato».
A seguito, poi, della riforma dell’art. 606 c.p.p. (novellato dall’art.
8 della L. n° 46/2006), questa Corte ha precisato, in linea e in
continuità con la precedente giurisprudenza che «la nuova formulazione
dell’art. 606. lett. e) cod. proc. pen., che in ragione delle modifiche
apportate dall’art. 8 L. n. 46 del 2006 consente il riferimento agli “altri
atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” per la
deduzione dei vizi della motivazione, riguarda anche gli atti a contenuto
probatorio ed introduce un nuovo vizio definibile come “travisamento
della prova”, consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente
o nell’omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla
necessità che il dato probatorio, travisato o omesso, abbia il carattere
della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a
critica»: ex plurimis Cass. 13994/2006 Rv. 233460.
E’ stato, infatti, chiarito che «Il nuovo vizio è quello che attiene
sempre alla motivazione ma che individua come tertium comparationis,
al fine di rilevarne la mancanza di logicità o la contraddittorietà, non

17

come il giudice di merito abbia travisato una prova decisiva acquisita al

solo il testo del provvedimento stesso ma “altri atti del processo
specificamente indicati nei motivi di gravame”. L’espressione adottata
(“altri atti del processo”) deve essere interpretata non nel senso,
limitato, di atti a contenuto valutativo (come gli atti di impugnazione e
le memorie difensive) ma anche in quello di atti a contenuto probatorio

dalla divaricazione tra le risultanze processuali e la sentenza.
La novella normativa introduce così due nuovi vizi definibili come:
1) travisamento della prova, che si realizza allorché nella motivazione
della sentenza si introduce un’informazione rilevante che non esiste nel
processo; 2) omessa valutazione di una prova decisiva ai fini della
decisione. Attraverso l’indicazione specifica della prova che si assume
travisata o omessa si consente alla corte di cassazione di verificare la
correttezza della motivazione (sotto il profilo della sua non
contraddittorietà e completezza) rispetto al processo»: Cass.
38788/2006 riv 235509.
La riforma del 2006, quindi, pur avendo ampliato

(rectius:

consacrato a livello legislativo il predetto principio giurisprudenziale) la
sfera dei vizi denunciabili in sede di legittimità, ha tenuto, però, ben
fermo il limite del devolutum, ossia di quello che può essere dedotto
davanti alla Corte di Cassazione, che è pur sempre rimasto circoscritto
all’esclusivo esame dell’atto impugnato.
Infatti, è rimasto fermo il principio secondo il quale non spetta
comunque alla Corte di cassazione “rivalutare” il modo con cui quello
specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito,
giacché attraverso la verifica del travisamento della prova il giudice di
legittimità può e deve limitarsi a controllare se gli elementi di prova
posti a fondamento della decisione esistano o, per converso, se ne
esistano altri inopinatamente e ingiustamente trascurati o fraintesi. Non
potrebbe, quindi, esserci spazio per una rinnovata considerazione della
valenza attribuita ad una determinata deposizione testimoniale, mentre
potrebbero farsi valere la mancata considerazione di altra deposizione
testimoniale di segno opposto esistente in atti ma non considerata dal
giudice ovvero la valenza ingiustamente attribuita ad una deposizione

18

(come i verbali) al fine di rimediare al vizio della motivazione dipendente

testimoniale inesistente o presentante un contenuto diametralmente
opposto a quello recepito dal giudicante.
Invero, affinché il giudice di legittimità possa esprimere un eventuale
giudizio sulla completezza, logicità e non contraddittorietà della
motivazione in rapporto all’apprezzamento (di fatto) di una fonte

necessario che avesse contezza dell’intero compendio probatorio (tutti
gli atti processuali) raccolti fino al momento della decisione, sulla base
dei quali svolgere l’analisi comparativa inerente la decisività o non della
fonte testimoniale e della incidenza causale dalla stessa svolta (cioè
della sua lacunosa o preterita considerazione) nel percorso decisionale
del giudice di merito: ciò che è impraticabile in rapporto alla natura del
giudizio di legittimità. Dovendosi anzi aggiungere che tale analisi
comparativa, preclusa in sede di legittimità, non potrebbe essere
neppure surrogata dalla circostanza per cui il testo della sentenza
impugnata non rechi menzione (neppure per interpretarne od
escluderne il valore dimostrativo o probatorio) di talune delle
testimonianze evocate dalla difesa dell’imputato. Anche in tal caso,
infatti, qualsiasi apprezzamento imporrebbe la conoscenza dell’intero
quadro delle emergenze probatorie, cioè di tutti gli atti processuali
pacificamente non ostensibili al giudice di legittimità: ex plurimis Cass.
15556/2008 riv 239533 – Cass. 33435/2006 riv 234364 – Cass.
5223/2007 riv 236130 – Cass. 24667/2007 riv 237207 – Cass.
19710/2009 riv 243636.
Quindi, riassuntivamente e conclusivamente, può affermarsi che il
vizio di omessa prova o travisamento della medesima assume rilevanza,
nei limiti del precisato devolutum, soltanto quando l’errore disarticoli
effettivamente l’intero ragionamento probatorio e renda illogica la
motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato
processuale/probatorio travisato.
Va, però, precisato che quanto appena detto vale nell’ipotesi di
decisione di secondo grado difforme da quella di primo.
E’ in questa ipotesi, infatti, che la questione della prova travisata
assume particolare rilevanza perché pone la parte vittoriosa in primo

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testimoniale operato o non operato dal giudicante, diverrebbe

grado in condizione di non potersi difendere adeguatamente nel
successivo grado di giudizio che, essendo di legittimità, preclude
qualsiasi riesame nel merito. Ed è proprio tenendo ben presente questa
particolare fattispecie che la giurisprudenza di questa Corte, al fine di
ovviare alle difficoltà della parte soccombente in appello, aveva

(quindi, a fortiori, successivamente), quale possibilità di ricondurre nel
vizio di mancanza di motivazione in quanto all’epoca già deducibile in
sede di legittimità la mancata risposta da parte del decidente alle
sollecitazioni proposte con memorie difensive, dirette ad estendere le
sue valutazioni su elementi diversi non posti a fondamento dell’atto di
appello e non oggetto di valutazione da parte del primo giudice: Cass.
S.U. 30.10-24.11.2003 n. 45276: Rv. 226093 aveva, infatti, stabilito
che «nell’ipotesi di omesso esame, da parte del giudice, di risultanze
probatorie acquisite e decisive, la condanna in secondo grado
dell’imputato già prosciolto con formula ampiamente liberatoria nel
precedente grado di giudizio non si sottrae al sindacato della Corte di
cassazione per lo specifico profilo del vizio di mancanza della
motivazione “ex” art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., purché
l’imputato medesimo, per quanto carente di interesse all’appello, abbia
comunque prospettato al giudice di tale grado, mediante memorie, atti,
dichiarazioni verbalizzate, l’avvenuta acquisizione dibattimentale di altre
e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal
giudice di primo grado nell’economia di quel giudizio, oltre quelle
apprezzate e utilizzate per fondare la decisione assolutoria. In detta
evenienza al giudice di legittimità spetta verificare, senza possibilità di
accesso agli atti, ma attraverso il raffronto tra la richiesta di valutazione
della prova e il provvedimento impugnato che abbia omesso di dare ad
essa risposta, se la prova, in tesi risolutiva, assunta sia effettivamente
tale e se quindi la denunciata omissione sia idonea a inficiare la
decisione di merito».
Così non è, invece, nel caso di c.d. doppia conforme perché, in tale
ipotesi, il limite del devolutum non può essere valicato ipotizzando
recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice del

20

individuato, fin da prima della riforma introdotta dalla L. n° 46/2005

gravame, al fine di superare le critiche mosse dall’appellante al
provvedimento di primo grado, individui atti a contenuto probatorio mai
prima presi in considerazione, ovvero dei quali dia una diversa lettura:in
relazione ad essi il ricorrente deve conservare la possibilità di
denunciarne il travisamento.

e cioè doppia pronuncia di eguale segno, il vizio di travisamento della
prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il
ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento
probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto
come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di
secondo grado.
Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della
novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46
del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, esso può
essere fatto valere solo nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia
riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia
conforme, superarsi il limite del devolutum con recuperi, in sede di
legittimità, di elementi fattuali che comportino la rivisitazione dell’iter
costruttivo del fatto, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per
rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a
contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice: il sindacato di
legittimità, infatti, deve limitarsi alla mera constatazione dell’eventuale
travisamento della prova, che consiste nell’utilizzazione di una prova
inesistente o nell’utilizzazione di un risultato di prova
incontrovertibilmente diverso, nella sua oggettività, da quello effettivo.
In conclusione, pertanto, deve affermarsi il seguente principio di
diritto: «nell’ipotesi di decisione di secondo grado difforme da quella di
primo, il vizio di prova omessa (vizio di omessa pronuncia rispetto a un
significativo dato processuale o probatorio), o di prova “travisata”,
(palese divergenza del risultato probatorio rispetto all’elemento di prova
emergente dagli atti processuali) assume rilevanza, nel giudizio di
legittimità, soltanto quando l’errore disarticoli effettivamente l’intero

21

Infatti, nel caso in cui ci si trova dinanzi ad una “doppia conforme”

ragionamento probatorio e renda illogica la motivazione per la
essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio travisato.
Qualora, invece, ci si trovi innanzi ad una cd. doppia conforme
(doppia pronuncia di uguale segno) il vizio di travisamento della prova
può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente

asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come
oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo
grado. Infatti, in considerazione del limite del devolutum (che impedisce
che si recuperino, in sede di legittimità, elementi fattuali che comportino
la rivisitazione dell’iter costruttivo del fatto, salvo il caso in cui il giudice
d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia
richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice)
il sindacato di legittimità, deve limitarsi alla mera constatazione
dell’eventuale travisamento della prova, che consiste nell’utilizzazione di
una prova inesistente o nell’utilizzazione di un risultato di prova
incontrovertibilmente diverso, nella sua oggettività, da quello effettivo».
Non è ammissibile invece la deduzione del vizi del travisamento
del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre
la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei
precedenti gradi di merito: ex plurimis Cass. 39048/2007 Rv. 238215.
Ora, è sufficiente un semplice raffronto fra la sentenza impugnata
e i motivi di tutti e tre i ricorsi per avvedersi che:
a) lo stesso ricorrente, non indica prove la cui valutazione sarebbe
stata omessa dalla Corte;
b) la Corte, ha preso puntualmente in esame la tesi difensiva che è, poi, quella riproposta con il presente ricorso – e, dopo averne
illustrato il contenuto (cfr pag. 17-18) l’ha disattesa alla stregua degli
evidenziati elementi fattuali;
c) il ricorrente ripercorre lo stesso compendio probatorio preso in
esame dalla Corte, dandone, però, una diversa lettura;
d)

il ricorrente non evidenzia alcuna manifesta illogicità della

motivazione attinente alla lettura del suddetto compendio probatorio.

22

rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio

E’ del tutto evidente, quindi, che non ci si trova di fronte ad un
vizio di prova travisata ma solo ad un preteso vizio di fatto travisato,
ossia un vizio non deducibile in sede di legittimità.
Infatti, il ricorrente pretende che le frasi da lui pronunciate nei
confronti dell’Abbate (“per il bene tuo stasera dammi i soldi” “ti devi fare

per questi soldi”: cfr capo d’imputazione) e addotte da entrambi i giudici
di merito come prove della minaccia estorsiva, in realtà, non andrebbero
interpretate come frasi minacciose ma solo come un innocuo scatto di
nervi di un creditore che richiedeva il dovuto al riottoso debitore.
Ma, l’interpretazione che entrambi i giudici di merito hanno dato
delle suddette frasi, non ha nulla di manifestamente illogico, tanto più
ove le medesime vengano lette, come è stato correttamente fatto dalla
Corte, nella loro successione cronologica e alla luce di tutto il restante
compendio probatorio.
La conclusione in punto di fatto alla quale sono giunti entrambi i
giudici di merito, esclude, ovviamente, che, nella fattispecie, in esame,
possa ritenersi configurabile il reato di cui all’art. 393 cod. pen. per la
semplice ed ovvia ragione che pretendere la restituzione di interessi
usurari non è una pretesa legittima e, quindi, non è tutelata
dall’ordinamento giuridico.

1.2. USURA AI DANNI DI IACOPINELLI: la Corte Territoriale tratta
l’episodio in esame (capo sub D2), a pag. 21 ss ed indica come fonti di
prova a carico dell’imputato, le coerenti e precise dichiarazioni
testimoniali rese dalla stessa parte offesa Iacopinelli, che avevano
«trovato sicuro riscontro nel tenore delle conversazioni captate il 21
ottobre 2006, in cui Greco Polito dice a Iacopinelli che Totò (Alabiso) ha
cambiato l’assegno; in quella dell’8/11/2006 in cui Iacopinelli si
lamentava del comportamento poco corretto tenuto da “Totò”nell’acquisto di una giumenta e Greco Polito consigliava a Iacopinelli di
uscire dal giro dell’usura, affermando che dal suo ruolo di mediatore
non ne ricavava alcun guadagno. Queste prime due conversazioni vanno
lette in connessione con quella svoltasi nelle medesima giornata tra

23

sbattere al muro per bene” “io sono disposto ad andare pure in galera

Alabiso e Greco Polito, in cui il primo faceva riferimento ad un debitore
che doveva emettere un assegno di 2000 euro, avendo ricevuto in
prestito la somma di 1700 e che doveva passare a prendere la
giumenta. Il riferimento alla giumenta acquistata rende evidente che il
debitore di cui si parlava era Iacopinelli e l’effettivo creditore e

successiva conversazione del 10 novembre 2006 in cui Iacopinelli
comunicava a Greco Polito che i soldi – da lui attesi per pagare Alabiso erano arrivati e manifestava preoccupazioni per la giumenta».
In questa sede, il ricorrente, sostiene che non vi fosse alcuna
prova dalla quale si potesse desumere che egli era il finanziatore occulto
del prestito effettuato allo Iacopinelli.
Per sostenere la suddetta tesi, il ricorrente ricorre alla stessa
tecnica retorica di cui si è detto al precedente paragrafo: ossia
minimizza i fatti, li fraziona in modo da non consentirne una visione
unitaria e, alla fine, ne dà una versione alternativa. E così, sfruttando
una frase estrapolata dalla testimonianza della parte offesa, il ricorrente
sostiene che lo Iacopinelli, in realtà, lo aveva scagionato (cfr pag. 23
ricorso avv.to Fiorello); il contenuto delle intercettazioni è interpretato
in chiave assolutoria in modo da ribaltare la lineare interpretazione
datane da entrambi i giudici di merito (cfr pag. 23 ss ricorso avv.to
Fiorello); deduce, infine, che, a tutto concedere, non vi era la prova del
suo coinvolgimento della vicenda, trascurando così di considerare che la
Corte, correttamente, ha valutato tutte le intercettazioni in modo
unitario e che proprio da quella lettura unitaria emergeva l’evidente
coinvolgimento del ricorrente, come la Corte ha spiegato, con
motivazione coerente ed adeguata e, quindi, incensurabile, alle pag. 2223 della sentenza impugnata.
Anche la suddetta censura, pertanto, va rigettata.

1.3. USURA AI DANNI DI CASSARO GIUSEPPE: la Corte Territoriale tratta
l’episodio in esame (capo sub El), a pag. 24 ss ed indica come fonti di
prova a carico dell’imputato le intercettazioni ambientali e le «concordi
dichiarazioni testimoniali di Salvatore Iacopinelli e di Lo Brutto Eugenio,

24

finanziatore era Alabiso. Tale interpretazione è confermata dalla

vittime anch’essi di usura. Costoro hanno riferito di avere appreso da
Greco Polito che Cassaro era una vittima di usura e per estinguere il
debito si era deciso a vendere un terreno della madre; Iacopinelli ha
aggiunto di avere saputo dal Greco Polito che questi per recuperare il
debito maturato dal Cassaro si era appoggiato a Salvatore Alabiso».

parte narrativa (§ 3.1.3.) con le quali, sostanzialmente, si è limitato a
dare una versione alternativa del contenuto delle intercettazioni.
Ma, anche a tal proposito, non può che ribadirsi quanto finora
detto e cioè che il compendio probatorio va valutato unitariamente.
E così, se è vero che nell’intercettazione del 28/09/2006 – fra
Greco Polito e tale Peppe – i suddetti fanno riferimento ad un tale
“Totò”, tuttavia, il colloquio diventa chiarissimo (nel senso che “Totò” si
identificava in Alabiso) ove lo si legga unitariamente alla precedente
intercettazione del giorno prima avvenuta fra Greco Polito e lo stesso
Alabiso. Letto unitariamente, il contenuto delle suddette intercettazioni
fornisce, in tempo reale, come ha ritenuto incensurabilmente la Corte,
l’epilogo della vicenda usuraria, dando così un univoco riscontro anche
alle dichiarazioni, sebbene de relato, rese da Salvatore Iacopinelli e Lo
Brutto Eugenio.
Anche la suddetta doglianza, pertanto, va ritenuta infondata, non
essendo ravvisabile alcuna manifesta illogicità nella motivazione
impugnata.

1.4.

USURA AI DANNI DI LO BRUTTO: la Corte Territoriale tratta

l’episodio in esame (capo sub F1), a pag. 25 ss ed indica come fonti di
prova a carico dell’imputato, da una parte, la testimonianza della stessa
parte offesa che aveva riferito di avere appreso da Greco Polito che il
denaro prestatogli era di Alabiso e, dall’altra, l’intercettazione del
30/10/2006, dalla quale

«si evince che la persona offesa era

pienamente consapevole di essere debitore nei confronti di un terzo
soggetto, il cui nome non veniva esplicitato».
Il ricorrente, in questa sede contesta la valenza probatoria a suo
carico dei suddetti indizi.

25

In questa sede, il ricorrente ha dedotto le doglianze illustrate in

Al che deve replicarsi che trattasi della medesima doglianza
dedotta nel giudizio di appello ma disattesa dalla Corte territoriale con la
seguente motivazione:

«Non emergono motivi che possano avere

indotto il predetto a fornire false informazioni ai suoi debitori. Deve
inoltre convenirsi con il Tribunale che non è ipotizzabile che Greco Polito

pagamento dei debiti contratti da parte dei soggetti usurati, poiché è
inverosimile che abbia speso impunemente il nome di quest’ultimo, noto
personaggio mafioso del luogo, a prescindere dal suo effettivo
coinvolgimento, in quanto tale condotta lo avrebbe esposto a prevedibili
ritorsioni».
Si tratta di motivazione ineccepibile sotto il profilo logico e fattuale
nella quale non è evidenziabile alcuna manifesta illogicità: la prova
penale, infatti, è anche di natura logica ed induttiva e, nel caso di
specie, la motivazione con la quale la Corte ha illustrato le ragioni per le
quali riteneva che il Greco Polito non avesse millantato il nome del
ricorrente, è del tutto coerente con gli elementi fattuali evidenziati (il
Greco Polito «era uno dei principali collaboratori dell’Alabiso, con cui
spesso cooperava nella gestione di diversi rapporti usurari»;
annotazione del Commissariato di Licata in cui si attesta un incontro
avvenuto alle ore 13,00 del 2 novembre 2006 – cioè due giorni dopo
l’intercettazione fra il Lo Brutto ed il Greco Polito – tra Greco Polito,
Alabiso Salvatore ed Eugenio Lo Brutto).
Anche la suddetta doglianza, è, pertanto, infondata.

1.5. USURA AI DANNI DI NICOSIA FABIO: la Corte Territoriale tratta
l’episodio in esame (capo sub Il), a pag. 27 ss ed indica come fonti di
prova a carico dell’imputato, le dichiarazioni rese dalla stessa parte
offesa che avevano trovato conferma «nelle dichiarazioni di altri due
soggetti usurati: Iacopinelli e Gai-i Claudio. Il primo ha affermato di
avere appreso da Greco Polito che Nicosia si era fatto prestare soldi a
usura dall’Alabiso e ciò costituisce una conferma dell’attendibilità della
fonte del Nicosia. Gati ha riferito di avere appreso tale circostanza dal
Nicosia stesso, a riprova della buona fede di quest’ultimo, che non è

26

abbia millantato tale rapporto con l’Alabiso per garantirsi il regolare

animato da intenti calunniosi nei confronti dell’Alabiso. Particolarmente
rilevante è la conversazione del 20 settembre 2006 in cui la figlia di
Greco Polito, ex fidanzata del Nicosia, parlava con sua madre della
situazione finanziaria del predetto. La madre affermava che Alabiso si
faceva dare mensilmente dal Nicosia la somma di 3.100 euro al mese

Le due donne concludevano che era stato un bene che il matrimonio non
fosse stato celebrato».
Il ricorrente, in questa sede, ha dedotto la doglianza illustrata
nella presente parte narrativa

(supra §

3.1.5.) con la quale,

sostanzialmente, more solito, tenta di confutare tutto il compendio
probatorio sostenendo, da una parte, l’inattendibilità delle dichiarazioni
di Iacopinelli e Gatì e, dall’altra, l’inattendibilità delle dichiarazioni
intercettate.
Ancora una volta, va osservato che si tratta della medesima
censura dedotta in sede di appello (cfr pag. 28 sentenza impugnata) ma
disattesa dalla Corte con amplissima motivazione con la quale ha
illustrato le ragioni per le quali la conversazione fra la moglie e la figlia
del Greco Polito non poteva essere il frutto di alcuna millanteria e
perché non vi era alcun dubbio sul fatto che il soggetto di cui parlavano
era proprio l’Alabiso come desumibile, peraltro, dalla

«conversazione

intercettata il 5 agosto 2006 tra Alabiso e Cannizzaro, in cui il primo si
lamenta di avere fatto un favore a Greco Polito, concedendo un prestito
al genero, Fabio Nicosia , che non aveva ancora restituito il dovuto».
Anche la suddetta doglianza, pertanto, va ritenuta infondata.

1.6. VIOLAZIONE DELL’ART. 644/5 N° 3-4 COD. PEN.: il ricorrente con la
suddetta censura (supra § 3.2.2.), ha sostenuto che non vi fosse la
prova delle aggravanti contestate.
La Corte ha disatteso la censura rilevando che Iacopinelli

«pur

essendo un bidello, collaborava nella gestione del vivaio di cui era
proprietaria la moglie e si è visto costretto a ricorrere all’usura per
problemi di gestione di tale attività agricola, non potendo far ricorso alle
banche perché aveva subito il protesto di alcuni assegni. Ricorre

27

solo di interessi e commentava: “su stannu manciandu cotto e crudu”.

pertanto l’aggravante contestata. Ma va detto che anche gli altri
soggetti usurati, Cava/eri, Cassaro e Lo Brutto risultano essere piccoli
imprenditori costretti a ricorrere all’usura per difficoltà nella gestione
della loro attività lavorativa. Solo relativamente a Nicosia non è stata
contestata l’aggravante relativa all’attività imprenditoriale poiché è

erano stati da lui contratti a causa del videopoker ma certamente il
predetto versava in stato di bisogno, non potendo ricorrere ad altre fonti
di finanziamento, come emerge chiaramente dalle conversazioni
intercettate».
A fronte del suddetto accertamento di fatto, le conclusioni
giuridiche alle quali la Corte territoriale è pervenuta sono del tutto
corrette e conformi alla giurisprudenza di questa Corte di legittimità.
La doglianza (motivo sub VI ricorso avv.to Meli), quindi, stante
anche l’estrema genericità, va ritenuta manifestamente infondata.

1.7. TRATTAMENTO SANZIONATORIO: la Corte territoriale ha disatteso le
richieste in ordine alla concessione delle attenuanti generiche, e
all’irrogazione di una pena più mite, con la seguente motivazione: «Il
Tribunale ha determinato la pena base per i reati unificati per
continuazione facendo riferimento al reato di usura aggravata ai danni di
Iacopinelli; la pena inflitta, pari ad anni tre di reclusione ed euro 7.500,
è prossima al minimo edittale della fattispecie aggravata ed è
certamente congrua in relazione alla durata del rapporto estorsivo e
all’entità delle somme pretese, nonché al danno cagionato alla persona
offesa. E’ vero che l’aumento per la recidiva è facoltativo ma bene ha
fatto il Tribunale ad applicarla poiché i precedenti penali dell’imputato
sono significativi di una sua maggiore pericolosità sociale e di
un’impermeabilità all’effetto deterrente delle precedenti condanne che
rendono opportuna una sanzione più grave. t.] L’aumento di pena per i
reati in continuazione […] è di molto inferiore al minimo edittale previsto
per le diverse fattispecie criminose contestate e appare congruo in
relazione alla gravità delle imputazioni e alla personalità dell’imputato. I
numerosi e gravi precedenti penali dell’Alabiso attestano la spiccata

28

emerso che questi svolgeva l’attività di insegnante e parte dei debiti

pericolosità sociale di cui lo stesso mostrava di avvalersi nel rapporto
con i soggetti usurati, e precludono la concessione delle attenuanti
generiche, non avendo peraltro neppure la difesa allegato profili nella
condotta dell’imputato che possano indurre ad un giudizio di maggiore
indulgenza».

3.2.3.) vanno ritenute manifestamente infondate in quanto la
motivazione addotta dalla Corte territoriale deve ritenersi congrua e
logica avendo dato conto degli elementi scelti per la formulazione del
giudizio globale (gravità del fatto e capacità a delinquere): di
conseguenza, essendo stato correttamente esercitato il potere
discrezionale spettante al giudice di merito in ordine al trattamento
sanzionatorio, il relativo esercizio si sottrae ad ogni censura di
legittimità, in quanto anche un solo elemento che attiene alla
personalità del colpevole o all’entità del reato o alle modalità di
esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le
attenuanti stesse, non essendo il giudice obbligato a motivare anche
sulle ragioni per le quali ritiene irrilevanti gli eventuali elementi a favore
dell’imputato.
2. DAINOTED
2.1. USURA AI DANNI DI IACOPINELLI: la Corte Territoriale tratta
l’episodio in esame (capo sub D2), a pag. 38 ss ed indica come fonti di
prova a carico dell’imputato, le dichiarazioni rese dalla stessa parte
offesa – da ritenersi pienamente attendibile sia per mancanza di
risentimento sia perché, nonostante il clima di intimidazione, aveva con
fermezza reso la sua deposizione – che avevano «trovato conferma sia
nelle parziali ammissioni di Dainotto che negli accertamenti bancari che
hanno verificato l’esistenza di 4 assegni emessi tra febbraio e giugno
2006, due dei quali negoziati da Luigi Cassaro, per un importo
complessivo di 5.000,00 euro».
Il ricorrente, in questa sede, ha dedotto la censura illustrata nella
presente parte narrativa (supra § 4.1.) che è perfettamente identica a

29

Le censure dedotte dal ricorrente in questa sede (supra §§ 3.1.6.-

quella già dedotta in sede di appello (cfr pag. 37 e pag. 39 sentenza
impugnata) che, però, la Corte territoriale ha disatteso spiegando le
ragioni per le quali, sia sotto il profilo logico che fattuale, le imprecisioni
nelle quali era incorsa la parte offesa erano «agevolmente spiegabili».
Il ricorrente sostiene che la motivazione sarebbe illogica e

Sennonché, va osservato che i punti sicuri ed incontroversi di
tutta la vicenda (così come degli altri episodi di usura di cui si dirà)
sono che il ricorrente aveva mutuato il denaro.
La tesi difensiva, al di là di alcune imprecisioni in cui è incorsa la
parte offesa nel descrivere le modalità del prestito – imprecisioni che,
però, come si è detto, la Corte spiega con motivazione logica e, quindi,
incensurabile – è che il Dainotto prestava denaro a titolo gratuito o in
cambio di piccole regalie spontanee, talvolta non curandosi di farsi
restituire il capitale: la Corte ha tacciato la suddetta tesi di palese
inverosimiglianza.
Il suddetto giudizio, benché il ricorrente sostenga che sia
apodittico, è del tutto logico perché la Corte è pervenuta alla suddetta
conclusione, non in modo apodittico ma perché l’imputato è stato
raggiunto, per una serie di episodi commessi nei confronti di varie
persone, da numerosi indizi aventi il carattere della gravità, precisione e
concordanza sul fatto che egli esercitava l’attività di usuraio.
Il giudizio tranciante della Corte, quindi, deve ritenersi
ampiamente suffragato dalla valutazione complessiva ed unitaria di tutti
gli episodi di usura per i quali il ricorrente è stato riconosciuto
colpevole.
Sul punto, va osservato che il ricorrente, con il motivo illustrato
supra in parte narrativa al § 4.7., ha sostenuto che la sua tesi difensiva
sarebbe stata provata dalle dichiarazioni dei testi Picone e Casà i quali,
appunto, avevano affermato che esso ricorrente elargiva prestiti senza
alcun interesse.
La Corte, a pag. 47 ss della sentenza, ha preso in esame la
suddetta doglianza, ma ha disatteso l’assunto difensivo con amplissima
motivazione spiegando e ribadendo che era inverosimile sia perché i

carente.

suddetti testi erano apparsi reticenti e poco credibili sia perché
«ampiamente smentito da regole di comune esperienza e dalle
risultanze degli accertamenti bancari che hanno evidenziato sui conti
correnti della famiglia Dainotto, un intenso movimento di denaro pari ad
oltre 100.000,00 euro nel solo 2006. E’ appena il caso di ricordare che

diversi depositi e dal 1999 al 2006 l’imputato ha effettuato operazioni
incompatibili con le sue dichiarate capacità economiche […]».
La suddetta motivazione – nella parte in cui la Corte parla di “un
intenso movimento di denaro”, risponde, quindi, anche alla censura
secondo la quale gli accertamenti bancari non offrivano alcun elemento
da cui desumere la natura usuraria del prestito.
Le doglianze, pertanto, sono infondate, in quanto meramente
reiterative di quelle già disattese dalla Corte territoriale con motivazione
adeguata e logica e, quindi, incensurabile in sede di legittimità.

2.2. USURA AI DANNI DI LO BRUTTO EUGENIO: la Corte Territoriale tratta
l’episodio in esame (capo sub F1), a pag. 41 ss ed indica come fonti di
prova a carico dell’imputato gli accertamenti bancari che

«hanno

consentito di rintracciare venti assegni emessi da Eugenio Lo Brutto in
proprio favore tra l’aprile 2004 e il dicembre 2006 per una somma
complessiva di oltre 60.000,00 euro, due dei quali negoziati da
Dainotto, quattro da Luigi Cassaro, e gli altri quattordici da soggetti con
i quali Lo Brutto ha escluso di avere intrattenuto rapporti commerciali.
Si tratta pertanto di soggetti cui il Dainotto girava, senza apporre la sua
firma, gli assegni da lui ricevuti dal Lo Brutto. Lo stesso Dainotto ha
ammesso di avere cambiato al Lo Brutto più di dieci assegni di piccolo
importo, e poiché solo due sono stati da lui portati all’incasso è evidente
che tutti gli altri titoli ricevuti dal Lo Brutto sono stati negoziati dal
Dainotto in favore di terzi».
Il ricorrente, in questa sede, ha dedotto la censura illustrata nella
presente parte narrativa (supra § 4.2.) che è perfettamente identica a
quella già dedotta in sede di appello (cfr pag. 41-42 della sentenza
impugnata) che, però, la Corte territoriale ha disatteso spiegando le

31

Dainotto e i suoi familiari sono risultati titolari di sei conti correnti e

ragioni per le quali, sia sotto il profilo logico che fattuale, le imprecisioni
nelle quali era incorsa la parte offesa (che aveva dichiarato di avere
corrisposto interessi mai inferiori al 10% mensili) erano spiegabili con la
circostanza che si trattava di un rapporto che durava da quattro anni e
relativamente al quale, ad un certo punto, aveva perso il controllo.

offesa, nelle sue linee portanti ed essenziali, erano state non solo
precise ma erano state anche riscontrate dai suddetti accertamenti
bancari: la solita tesi difensiva (prestiti gratuiti o in cambio di piccole
regalie) è stata ancora una volta tacciata di inverosimiglianza.
Anche in relazione al suddetto capo d’imputazione, non può,
pertanto, che rilevarsene l’infondatezza, in quanto il ricorrente, lungi
dall’evidenziare manifeste illogicità, in modo surrettizio tenta di
introdurre nel giudizio di legittimità una nuova valutazione del merito
della vicenda processuale.

2.3. USURA AI DANNI DI MINNELLI CALOGERO: la Corte Territoriale tratta
l’episodio in esame (capo sub G1), a pag. 42 ss ed indica come fonti di
prova a carico dell’imputato sia le dichiarazioni della parte offesa – che
solo dopo numerose reticenze, si era deciso ad ammettere che era stato
concordato un tasso del 10% mensile – sia le stesse dichiarazioni
dell’imputato (che aveva ammesso di aver mutuato delle somme di
denaro al Minnelli), sia gli accertamenti bancari, sia la circostanza che il
figlio del Dainotto, quando il padre era agli arresti domiciliari, si era
recato dal Minnelli «per ricordargli il debito da pagare a riprova del fatto
che l’imputato non aveva affatto rinunziato alle sue pretese».
In questa sede, il ricorrente ha dedotto la censura illustrata nella
presente parte narrativa (supra § 4.3.) che è perfettamente identica a
quella già dedotta in sede di appello.
Di conseguenza, anche per questo episodio non può che pervenirsi
alla stessa soluzione di cui ai precedenti episodi, la cui motivazione,
mutatis mutandis,

può essere agevolmente mutuata e reiterata

fondandosi la doglianza del ricorrente, in pratica, sulla stessa tesi
difensiva del prestito gratuito.

32

Tuttavia, la Corte ha rilevato che le dichiarazioni della parte

2.4. USURA AI DANNI DI CAVALERI GIUSEPPE: la Corte Territoriale tratta
l’episodio in esame (capo sub M1), a pag. 45 ss ed indica come fonti di
prova a carico dell’imputato le dichiarazioni della stessa parte offesa che
«hanno trovato riscontro negli accertamenti bancari, che hanno

riconducibili a Cava/eri dell’importo complessivo di 3500 euro, emessi
tra gennaio e febbraio 2006, e ciò basta a confermare la veridicità delle
accuse formulate da quest’ultimo».
Il ricorrente, ha dedotto la censura illustrata nella presente parte
narrativa (supra § 4.5.) sostenendo che la Corte avrebbe travisato
l’esito dell’istruttoria in quanto la parte offesa aveva negato l’esistenza
di un patto usurario.
Al che deve replicarsi che la Corte non ha affatto travisato la
prova in quanto, sebbene avesse convenuto con la difesa che il Cavaleri
aveva cercato di scagionare l’imputato, tuttavia ha rilevato che
«incalzato dalle contestazioni del P.M., Cavaleri ha ammesso di avere
versato al Dainotto, una somma pari all’incirca al 30% del capitale
complessivo ricevuto, pur sostenendo di averlo fatto spontaneamente, e
ha affermato che il suo rapporto con Dainotto si era protratto per non
più di sei mesi (v. trascrizione udienza 26/10/2009 pag. 103 e
pag.105)».
Alla stregua della suddetta circostanza, riscontrata dagli
accertamenti bancari, la Corte ha quindi concluso che «Dainotto aveva
di fatto riscosso interessi del 60% su base annua, e comunque di entità
certamente superiore al tasso soglia, stabilito per il periodo in questione
in misura non superiore al 27% annuo come indicato nella consulenza in
atti».
La doglianza, è, quindi, infondata non essendo ravvisabile alcun
travisamento della prova.

2.5.

USURA AI DANNI DI GIARDINA GIOACCHINO ANTONIO: la Corte

Territoriale tratta l’episodio in esame (capo sub U1), a pag. 45 ss ed
indica come fonti di prova a carico dell’imputato sia le dichiarazioni della

33

consentito di individuare due assegni negoziati da Cassaro Luigi e

parte offesa, sia la circostanza che erano stati «rintracciati sei assegni
per un importo di oltre 12.000 euro emessi da Giardina e negoziati dal
Cassaro Luigi, abituale ricidatore degli assegni consegnati dai soggetti
usurati, sebbene Giardina abbia escluso di avere mai avuto rapporti
con quest’ultimo. Dainotto, all’esito della deposizione del teste, ha

ha sostenuto che Cassaro tratteneva l’interesse del 10% sugli assegni
scambiati mentre nessun margine di guadagno residuava in suo favore.
Tale assunto dell’imputato da un lato offre ulteriore riscontro
all’attendibilità della persona offesa e dall’altro, non consente di
escludere la responsabilità del Dainotto , che comunque, anche a volere
dare credito alla sua poco verosimile ricostruzione della vicenda,
avrebbe certamente contribuito con la sua consapevole attività di
intermediario alla consumazione del reato di usura in danno del
Giardina».
Il ricorrente, in questa sede ha sostenuto che: a) non vi era la
prova del tasso usurario; b) non vi era la prova sull’entità della somma
mutuata che non era quella indicata dalla parte offesa ma quella ben
più modesta di C 11.590,00.
Alla suddetta doglianza deve replicarsi che: a) la Corte ha
osservato che, a tutto concedere, e cioè pur a ritenere che il tasso
pattuito fosse del 10% mensile, gli interessi erano comunque usurari;
b) il ricorrente trascura di considerare che l’importo di C 11.590,00 era
solo quello rilevato dagli accertamenti bancari e che, quindi, i medesimi
non escludevano la veridicità delle affermazioni della parte offesa.
In conclusione, anche la suddetta doglianza è infondata.

2.6. VIOLAZIONE DELL’ART. 99 COD. PEN.: la Corte ha respinto la
richiesta di non ritenere la recidiva specifica con la seguente
motivazione: «Dainotto ha riportato oltre ad una condanna per furto
commesso nel 1975 e a innumerevoli emissioni di assegni a vuoto,
ormai depenalizzati, una condanna per detenzione di sostanze
stupefacenti e due condanne per ricettazione, reato contro il patrimonio
ricom preso nel medesimo titolo del codice penale che prevede l’usura e

34

ammesso di avere operato come intermediario tra Giardina e Cassaro, e

il riciclaggio. Sussiste pertanto nel caso di specie la recidiva specifica
correttamente ritenuta dal Tribunale».
La suddetta motivazione è del tutto conforme alla giurisprudenza
di questa Corte (ex plurimis Cass. 11954/2010 riv 249744; Cass.
40105/2010 riv 248784), sicchè non si presta alla generica censura

3. DI FALCO
3.1. USURA AI DANNI DI CASSARO GIUSEPPE: la Corte Territoriale tratta
l’episodio in esame (capo sub E4), a pag. 50 ss ed indica come fonti di
prova a carico dell’imputato le lineari dichiarazioni della parte offesa,
che avevano

«trovato significativo riscontro nei numerosi assegni

emessi dal Cassaro in favore del Di Falco e nel riscatto della polizza
assicurativa del padre del Cassaro. Né può sostenersi, come fa la difesa,
che l’importo della polizza assicurativa fosse destinato a pagare il primo
assegno insoluto del Cassaro nei confronti del Di Falco, poiché nel
frattempo questi aveva versato diverse somme di denaro come interessi
di quel primo prestito e di altri concessigli dall’imputato».
In questa sede, il ricorrente non ha fatto altro che ribadire la
propria tesi difensiva.
Al che deve replicarsi che la censura riproposta con il presente
ricorso, va ritenuta null’altro che un modo surrettizio di introdurre, in
questa sede di legittimità, una nuova valutazione di quegli elementi
fattuali già ampiamente presi in esame dalla Corte di merito la quale,
con motivazione logica, priva di aporie e del tutto coerente con gli
indicati elementi probatori, ha puntualmente disatteso la tesi difensiva.
Pertanto, non essendo evidenziabile alcuna delle pretese
incongruità, carenze o contraddittorietà motivazionali dedotte dal
ricorrente, la censura, essendo incentrata tutta su una nuova
rivalutazione di elementi fattuali e, quindi, di mero merito, va dichiarata
infondata.
In altri termini, la censura è infondata in quanto la ricostruzione
effettuata dalla Corte e la decisione alla quale è pervenuta deve

35

dedotta dal ricorrente che, quindi, va ritenuta infondata.

ritenersi compatibile con il senso comune e con «i limiti di una plausibile
opinabilità di apprezzamento»: infatti, nel momento del controllo di
legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di
merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei
fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a

Cass. n. 47891/2004 rv 230568; Cass. 1004/1999 rv 215745; Cass.
2436/1993 rv 196955.
Sul punto va, infatti ribadito che l’illogicità della motivazione,
come vizio denunciabile, dev’essere percepibile ictu

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