Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 26180 del 13/05/2015


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 3 Num. 26180 Anno 2015
Presidente: FRANCO AMEDEO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Romaniello Nicola, nato a Vietri di Potenza (Pz) il 23/12/1974

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Salerno in data
13/5/2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Paolo Canevelli, che ha chiesto dichiarare inammissibile il
ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 13/5/2014, la Corte di appello di Salerno riduceva la
pena inflitta dal locale Tribunale il 24/10/2012 nei confronti di Nicola Romaniello,
determinandola in tre mesi di reclusione e 300,00 euro di multa; allo stesso era
ascritto il reato di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 2, comma

1-bis, d.l. 12

settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla I. 11 novembre
1983, n. 638, per aver omesso – nella qualità di legale rappresentante della

Data Udienza: 13/05/2015

”Roman Gest” – di versare all’Inps le ritenute assistenziali e previdenziali operate
sulle retribuzioni dei dipendenti in varie mensilità degli anni 2007 e 2008, per
l’ammontare di 7.968,00 euro.
2. Propone ricorso per cassazione il Romaniello, a mezzo del proprio
difensore, deducendo cinque motivi:
– violazione dell’art. 2, comma

1-bis,

cit., per mancata notifica

dell’accertamento effettuato dall’Inps. La Corte di appello avrebbe omesso di
rilevare che la notifica in oggetto non poteva ritenersi regolare, in quanto

illeggibile;
– violazione della medesima disposizione per insussistenza degli elementi
costitutivi del reato. La sentenza avrebbe confermato la condanna del Romaniello
pur non essendovi prova che lo stesso avesse erogato le retribuzioni ai
dipendenti, nei mesi di cui alla contestazione;
– violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., mancata acquisizione d’ufficio di
prove necessarie ai fini della decisione. La Corte di merito avrebbe errato nel
ritenere sufficiente, ai fini della condanna, la presentazione dei modelli DM10 da
parte del ricorrente, senza valutare che, in realtà, le retribuzioni non erano state
versate; quel che, peraltro, sarebbe confermato dalle vertenze sindacali in atto,
ed ancor più sarebbe stato provato qualora il Giudice avesse acquisito le richieste
di conciliazione formulate ex art. 410 cod. proc. civ.. La Corte, ancora, non
avrebbe tenuto in conto l’avvenuto fallimento della società, quale espressione di
una causa di giustificazione;
– violazione degli artt. 45, 47 e 59 cod. pen.; mancanza, insufficienza e
manifesta illogicità della motivazione. La sentenza non avrebbe valutato che
l’omissione del Romaniello era stata determinata da forza maggiore, quale la
crisi aziendale che aveva colpito l’ente. Sì che la condotta sarebbe stata
determinata da errore e, soprattutto, risulterebbe sprovvista del dolo necessario,
non essendo sostenuta dall’intenzione di perseverare nella condotta criminosa;
– violazione dell’at. 133 cod. pen.. La Corte di merito avrebbe irrogato una
pena eccessiva ed estranea ai criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, osserva la Corte che lo stesso non è stato
dedotto in sede di appello e, come tale, non può esser sollevato per la prima
volta innanzi a questa Corte; occorre confermare, pertanto, il costante indirizzo
interpretativo in forza del quale non possono essere proposte con il ricorso per

2

recante – come da deposizione del funzionario dell’istituto medesimo – firma

cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso
di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione (per tutte, Sez. 5, n.
28514 del 23/4/2013, Grazioli Gauthier, Rv. 255577).
4. In ordine, poi, alle successive doglianze, ritiene il Collegio che la seconda,
terza e quarta possano essere valutate congiuntamente, attesane la sostanziale
identità di ratio.
Sul punto, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della

restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella,
n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa
Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art.
606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di
spessore tale da risultare percepibile ictu ()culi;

ciò in quanto l’indagine di

legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto,
dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa
volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione
alle acquisizioni processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv.
226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla
ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato
alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono
insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo
hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il
giudizio della Suprema Corte, le censure che il ricorrente muove al
provvedimento impugnato si evidenziano come manifestamente infondate; ed
invero, dietro la parvenza di una violazione di legge o di un vizio motivazionale, il
Romaniello di fatto invoca al Collegio una nuova e diversa valutazione delle
medesime risultanze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito (in
particolare, lo stato di grave difficoltà che aveva colpito la “Roman Gest”, fino al

3

decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo,

fallimento; l’omesso pagamento delle retribuzioni; le conseguenti vertenze
sindacali), sollecitandone una lettura più favorevole.
Il che, come riportato, non è consentito in questa sede.
Le doglianze in esame, peraltro, obliterano del tutto la motivazione stesa
dalla Corte di appello proprio con riguardo alle medesime questioni, la quale si
apprezza per coerenza, logicità ed assenza di qualsivoglia vizio di natura
argomentativa. In particolare, la sentenza ha evidenziato 1) che, nei mesi di
interesse, il Romaniello aveva presentato i modelli DM10, attestanti l’avvenuto

citate vertenze con i lavoratori non indicava le ragioni del contrasto, riconducibile
quindi anche a questioni diverse da quelle propriamente retributive; 3) che la
dichiarazione di fallimento non poteva aver alcun effetto scriminante, non
avendo l’imputato mai sollecitato il curatore al pagamento delle somme dovute
all’Inps.
Orbene, così motivando la Corte ha fatto buon governo del principio costantemente affermato in questa sede di legittimità – in forza del quale l’onere
incombente sul pubblico ministero di dimostrare l’avvenuta corresponsione delle
retribuzioni ai lavoratori dipendenti è assolto con la produzione del modello DM
10, che ha natura ricognitiva della situazione debitoria del datore di lavoro; con
l’effetto che la sua compilazione e presentazione equivale all’attestazione all’ente
di aver corrisposto le retribuzioni in relazione alle quali non sono stati versati i
contributi (Sez. 3, n. 37145 del 10/4/2013, Deiana, Rv. 256957; Sez. 3, n.
46451 del 7/10/2009, Carella, Rv. 245619). Ne deriva, ulteriormente, che grava
poi sull’imputato il compito di provare, in difformità dalla situazione
rappresentata nelle denunce retributive inoltrate, l’assenza del materiale esborso
delle somme (Sez. 3, n. 7772 del 5/12/2013, Di Gianvito, Rv. 258851; Sez. 3, n.
32848 dell’8/7/2005, Smedile, Rv. 232393); prova, quest’ultima, che deve
possedere un’intrinseca forza persuasiva, non potendosi certo esaurire nella
mera negazione di aver retribuito i dipendenti nei mesi di interesse, come da
ricorso in esame. E per tacer, comunque, del costante indirizzo per cui il reato in
oggetto si configura anche nel caso in cui il datore di lavoro abbia omesso i
versamenti al fine di privilegiare la corresponsione delle retribuzioni ai lavoratori,
atteso che la carenza di mezzi finanziari, dalla quale derivi non l’impossibilità
materiale di corrispondere le retribuzioni (invero avvenuta) ma solo quella di
versare i citati contributi, non influisce sulla struttura oggettiva del reato (per
tutte, Sez. 3, n. 3042 del 25/10/2002, Falcicchio, Rv. 223288).
5. Da ultimo, il motivo in tema di trattamento sanzionatorio.
Osserva la Corte che la sentenza – nel ridurre la pena da cinque mesi di
reclusione e 500,00 euro di multa a tre mesi di reclusione e 300,00 euro di multa

4

pagamento delle retribuzioni; 2) che la documentazione prodotta in ordine alle

- ha richiamato i parametri di cui all’art. 133 cod. pen., tali da consentire un
trattamento definito congruo; orbene, malgrado la sintesi, trattasi di un
argomento sufficiente, atteso che – come da costante giurisprudenza di questa
Corte – nel caso in cui venga irrogata una pena prossima al minimo edittale
(come nel caso di specie, atteso che il massimo è indicato in tre anni di
reclusione), l’obbligo di motivazione del Giudice si attenua, talché è sufficiente il
richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli
elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (per tutte, Sez. 2, n. 28852 dell’8/5/2013,

Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 13 maggio 2015

Il onsigliere estensore

Il Presidente

Taurasi, Rv. 256464).

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA