Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 26447 del 10/03/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 26447 Anno 2015
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Forti Silvio, nato a Biserta (Tunisia) il 12/08/1934

avverso la sentenza emessa il 10/02/2014 dal Tribunale di Caltanissetta

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Mario Pinelli, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per la parte civile Marchetta Paola l’Avv. Antonino Lo Cascio, il quale ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Il 10/02/2014, il Tribunale di Caltanissetta riformava parzialmente – solo
in punto di determinazione del danno da risarcire alla parte civile – la sentenza

Data Udienza: 10/03/2015

emessa dal Giudice di pace di Caltanissetta, in data 01/07/2013, nei confronti di
Silvio Forti; il Forti, Avvocato del Foro di Marsale, risulta essere stato condannato
alla pena di euro 1.000,00 di multa per il delitto di diffamazione, avendo egli
usato espressioni offensive della reputazione della Dott.ssa Paola Marchetta,
Giudice di pace coordinatore presso l’ufficio di Carini, in un esposto indirizzato a
varie autorità (fra cui il Ministro della Giustizia ed il Presidente del Tribunale di
Palermo). Nella predetta nota, l’imputato aveva stigmatizzato alcuni ritardi della
Dott.ssa Marchetta nella conduzione e trattazione di un processo, per il quale si

conseguenti rischi di imminente prescrizione: la diffamatorietà veniva ritenuta
con specifico riguardo al duplice riferimento, contenuto nello scritto, alla
circostanza che Carini era “zona riconosciuta in odor di mafia”.
Secondo il Tribunale, «il riferimento al condizionamento mafioso nel
territorio di Carini, associato alla gestione del processo, era certamente idoneo
ad evocare in maniera immediata e diretta la correlazione tra tale
condizionamento e la ritenuta mala gestío del giudizio, con ciò sostanzialmente
inducendo nel lettore dell’esposto l’idea di possibili pressioni ricevute (ed accolte)
dal titolare del processo, e provenienti da ambienti mafiosi, al fine di eluderne la
celere definizione». Osservava il giudice di appello, inoltre, che l’univoca
possibilità di lettura di quello scritto rendeva evidente il dolo del Forti, visto che
la missiva si concludeva con la sollecitazione alle autorità in indirizzo di ordinare
al giudice assegnatario la prosecuzione del processo. Né era possibile ipotizzare
che la condotta dell’Avv. Forti fosse da intendere scriminata ai sensi dell’art. 598
cod. pen.: il giudizio che si assumeva oggetto di negligente trattazione non
vedeva infatti l’odierno imputato quale patrocinatore di una delle parti (la parte
civile Alessandro Egidio Agate, nel cui interesse egli assumeva di presentare
l’esposto quale vittima di lesioni colpose a seguito di incidente stradale, risultava
assistita dall’Avv. Vincenzo Forti, e mai l’Avv. Silvio Forti era comparso in
udienza).

2. L’Avv. Silvio Forti, nella qualità personale di imputato, ricorre avverso la
pronuncia indicata in epigrafe, deducendo:
erronea applicazione dell’art. 595 cod. pen. e carenza di motivazione della
sentenza impugnata
Secondo il ricorrente, egli non aveva inteso offendere l’onorabilità della
Dott.ssa Marchetta, bensì, «quale imprescindibile e primario dovere del
suo ministero di difensore, unicamente sensibilizzare le autorità in
indirizzo ad intervenire al fine di una sollecita definizione del
procedimento penale», iniziato nel 2006 e non ancora concluso nel 2012

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era già pervenuti dopo molto tempo all’esercizio dell’azione penale, con

«a causa delle lungaggini incorse nella fase di indagini preliminari e
durante lo stesso dibattimento di primo grado, con la conseguente
concreta dannosa prospettiva della prescrizione del reato di lesioni
colpose in danno della incolpevole vittima del reato». Gli stessi
argomenti erano stati esposti dal Forti nel corso del giudizio, ma erano
stati irragionevolmente disattesi, senza tenere conto che la tempestiva
definizione di un processo penale costituisce un valore tutelato sia dalla
Costituzione che dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: in punto

ricavarsi con palese evidenza anche dalle sue condizioni personali, in
quanto esercente la professione forense da oltre 50 anni, con pregresse
funzioni di magistrato onorario, e del tutto immune da precedenti penali o
carichi pendenti.
A dispetto di tali emergenze, i giudici di merito avrebbero ravvisato nella
fattispecie concreta un

dolus in re ipsa,

non osservando i precetti

costituzionali in tema di colpevolezza e di responsabilità penale che
avrebbero dovuto imporre la prova della volontà del ricorrente di
offendere la persona offesa.
Il Forti precisa che nel corpo dell’esposto il riferimento a Carini valeva
semplicemente a sottolineare che lo Stato aveva uno speciale interesse a
non subire perdite di credibilità e di immagine nel tollerare una situazione
di “lassismo giudiziario” proprio in una zona connotata dalla presenza di
organizzazioni criminali: in un tale contesto, vi sarebbe stato maggiore
bisogno di dimostrare efficienza, piuttosto che incorrere in possibili ritardi
sanzionabili attraverso gli strumenti previsti dalla cosiddetta “legge
Pinto”. Ergo, l’unico scopo dell’imputato «era quello di rimediare ad
un’ennesima figuraccia dell’amministrazione giudiziaria italiana ed evitare
un danno economico allo Stato italiano, e quindi in definitiva la sua lettera
di sollecito era paradossalmente diretta ad evitare anche l’eventuale

di elemento psicologico, l’assenza di dolo in capo al Forti avrebbe dovuto

responsabilità contabile a carico del Giudice di pace di Carini Paola
Marchetta»
inosservanza dell’art. 598 cod. pen., nonché mancanza e manifesta
illogicità della motivazione
Il ricorrente contesta le argomentazioni evidenziate dal giudice
dell’appello per negare la ravvisabilità della speciale esimente di cui
all’art. 598, comma primo, cod. pen., fondate sulla asserita mancanza in capo all’Avv. Forti – della veste di difensore della parte civile nel
processo presupposto, e sulla legittimità dei rinvii che erano stati disposti
dal Giudice di pace. Al contrario, si fa presente che il signor Alessandro

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Egidio Agate era stato assistito, in occasione della prima udienza, proprio
dall’Avv. Silvio Forti, e nelle successive dal figlio dell’imputato, Avv.
Vincenzo Forti, del medesimo studio legale; l’esposto, nell’esercizio del
più ampio diritto di difesa, aveva una valenza prodromica ad assistere
l’Agate anche in eventuali e successive sedi, qualora fossero emersi profili
di responsabilità in capo alla Dott.ssa Marchetta. Sostiene quindi il
ricorrente di essere stato già all’epoca il difensore dell’Agate, e che
«soltanto per motivi di organizzazione dello studio legale Forti ed anche

Vincenzo Forti, il quale aveva assunto la difesa in fase dibattimentale, pur
rimanendo l’odierno imputato difensore fiduciario del predetto Agate, che
assisteva ed al quale prestava consiglio nella conduzione della causa
penale presso il Giudice di pace di Carini».
Quanto alle ragioni dei rinvii, l’Avv. Forti segnala che i motivi del ritardo
nella trattazione del processo che interessava l’Agate erano anche dovuti
alle lungaggini della fase delle indagini preliminari, e che in ogni caso la
mancata definizione del giudizio era già tale da comportare conseguenze
dannose per lo Stato, sia in base all’anzidetta legge Pinto che ai principi
affermati dalla giurisprudenza sovranazionale
– violazione dell’art. 62-bis cod. pen., carenza e manifesta illogicità della
motivazione
L’Avv. Forti si duole, in subordine, della mancata concessione in suo
favore delle circostanze attenuanti generiche, che il Tribunale avrebbe
disconosciuto valorizzando in chiave negativa le dichiarazioni rese dallo
stesso ricorrente a propria discolpa; in realtà, quelle dichiarazioni
costituivano esercizio del legittimo diritto di difesa, volendo egli «chiarire
di essere in buona fede e di non aver mai voluto diffamare la Marchetta»,
mentre non si può sostenere – come sembra invece affermare il giudice
dell’appello – che le attenuanti de quibus sarebbero state ravvisabili
laddove l’imputato «fosse rimasto passivo di fronte allo scempio della
ritardata giustizia»
– erronea applicazione degli artt. 185 cod. pen., 2043 e 2059 cod. civ.,
carenza e manifesta illogicità della motivazione
Secondo l’imputato, la domanda di risarcimento del danno avanzato dalla
parte civile avrebbe dovuto essere respinta, sia per la dimostrata
innocenza dell’Avv. Silvio Forti, sia perché non era stata fornita alcuna
prova delle asserite sofferenze psicologiche patite dalla Dott.ssa
Marchetta in conseguenza del comportamento del ricorrente. Si sostiene
nel ricorso che «se la stessa Marchetta fosse stata immune da qualsiasi

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della sua avanzata età egli era stato coadiuvato dal proprio figlio Avv.

censura comportamentale, non si vede quale dispiacere o patimento
interiore avrebbe astrattamente subito», e che il lamentato danno morale
sarebbe stato «immotivatamente presunto» dai giudici di merito.

3. Con motivi aggiunti, pervenuti a questa Corte il 18/03/2014, il ricorrente
rappresenta che:
egli era certamente legittimato «a presentare l’esposto quale difensore
dell’attore Agate nel procedimento civile

de quo, dovendosi invece

ritenere che l’Avv. Vincenzo Forti fa parte dello studio legale di cui è

titolare l’imputato, tanto che, come risulta dal verbale di prima udienza, si
presentò l’Avv. Silvio Forti quale difensore dell’attore»;
i giudici di merito non avrebbero considerato il dato obiettivo che la
Dott.ssa Marchetta soffriva di «frequenti attacchi di panico, regolarmente
presentatisi ogni mattina del giorno di udienza, sì da determinare l’ira del
difensore e il più che fondato timore della prescrizione», mentre il
richiamo alle infiltrazioni mafiose nel territorio di Carini era del tutto
svincolato da riferimenti alla persona del giudicante;
in ogni caso, l’esposto indicato in rubrica era «stato scritto, come emerge
dal suo contenuto, nello stato di ira determinato dal fatto ingiusto del
G.d.p., consistente in una condotta della causa manifestamente
dilatoria».

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
Sull’interpretazione del riferimento a Carini quale “zona in odore di mafia”,
operato due volte nello scritto a firma dell’imputato, il Tribunale di Caltanissetta
offre una motivazione congrua e certamente immune dai vizi lamentati:
nell’esposto, infatti, venivano stigmatizzate le modalità di gestione del processo
(ovviamente, da parte di chi era demandato a condurlo secondo le regole del
codice di rito) subito dopo il primo di quei richiami, ribadendo poi lo stesso
riferimento all’atto della richiesta alle autorità in indirizzo di assumere
provvedimenti nei confronti del Giudice di pace di Carini.
Più in particolare, dopo avere affermato che il processo era pervenuto
dinanzi a quell’ufficio (in una “zona riconosciuta in odor di mafia”, con tanto di
punto esclamativo), l’Avv. Silvio Forti segnalava che dal momento della
costituzione di parte civile vi era stata “una serie infinita di richieste pretestuose
di rinvii”; infine, l’esponente sollecitava chi di dovere ad accertare i motivi di

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i

quelle incomprensibili lungaggini e ad ordinare “al Giudice di pace di Carini (si
ripete, zona in odor di mafia) di fissare senza ulteriore indugio la data
dell’udienza ed in subordine che detto processo venga trasferito alla competenza
del G.d.p. di Palermo”. Entrambi i riferimenti, dunque, risultavano
strettamente connessi alla stigmatizzazione del ritardo nella gestione e
definizione del processo, tanto da evocarli immediatamente come indicativi di
una causa incidente sul ritardo de quo.
Il rilievo, come correttamente segnalato dal Tribunale, appare tanto più

ingiustificati. Dall’esame degli atti, che deve intendersi consentito a questa
Corte avendo il ricorrente lamentato un sostanziale travisamento (circa la qualità
di difensore dell’Agate, che sarebbe stato doveroso riconoscere all’imputato)
emerge infatti la seguente scansione:
l’udienza del 25/06/2009, alla quale l’Agate non viene indicato presente
(né vi sono verbalizzazioni di sorta circa la presenza di suoi difensori), fu
rinviata per impedimento del magistrato, del quale non viene esplicitata
la ragione;
all’udienza del 09/07/2009, presenti l’Agate e il suo difensore Avv.
Vincenzo Forti, intervenne la costituzione di parte civile, a ministero di
quest’ultimo legale;
il 28/01/2010, in assenza della parte civile e del suo difensore, il Giudice
di pace dichiarò di aderire ad una astensione di categoria;
l’udienza dell’08/04/2010, alla presenza dell’Agate e dell’Avv. Vincenzo
Forti, si svolse con la trattazione di varie questioni, ivi comprese le
richieste istruttorie ed il relativo provvedimento di ammissione, quindi con
l’esame dell’Agate e di un altro teste;
il 21/10/2010, presente l’Avv. Vincenzo Forti ma non il suo assistito, si
procedette all’escussione di altri testimoni;
l’udienza del 26/05/2011, in assenza dell’Agate e del suo patrocinatore,
venne rinviata per impedimento di uno degli avvocati della difesa
(documentata da certificato medico);
il 01/12/2011, presenti sia l’Agate che l’Avv. Vincenzo Forti, si diede corso
all’assunzione di ulteriori testimonianze;
il 26/04/2012, infine, l’udienza non si celebrò per un malore della
Dott.ssa Marchetta (alla quale, già ricoverata giorni addietro, venne
diagnosticato “verosimile attacco di panico in paziente non nuova a questi
episodi, da circa 15 gg.”); con provvedimento del 18/05/2012, notificato
all’Avv. Vincenzo Forti il 14/09/2012, si fissò la nuova udienza per il
29/11/2012.

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significativo ove si consideri che non vi era stata affatto una molteplicità di rinvii

Ergo, successivamente alla costituzione di parte civile non vi fu alcuna “serie
infinita” di rinvii “pretestuosi”, né risulta in alcun modo che l’Avv. Silvio Forti sia
stato mai difensore dell’Agate, prima o dopo l’anzidetta costituzione. L’imputato
sostiene che alla prima udienza avrebbe partecipato personalmente ed in tale
veste, ma dal verbale del 25/06/2009 ciò non emerge affatto; né risultano
acquisiti atti di un eventuale, parallelo giudizio civile alla cui prima udienza stando al tenore dei motivi aggiunti, e pure ammettendo che non si tratti di
errore materiale del ricorrente – l’Avv. Silvio Forti avrebbe presenziato in difesa

L’insostenibilità della tesi difensiva, peraltro, appare evidente alla luce dei
motivi aggiunti che lo stesso Avv. Forti presentò anche ai fini del giudizio di
appello (con atto depositato il 07/09/2013); in quella sede, rovesciando la
ricostruzione qui sostenuta secondo cui egli era il primo difensore dell’Agate, poi
sostituito dal figlio per motivi di età e di organizzazione dello studio, scrisse
testualmente: «l’odierno imputato è intervenuto quale difensore dopo l’originario
incarico conferito all’Avv. Vincenzo Forti».
Non vi è dunque spazio alcuno per la ravvisabilità dell’esimente ex art. 598
cod. pen., né può intendersi configurabile una qualsivoglia provocazione: il
presunto stato d’ira non può certo riconnettersi ai rinvii sopra ricordati, per i
quali esisteva obiettiva giustificazione e che non costituivano affatto una
manifestazione di condotte dilatorie, né derivare dalla presa d’atto di una
malattia che affliggeva il giudicante (che peraltro aveva determinato il rinvio di
una sola udienza, contrariamente a quel che rappresenta l’imputato).
Deve poi essere evidenziato che, ancora una volta malgrado la diversa
lettura offerta dal ricorrente, l’assegnazione del processo all’ufficio del Giudice di
pace di Palermo non derivò da rilievi del Presidente del Tribunale, ma dalla
circostanza che – dopo l’astensione della Dott.ssa Marchetta a seguito
dell’esposto – anche l’altro magistrato in servizio presso la sede di Carini aveva
chiesto di essere autorizzato ad astenersi, «rilevando di operare nello stesso
ufficio del Giudice di pace di Carini nei cui confronti l’Avv. Forti manifesta
perplessità perché “zona in odore di mafia”» (come da provvedimento del
04/10/2012, con il quale il fascicolo venne rimesso al Giudice di pace di Palermo
per l’ulteriore corso). Perciò non è possibile affermare, come si legge invece nel
ricorso, che le ragioni di doglianza sulle lungaggini di quel giudizio erano state
«condivise dal Presidente del Tribunale di Palermo, che ha ritenuto di assegnare
la trattazione del processo per lesioni colpose all’omologo ufficio del Giudice di
pace di Palermo, al fine di dare il necessario impulso acceleratorio al processo»:
le “perplessità”, del tutto immotivate, erano solo quelle avanzate dall’Avv. Silvio
Forti, e che mai il Presidente del Tribunale ritenne di fare proprie.

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dell’Agate, quale “attore”.

In altra parte del ricorso, a proposito della censurata decisione del Tribunale
di Caltanissetta di non concedere le circostanze attenuanti generiche, l’imputato
scrive che «come per un lapsus freudiano, il giudice di appello parla di
“perplessità” manifestate dall’Avv. Silvio Forti nei confronti dell’operato della
Marchetta […], smentendo clamorosamente se stesso dopo aver invece ritenuto
che le frasi fossero offensive della onorabilità del predetto giudice di pace e non,
come erano in realtà, un mero esercizio della libertà di pensiero e del diritto di
difesa, e quindi davvero delle semplici “perplessità” non aventi alcuna carica di

parla di perplessità solo per sottolineare che il Presidente del Tribunale di
Palermo non ne aveva manifestate, sulla gestione del processo, limitandosi a
registrare che l’Avv. Forti aveva espresso censure sull’operato della Dott.ssa
Marchetta, ma che nulla autorizzava a ritenere egli avesse condiviso,.
Corrisponde al vero, pertanto, che il ricorrente offrì una interpretazione
fuorviante di quel provvedimento di rassegnazione del processo; inoltre, da un
lato l’Avv. Forti insisté nel rappresentare di non avere mai inteso offendere o
denigrare la persona offesa, ma al contempo continuò a ribadire le espressioni
diffamatorie in rubrica. Il che rende sufficientemente argomentata la negazione
delle circostanze ex art. 62-bis cod. pen., giacché – secondo la giurisprudenza
di questa Corte – «la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini
dell’art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa
dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria
decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e
congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento
per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato»
(Cass., Sez. VI, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi, Rv 242419).
Parimenti insostenibile è infine la tesi difensiva secondo cui sarebbe rimasto
non dimostrato il danno morale subito dalla Dott.ssa Marchetta; è di palese
evidenza come un soggetto ricavi una sofferenza psicologica non solo dalla
condotta di chi gli attribuisca fatti veri, che egli sa di avere colpevolmente
realizzato e dinanzi alla scoperta dei quali provi imbarazzo o dispiacere, ma
soprattutto dal comportamento di chi lo accusi, senza fondamento alcuno, di
colpe mai commesse.

4. Il rigetto del ricorso comporta la condanna dell’imputato al pagamento
delle spese del presente giudizio di legittimità.
Il collegio ritiene comunque doveroso rigettare la domanda della parte civile
per la rifusione delle spese sostenute nel grado: ciò in ragione della manifesta
inammissibilità della richiesta del difensore della Dott.ssa Marchetta di annullare

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offensività». Non è così: nella sentenza impugnata il giudice di secondo grado

con rinvio la sentenza impugnata nella parte in cui risulta avere ridotto
l’ammontare della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno (istanza
formulata nel corpo della “comparsa conclusionale” depositata per l’odierna
udienza, ma senza che la sentenza del Tribunale sia mai stata impugnata in
parte qua).

P. Q. M.

Dichiara compensate tra le parti le spese del grado.

Così deciso il 10/03/2015.

Rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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