Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 26202 del 20/05/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 26202 Anno 2015
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
Huang Yuchan, nato in Cina il 5/8/1955
Zhou Jianhai, nato in Cina il 26/5/1979
Li Xiao, nato in Cina il 10/9/1981
Dai Kejing, nato in Cina il 6/7/1976
Wang Xuanchao, nato in Cina il 17/8/1979
Shu Xiaona, nato in Cina
Li Zhengke, nato in Cina il 5/3/1982
Zang Jian, nato in Cina il 1°/8/1985
Ji Yueqi, nato in Cina

avverso l’ordinanza pronunciata dal Tribunale del riesame di Prato in data
13-18/6/2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Giuseppe Corasaniti, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
sentite le conclusioni del difensore dei ricorrenti, Avv. Stefano Giorgio in
sostituzione dell’Avv. Alessandra Rosati, che ha chiesto l’accoglimento dei ricorsi

Data Udienza: 20/05/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 13-18/6/2014, il Tribunale del riesame di Prato
rigettava il ricorso proposto da Huang Yuchan, Zhou Jianhai, Li Xiao, Dai Kejing,
Wang Xuanchao, Shu Xiaona, Li Zhengke, Zang Jian e Ji Yueqi e, per l’effetto,
confermava il decreto di convalida del sequestro preventivo emesso dal Giudice
per le indagini preliminari presso il locale Tribunale il 29/5/2014; agli stessi era
contestato il delitto di concorso in contrabbando ai sensi dell’art. 292, d.P.R. 23

2. Propongono ricorso per cassazione tutti i predetti, deducendo i seguenti
motivi:
– violazione dell’art. 34, d.P.R. n. 43 del 1973, 70, d.P.R. 26 ottobre 1972,
n. 633. Il Tribunale del riesame avrebbe errato nel considerare l’i.v.a.
all’importazione quale diritto di confine, con ogni conseguenza in termini di
configurabilità del reato;
– violazione dell’art. 34, comma 44, d.l. n. 179 del 2012 e 50-bis, comma 4,
lett. b), d.l. n. 331 del 1993. Il Tribunale avrebbe errato nel negare i presupposti
del deposito i.v.a. nel caso di specie (a muover dalla durata minima), invero
esistenti anche alla luce dell’art. 44, comma 4, d.l. n. 179 del 2012 che ha
fornito un’interpretazione autentica all’art.

50-bis citato, che ha introdotto

l’istituto medesimo;
– violazione degli artt. 477, 479 cod. pen., in relazione all’art. 295, comma
2, d.P.R. n. 43 del 1973. L’avvenuto deposito delle merci, sia pur di breve
durata, escluderebbe l’ipotesi dell’induzione in errore del funzionario doganale e,
pertanto, il reato di cui agli artt. 479 e 477 cod. pen., con l’aggravante citata, in
assenza della quale non è possibile dar luogo alla confisca, giusta art. 12-sexies,
comma 2-ter, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla I. 7
agosto 1992, n. 356;
– violazione dell’art. 12-sexies citato. La norma contempla la confisca per
equivalente anche in materia di contrabbando, a condizione, però, che sussistano
taluni presupposti invero non ravvisabili nel caso di specie (mancata
giustificazione della provenienza della res e valore sproporzionato tra oggetto del
sequestro e reddito dichiarato) e, comunque, non valutati dal Tribunale di Prato;
– l’Huang Yuchan, infine, deduce anche il difetto di motivazione in ordine alla
interferenza tra l’oggetto del sequestro ed il reato contestato, invero non
ravvisabile nel caso di specie.

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gennaio 1973, n. 43.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Osserva preliminarmente questa Corte che, in sede di ricorso per
cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc.
pen. ammette il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla
violazione di legge. Nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in
particolare, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione
meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme

legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla
lett. e) dell’art. 606 stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004,
P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003,
Pellegrino S., Rv. 224611).
4. Ciò premesso, i ricorsi sono infondati.
Osserva preliminarmente il Collegio che – secondo un diffuso orientamento
di legittimità – l’i.v.a. all’importazione può ritenersi diritto di confine, sì da
consentire la configurabilità del delitto di contrabbando contestato alla maggior
parte degli odierni ricorrenti; in particolare, la giurisprudenza di questa Corte ha
più volte affermato che nella contestazione del reato di cui agli artt. 292, 293 e
295, d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 ben può ricomprendersi l’ipotesi di evasione
dell’i.v.a. all’importazione, da intendersi quale diritto di confine poiché avente
natura di imposta di consumo a favore dello Stato, la cui imposizione e
riscossione spetta esclusivamente alla dogana in occasione della relativa
operazione di imputazione

(ex plurimis, Sez. 3, n. 9634 del 19/12/2014,

Cetoloni, non massimata; Sez. 3, n. 44916 del 23/4/2014, Bonsignore, non
massimata; Sez. 3, n. 24525 del 27/2/2013, Zhang, Rv. 256422; Sez. 3, n.
5870 del 27/1/2011, Dong, Rv. 249538).
Ciò premesso, e pur nella consapevolezza di un difforme indirizzo anche
all’interno di questa Corte, si rileva comunque che nel caso di specie, come
correttamente affermato dall’ordinanza impugnata, la contestazione mossa ai
ricorrenti indagati – associazione per delinquere finalizzata a plurime violazioni
tributarie e fiscali, oltre a reati fine – si concentra prevalentemente su altro e
diverso profilo, quale l’uso illecito dell’istituto del deposito i.v.a. che sarebbe
stato compiuto in plurime occasioni; in particolare, sarebbero state eseguite
svariate importazioni di rilevanti quantità di merci dalla Cina (rotoli di tessuto)
usufruendo proprio dell’istituto di cui all’art. 50-bis, d.l. 30 agosto 1993, n. 331,
convertito, con modificazioni, dalla I. 29 ottobre 1993, n. 427 (ovvero della
facoltà di non assoggettare al pagamento dell’i.v.a. la merce al momento della
dichiarazione doganale di importazione e di corrisponderla, invece, all’atto della

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processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di

successiva vendita), facendo figurare la merce come importata e introdotta (per
l’appunto, in regime di deposito i.v.a.) a favore di diverse società (Fashion 99
s.n.c., Arcobaleno Tex s.r.I., Will Import Export, Inday s.r.l. ed altre), salvo poi
disporne l’estrazione immediata – o in data estremamente vicina – ed il
trasporto dalla dogana a magazzini nella disponibilità di altri indagati, sì
realizzando indebitamente la definitiva importazione e messa in commercio del
prodotto, sovente ceduto in nero ed a favore di ditte compiacenti, senza
corrispondere l’i.v.a. dovuta.

tutt’altro che apparente.
In particolare, il provvedimento ha evidenziato il fumus dell’uso illecito del
deposito i.v.a., «sia perché è emersa l’inesistenza del soggetto giuridico
importatore e sia per la mancanza dei requisiti formali per il legittimo utilizzo del
deposito fiscale». Con maggior precisione, l’ordinanza – in ciò totalmente
disattesa da tutti i ricorsi, al pari delle più che diffuse argomentazioni di cui al
provvedimento genetico, che all’altra si lega in un continuum motivazionale – ha
sottolineato che le numerose sommarie informazioni testimoniali assunte, le
conversazioni telefoniche e gli accertamenti della Guardia di Finanza avevano
consentito di delineare un contesto in forza del quale la merce era immessa in
regime di deposito i.v.a. a favore di società o ditte di comodo che «appaiono
inesistenti (in quanto mancanti di effettiva sede legale o di depositi adeguati) e
che venivano intestate fittiziamente a soggetti prestanome, a carico delle quali
veniva fittiziamente disposta l’importazione e facendo figurare le stesse quali
proprietarie e destinatarie della merce», che veniva immediatamente dopo
estratta dal deposito e trasportata alle società effettive destinatarie, senza
emissione di fattura (o con fattura successivamente distrutta), e ciò al fine di
non versare l’imposta dovuta al momento dell’estrazione della merce dal
deposito e successiva immissione in commercio nel territorio nazionale. Dal che,
la conclusione – motivata e logica, in forza delle indagini in atti – secondo cui le
operazioni in oggetto risultavano, in definitiva, vere e proprie importazioni
definitive senza versamento dell’i.v.a., atteso l’uso fraudolento dell’istituto di cui
al citato art. 50-bis, di. n. 331 del 1993.
In tal modo, dunque, il provvedimento ha fatto buon governo dell’indirizzo
per cui il delitto di contrabbando ben può realizzarsi anche illecitamente
profittando del meccanismo di autofatturazione in oggetto. Con l’effetto che
«erronea è l’interpretazione prospettata per negarne la configurabilità nel caso in
cui, appunto, la merce sia stata introdotta in un deposito I:v.a. in libera pratica e
poi estratta da questo con l’autofatturazione» (in tal senso, Sez. 3, n. 24525 del
27/2/2013, cit.). Ai sensi del citato di. n. 331 del 1993, infatti, i beni

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Orbene, al riguardo la motivazione dell’ordinanza risulta adeguata, logica e

extracomunitari possono essere introdotti in questo speciale deposito fiscale,
denominato “deposito I.v.a.”, previa immissione in libera pratica, così
conseguendo la posizione doganale di bene comunitario (art. 79 Codice Doganale
Comunitario): essi pertanto sono esentati dal pagamento dell’I.v.a. alla dogana,
ma quello che si effettua è comunque un atto di importazione, presupposto per
la configurabilità del reato di contrabbando (cfr. Cass. civ. sez. 5, 19 maggio
2010 n. 12263). L’esenzione dall’i.v.a. quale diritto di confine, poi, è correlata
alla dichiarazione dell’importatore sulla destinazione del bene: sulla bolletta

pratica sono destinati ad essere introdotti in un deposito i.v.a.. Vero è che,
esaurendosi l’operazione doganale al momento della importazione dei beni così
effettuata, l’estrazione dal deposito – se i beni sono destinati a un’operazione
interna e quindi autofatturati ex d.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, comma 3 conduce al pagamento dell’i.v.a. nazionale (l’autofatturazione delle merci uscite
da un deposito è, in realtà, un’operazione neutra di compensazione dell’i.v.a.
nazionale a debito con quella a credito, e quindi non una vera e propria
operazione di pagamento del tributo: in tal senso la già citata Cass. civ. sez. 5,
19 maggio 2010 n. 12263); ma altrettanto vero è – nell’ottica del fumus del
reato di contrabbando e dell’associazione per delinquere che lo sostiene – che,
nel caso di specie, l’ordinanza ha evidenziato che la merce era risultata
importata da società solo apparentemente esistenti, inserita nel deposito i.v.a. a
fini fiscali e, quindi, dallo stesso subito prelevata e spedita a società intestate a
meri prestanomi, sovente in nero, con conseguente evasione del diritto di
confine. Ed è proprio a questo utilizzo illecito del meccanismo dell’importazione
in libera pratica in deposito i.v.a. che – con una motivazione chiara e dettagliata
– si riferisce l’ordinanza impugnata laddove ha affermato che, di fatto, il ricorso
al regime doganale in esame è stato preordinato al fine di introdurre sul
territorio dello Stato merce senza l’immediato pagamento del diritto di confine.
Emergenze investigative, quelle appena richiamate, che risultano quindi
adeguatamente elaborate a sostegno della conferma della misura; emergenze,
ancora, sulle quali – coma già accennato – i ricorsi non spendono alcuna
considerazione; dal che l’infondatezza delle doglianze tutte.
E senza che, pertanto, possa risultare rilevante il riferimento, contenuto in
uno dei ricorsi, all’art. 34, comma 44, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito,
con modificazioni, dalla I. 17 dicembre 2012, n. 221, nell’ottica della mancata
individuazione di un termine minimo di durata del deposito: ed invero, il
meccanismo illecito delineato dall’ordinanza costituisce – di per sé – adeguata
struttura motivazionale quanto al fumus del delitto di contrabbando, che,
pertanto, ben può esser riconosciuto in questa fase cautelare – come da

doganale di importazione, infatti, deve essere indicato che i beni messi in libera

argomento della Corte – pur a fronte di un deposito temporalmente molto
contenuto. Quel che parimenti consente, da ultimo, di superare anche il motivo
relativo alla presunta violazione dell’art. 12-sexies, d.l. n. 306 del 1992, atteso il
carattere comunque obbligatorio della confisca in esame, attesa la natura dei
reati contestati, come affermato nell’impugnata ordinanza.
I ricorsi, pertanto, debbono essere rigettati, ed i ricorrenti condannati al
pagamento delle spese processuali.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, il 20 maggio 2015

I Consigliere estensore

Il Presidente

P.Q.M.

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