Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 26712 del 14/04/2015


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 3 Num. 26712 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da
– VISMARA ALBERTO MAURIZIO, n. 11/11/1965 a Bollate

avverso la sentenza della Corte d’appello di MILANO in data 16/09/2014;
\visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. V. D’Ambrosio, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;

Data Udienza: 14/04/2015

RITENUTO IN FATTO

1. VISMARA ALBERTO MAURIZIO ha proposto ricorso avverso la sentenza della
Corte d’appello di MILANO emessa in data 16/09/2014, depositata in data
22/09/2014, che, in parziale riforma della sentenza emessa in data 6/10/2011
dal Tribunale di MILANO, dichiarava non doversi procedere per prescrizione, nei
confronti del medesimo, relativamente alle violazioni commesse dal gennaio al

reclusione ed € 250,00 di multa, sostituendo la pena detentiva ex art. 53, legge
n. 689 del 1981 ed irrogando dunque la pena complessiva di € 2.150,00 di
multa, confermando nel resto l’impugnata sentenza che lo aveva ritenuto
responsabile del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed
assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (artt. 81 cpv, cod.
pen., 2, legge n. 638 del 1983: mensilità contestate ed ancora oggetto di
giudizio, dall’agosto 2006 a tutto l’anno 2007).

2. Con il ricorso per cassazione, proposto dal difensore fiduciario cassazionista
del ricorrente, vengono dedotti tre motivi, di seguito enunciati nei limiti
strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. Att. Cod. Proc. Pen.

2.1. Deduce il ricorrente, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b),
Cod. Proc. Pen., in particolare per violazione degli artt. 27 Cost. e 192, comma
secondo, cod. proc. pen., quanto al mancato rispetto dell’onere della prova
gravante sulla Pubblica Accusa in relazione alla dimostrazione degli elementi
costitutivi dell’elemento oggettivo del reato contestato.
In particolare, la censura investe l’impugnata sentenza per aver i giudici di
appello ritenuto configurabile il reato in esame traendo la prova dell’effettivo
pagamento degli stipendi ai dipendenti dalla produzione dei modelli DM/10;
diversamente, si sostiene in ricorso, tale motivazione non sarebbe sufficiente a
far ritenere provato l’elemento costitutivo del reato, atteso che non si sarebbe
tenuto conto del fatto che, all’epoca dei fatti, l’azienda attraversava un periodo di
difficoltà finanziaria tanto da essere dichiarata fallita l’anno successivo a quello
del periodo di imposta in cui i versamenti INPS non sarebbero stati effettuati; in
presenza di tale circostanza, la mera produzione dei modelli DM/10 non sarebbe
sufficiente a fornire la prova dell’effettiva corresponsione delle retribuzioni,
essendo peraltro prassi diffusa tra i datori di lavoro quella di comunicare i dati
relativi a tali modelli seda.leggyar4 in modo automatico, spesso confidando nella
possibilità di far successivamente fronte alle proprie inadempienze nei confronti
2

mese di luglio 2006, per l’effetto rideterminando la pena in mesi 1 e gg. 20 di

dei dipendenti; ciò sarebbe condiviso anche da( k giurisprudenza di legitkmità
che attribuirebbe valenza probatoria a tale documentazione solo ove non
risultino elementi contrari; in ogni caso, conclude sul primo motivo il ricorrente,
la motivazione della Corte territoriale appare censurabile per aver violato il
principio “in dubio pro reo” e i criteri di valutazione della prova indiziaria di cui
all’art. 192 cod. proc. pen., avendo tratto da un solo flebile elemento indiziario (il

sostanzialmente invertendo l’onere probatorio, con violazione dell’art. 27 Cost. e
della predetta norma processuale evocata.

2.2. Deduce il ricorrente, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett.
e), Cod. Proc. Pen., in particolare per manifesta illogicità della motivazione nella
parte relativa all’analisi dell’elemento psicologico del reato.
In particolare, la censura investe l’impugnata sentenza per aver i giudici di
appello respinto la censura difensiva avente per oggetto il difetto dell’elemento
psicologico del reato con argomentazioni illogiche; in particolare, sarebbe illogica
l’affermazione della Corte territoriale secondo cui lo stato di decozione della
società, manifestatosi con il fallimento, non rileverebbe ai fini della sussistenza
dell’elemento psicologico del reato, essendo per i giudici concettualmente non
correlabile con l’inadempimento in quanto il fallimento sarebbe intervenuto
successivamente alla data di assolvimento dell’obbligo contributivo; il ricorrente
censura tale affermazione, osservando che il fallimento è immediatamente
successivo al periodo di imposta cui si riferisce l’imputazione, dunque il dato di
contiguità temporale risulta perfettamente evidente, laddove si consideri inoltre
che il fallimento rappresenta proprio il punto più drammatico della crisi, sicchè
l’aver affermato la mancanza id. correlazione tra il mancato versamento delle
ritenute previdenziali e l’illiquidità aziendale costituirebbe un’antinomia logica
censurabile; ulteriore profilo di censura investe poi l’affermazione della Corte
territoriale secondo cui le difficoltà finanziarie non costituiscono per diritto
comune motivo di liberazione dall’obbligo contributivo ex art. 1218 cod. civ.;
secondo il ricorrente tale affermazione costituirebbe un non senso, non rilevando
in ambito penale, ma solo civilistico o tributario; vi sarebbe dunque stata una
“mistificazione” della questione dell’elemento soggettivo, prescindendo non solo
dal disposto dell’art. 42 cod. pen., ma anche dall’esimente della forza maggiore,
peraltro fingendo di ignorare la recente giurisprudenza che esclude il dolo per
l’imprenditore successivamente fallito.

3

modello DM/10) la prova dell’effettivo pagamento delle retribuzioni,

2.3. Deduce il ricorrente, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed
e), Cod. Proc. Pen., in particolare per vizio motivazionale in ordine al mancato
riconoscimento delle attenuanti generiche.
In particolare, la censura investe l’impugnata sentenza per aver i giudici di
appello negato la concedibilità delle attenuanti generiche ritenendo ostarvi i due
precedenti penali specifici documentati dal casellario giudiziale; tale affermazione
non assolverebbe all’onere motivazionale imposto, in quanto l’aver trattato la

sul giudice; si osserva, del resto, che la difesa non ha potuto avanzare istanza di
applicazione della continuazione in quanto non era a conoscenza dei due
precedenti al momento dell’atto di appello; la stessa esistenza dell’istituto della
continuazione si porrebbe in opposizione logica con il mancato riconoscimento
delle attenuanti.

CONSIDERATO IN DIRITTO
3. La sentenza, pur in presenza di un ricorso infondato, dev’essere parzialmente
annullata per le ragioni di seguito esposte.

4. Seguendo l’ordine sistematico imposto dalla struttura dell’impugnazione di
legittimità, dev’essere anzitutto esaminato il primo motivo, con cui il ricorrente come detto – si duole del mancato rispetto dell’onere probatorio gravante sul PM
circa la prova dell’effettivo pagamento delle retribuzioni.
La sentenza della Corte d’appello trae la prova del pagamento della retribuzione
(e del conseguente colpevole omesso versamento delle ritenute da parte del
datore di lavoro) dai modelli DM/10 inviati dall’imputato alla sede INPS, da cui
risultava la corresponsione delle retribuzioni ai dipendenti, aggiungendo, per
converso, che mancasse la prova contraria incombente sull’allora appellante che,
nonostante tali attestazioni, le retribuzioni non siano state effettivamente
corrisposte.
Sul punto, a destituire di fondamento il motivo, è sufficiente qui ricordare che,
come più volte affermato da questa Corte, in materia di omesso versamento
delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro, l’onere
incombente sul pubblico ministero di dimostrare l’avvenuta corresponsione delle
retribuzioni ai lavoratori dipendenti è assolto con la produzione del modello DM
10, con la conseguenza che grava sull’imputato il compito di provare, in
difformità dalla situazione rappresentata nelle denunce retributive inoltrate,

4

questione come un automatismo non varrebbe ad esaurire l’onere che incombe

l’assenza del materiale esborso delle somme (v., tra le tante: Sez. 3, n. 7772 del
05/12/2013 – dep. 19/02/2014, Di Gianvito, Rv. 258851).
Nel caso in esame, l’imputato si limita in ricorso a porre in termini dubitativi la
questione, asserendo che lo stato di decozione, poi concretizzatosi nel successivo
fallimento della società, era da considerarsi già esistente all’epoca dei mancati
versamenti, tanto da far ritenere il mancato pagamento. Si tratta, tuttavia, di

in questa sede di legittimità), non assurgono al rango di prova contraria, atteso
che – con riferimento alla circostanza relativa all’avanzato stato di decozione
societario – si tratta di osservazione comunque non pertinente, posto che non
risulta documentato dall’impugnata sentenza né dal ricorso che, alla data degli
omessi versamenti, la società si trovasse in tale stato e che lo stesso avesse
inciso al punto tale da impedire il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti.

5. Passando all’esame del secondo motivo, con cui si svolgono censure in ordine
al presunto mancato raggiungimento della prova della sussistenza dell’elemento
psicologico del reato, ritiene il Collegio che non abbia pregio la doglianza
difensiva.
Ed infatti, per giurisprudenza pacifica di questa Corte se è irrilevante la
circostanza dell’intervenuto fallimento rispetto al reato per cui si procede, a
maggior ragione, al fine di escludere il dolo normativamente richiesto, è
irrilevante che l’azienda si trovasse in stato di difficoltà economica nel periodo
antecedente.
Questa Corte ha, infatti, precisato che risponde del reato di omesso versamento
delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei
lavoratori dipendenti (art. 2, D.L. 12 settembre 1983, n. 463, conv. con modd. in
legge 11 novembre 1983, n. 638) il legale rappresentante di una società
dichiarata fallita in quanto obbligato, ove non dichiarato fallito personalmente, al
pagamento delle ritenute con le personali risorse finanziarie (Sez. 3, n. 29616
del 14/06/2011 – dep. 25/07/2011, Vescovi, Rv. 250529).
Con riferimento, poi, allo stato di difficoltà economica ed alla sua rilevanza
rispetto al reato in esame, si è reiteratamente affermato che il reato di omesso
versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni
dei lavoratori dipendenti (art. 2 D.L. n. 463 del 1983, conv. in I. n. 638 del 1983)
è integrato, siccome è a dolo generico, dalla consapevole scelta di omettere i
versamenti dovuti, sicchè non rileva, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, la
circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini risorse
finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti (Sez. 3, n. 3705 del
5

deduzioni che, oltre a risolversi in apprezzamenti di fatto (dunque non valutabili

19/12/2013 – dep. 28/01/2014, P.G. in proc. Casella, Rv. 258056; si osserva
che, nella specie, questa Corte ha annullato la sentenza impugnata, che aveva
escluso il dolo per le difficoltà economiche della società amministrata
dall’imputato, desunte dai decreti ingiuntivi e dai protesti ai quali aveva fatto
seguito la dichiarazione di fallimento). La totale mancanza di elementi probatori
che comprovino l’esistenza di tale stato di difficoltà economica, dunque, esclude
in radice la valutabilità della doglianza difensiva, posto che – come già affermato

la colpevolezza non è esclusa nemmeno dalla crisi di liquidità intervenuta al
momento della scadenza del termine per il versamento delle ritenute, a meno
che l’imputato non dimostri che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili
e che le stesse, inoltre, non possano essere altrimenti fronteggiate con idonee
misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale (v., tra le tante: Sez. 3,
n. 5467 del 05/12/2013 – dep. 04/02/2014, Mercutello, Rv. 258055).

6. Quanto, infine, al terzo ed ultimo motivo di ricorso, attinente al mancato
riconoscimento delle attenuanti generiche, è parimenti infondato.
Ed invero, del tutto corretta in diritto e immune dai denunciati vizi motivazionali
è la decisione della Corte territoriale di negare il riconoscimento delle attenuanti
generiche facendo leva sul doppio precedente penale specifico ostativo. Lungi,
infatti, dall’applicare un pericoloso “automatismo” – come sostiene il ricorrente in realtà, i giudici territoriali hanno fatto buon governo del principio di diritto, più
volte affermato da questa Corte, secondo cui ai fini dell’applicabilità delle
circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis cod.pen., il giudice deve
riferirsi ai parametri di cui all’art.133 cod.pen., ma non è necessario, a tale fine,
che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso
fare riferimento. Ne consegue che il riferimento, da parte del giudice di appello,
ai precedenti penali dell’imputato, indice concreto della sua personalità – in
mancanza di specifiche censure o richieste della parte interessata, in sede di
impugnazione, in ordine all’esame di altre circostanze di fatto inerenti ai suddetti
parametri – adempie all’obbligo di motivare sul punto (v., in tal senso: Sez. 1, n.
707 del 13/11/1997 – dep. 21/02/1998, Ingardia, Rv. 209443). Nella specie, il
ricorrente non specifica nemmeno quali “altre circostanze di fatto” astrattamente
valutabili ex art. 133 cod. pen. i giudici avrebbero dovuto considerare al fine di
esercitare il proprio potere discrezionale, donde la censura si appalesa
all’evidenza manifestamente infondata.
Si osserva, infine, che nessuna incompatibilità logica deriva, come prospettato
dal ricorrente, tra il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche e
6

nell’omologa previsione tributaria dell’omesso versamento di ritenute certificate –

l’applicazione – nella specie neppure richiesta per le ragioni esplicitate in ricorso
– dell’istituto della continuazione in relazione ai fatti già giudicati.
Ed invero, quand’anche i giudici di appello, ove richiesti, avessero dovuto
prendere in esame la richiesta di applicazione della continuazione con i fatti già
giudicati, ben avrebbero potuto confermare il diniego in ordine al riconoscimento
delle invocate attenuanti, atteso che, come già chiarito da questa Corte, il
giudice, il quale abbia accertato un reato legato dal vincolo della continuazione

irrevocabile, deve limitarsi ad applicare, ai sensi dell’art 81, comma terzo, cod.
pen., l’aumento di pena dovuto per la continuazione. Non può anche applicare le
richieste attenuanti generiche, perché, ai fini della concedibilità di tali attenuanti,
dovrebbe vagliare l’intera attività antigiuridica del condannato, ivi compresa
quella già vagliata dal precedente giudicato penale: e ciò non gli e consentito in
virtù della preclusione che ad un simile riesame globale oppone la res iudicata
(Sez. 6, n. 9561 del 21/05/1973 – dep. 20/12/1973, Ferrari, Rv. 125807).

7. Il ricorso dovrebbe, conclusivamente, essere rigettato.
Tuttavia, in presenza di un ricorso non manifestamente infondato, alla data della
odierna risultano già decorsi per intero i termini di prescrizione massima del
reato in esame fino al rateo di marzo 2007, residuando alcune mensilità non
dichiarate estinte per prescrizione dai giudici di appello (da agosto 2006 a marzo
2007, non essendo maturata ad oggi la prescrizione per le mensilità successive).
Avuto infatti, quanto alla mensilità di aprile 2007 (e, ovviamente, il discorso vale
a fortiori per quelle successive residue), il cui dies a quo decorre dal 16/05/2007,
vanno aggiunti anni 7 e mesi 6 quale termine di prescrizione massima, nonché
ulteriori mesi 3 di sospensione del termine per effetto dell’art. 2, comma 1quater, legge n. 638 del 1983 ed ulteriori mesi 2 e gg. 28 – e non, mesi 3 e gg.
25, come erroneamente indicato in sentenza, dovendosi computare la durata dei
rinvii per concomitante impegno del difensore nella misura massima di gg. 60
(Sez. U, n. 4909 del 18/12/2014 – dep. 02/02/2015, Torchio, Rv. 262913)-, per
effetto delle sospensioni dal 21/05 al 16/09/2014; il reato in esame, si
estinguerebbe, dunque, per prescrizione, quanto alla mensilità di aprile 2007,
alla data del 16/04/2015, ossia due giorni dopo la decisione di questa Corte.

8. Consegue, pertanto l’annullamento dell’impugnata sentenza, con rinvio ad
altra Sezione della Corte d’appello di Milano, per la rideternninazione della pena
quanto alle violazioni da aprile 2007 in poi, essendo per tali periodi successivi
divenuta irrevocabile l’affermazione di responsabilità con la presente decisione.
7

con un precedente reato, per il quale sia stata emessa condanna con sentenza

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata senza rinvio, quanto alle omissioni fino
al marzo 2007, per essere i reati estinti per prescrizione e con rinvio ad altra
Sezione della Corte di appello di Milano per la determinazione della pena residua.

Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 14/04/2015

Rigetta il ricorso nel resto.

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA