Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 25946 del 19/05/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 25946 Anno 2015
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: CARCANO DOMENICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
VITALE ANTONIO GIA’ INTRAVAIA ANTONIO N. IL 09/11/1981
avverso la sentenza n. 2997/2014 CORTE APPELLO di PALERMO,
del 03/12/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 19/05/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. DOMENICO CARCANO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. AQ.L0
che ha concluso per 1

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Udito, per la pa civile, l’Avv
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Data Udienza: 19/05/2015

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Ritenuto in fatto
1. La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 28 febbraio 2013, ebbe a ridurre la
pena inflitta ad Antonio Vitale dal giudice di primo grado a due anni di reclusione e 300 euro di
multa per il delitto di tentata estorsione aggravata, previa concessione delle attenuanti
generiche e senza però riconoscere la sospensione condizionale perché l’imputato ne aveva
già usufruito.
Su ricorso dell’imputato, la Corte di cassazione, con sentenza del 23 aprile 2014, ha

febbraio 2013, rinviando ad altra sezione della Corte d’appello, limitatamente alle statuizioni
riguardanti il diniego della sospensione condizionale della pena, rilevando che Antonio Vitale
dal certificato penale agli atti, datato 27 febbraio 2013, risultava incensurato.
Con sentenza 3 dicembre 2014, la Corte d’appello di Palermo, quale giudice di rinvio a
seguito di annullamento della Corte di cassazione limitatamente alla mancata applicazione
della sospensione condizionale della pena, riconferma il diniego della sospensione in ragione
della gravità del fatto commesso e, dunque, per motivi diversi da quelli indicati nella sentenza
della Corte d’appello 28 febbraio 2013.
In realtà, Antonio Vitale nel 2004 – epoca in cui era stato condannato per il reato,
commesso il 21 giugno 2000, di violazione delle nuove norme in materia di obiezione di
coscienza previsto dall’art.14 legge n.230 del 1998 – portava ancora il cognome della madre,
Intravaia, in quanto solo nel 2010 fu riconosciuto dal padre Michele Vitale, e ne ha acquisito il
cognome.
La Corte di merito rileva che – come più volte affermato dalla giurisprudenza di
legittimità – la sospensione della chiamata obbligatoria alla leva, introdotta con legge n. 331
del 2000 e successive integrazioni, non ha abolito il servizio di leva militare obbligatoria, bensì
ne ha limitato l’operatività’ a specifiche situazioni e a casi eccezionali e ciò comporta che il
reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza non è stato abrogato, ma è stato
modificato il contenuto del precetto penale.
Si precisa ancora nella sentenza impugnata che, nonostante tale precedente condanna,
ad Antonio Vitale avrebbe potuto essere in astratto applicata la sospensione condizionale,
poiché la pena detentiva in precedenza inflitta è stata sostituita con quella pecuniaria e,
dunque – in applicazione degli artt. 163, comma primo, e 164 ultimo comma – la sospensione
condizionale della pena avrebbe potuto essere applicata sempre che subordinata agli obblighi
previsti dall’art.165 c.p..
In conclusione, la Corte d’appello rileva che non è il precedente in parola a impedire la
sospensione condizionale della pena, bensì la gravità del reato commesso con modalità
mafiose, tenuto conto che Antonio Vitale ebbe a minacciare la vittima del reato, facendo

annullato, limitatamente al diniego della sospensione condizionale della pena, la sentenza 28

2
riferimento ai suoi collegamenti con personaggi mafiosi e, in particolare al padre Michele e ad
altri affiliati al sodalizio criminoso, autori di numerosi omicidi.
2.La difesa di Antonio Vitale deduce:
2.1. La violazione di legge in relazione agli artt. 597 comma 3 e 627 c.p.p.
La difesa rileva che la Corte d’appello, escludendo che il precedente sia ostativo alla
concessione, ritiene di negare il beneficio della sospensione condizionale della pena in base alla

In tal modo, il giudice di rinvio non si è uniformato al principio di diritto indicato nella
sentenza di annullamento con rinvio, in tal modo violando l’art.627 c.p.p..
Tra l’altro, rileva la difesa che la modifica in peius operata dal giudice del rinvio
renderebbe tale sentenza – in quanto collegata esclusivamente a diverse giustificazioni rispetto
a quelle della sentenza di primo grado – non impugnabile per violazione dell’art. art.627 c.p.p.
atteso che la motivazione non è censurabile in sede dì legittimità.
Considerato in diritto
1.11 ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
In realtà, la sentenza di annullamento della Corte di cassazione non ha affermato una

quaestio iuris cui il giudice del rinvio avrebbe dovuto attenersi, bensì ha posto in rilievo che – in
un nuovo giudizio di merito e sul presupposto che l’imputato risultava essere incensurato
come da certificato penale in atti – avrebbe potuto essere applicata la sospensione condizionale
della pena ovvero ne avrebbe dovuto essere giustificato il diniego.
Il giudice del rinvio ha dapprima chiarito le ragioni per le quali il certificato penale
esaminato dalla Corte non riportava il precedente per il quale vi era stata condanna e ha poi
giustificato i motivi per i quali, anche se il precedente non costìtuisse ostacolo giuridico alla
misura de qua, la sospensione condizionale non era da applicare.
La sentenza impugnata rispetta il perimetro tracciato dall’art. 627 c. p. p. e dal dovere di
rispetto del divieto di reformatio in peius: il giudice del rinvio può giungere allo stesso risultato
decisorio della pronuncia annullata poiché egli conserva gli stessi poteri che gli competevano
originariamente quale giudice di merito relativamente all’individuazione e alla valutazione dei
dati processuali, nell’ambito del capo della sentenza oggetto di annullamento
In conclusione, il giudice di rinvio è vincolato a sviluppare gli argomenti che la Corte di
cassazione ha ritenuto mancanti e, nel nostro caso, la Corte d’appello, cui all’esito
dell’annullamento è stata rinviata la decisione, ha giustificato le ragioni del diniego della
sospensione condizionale della pena.
Come già esposto in narrativa, la Corte d’appello – dopo avere esposto le ragioni per le
quali la precedente condanna, erroneamente non riportata nel certificato pj 1 le, non avrebbe

gravità del reato per il quale vi è stata condanna.

in ogni caso impedito la sospensione condizionale della pena – ha chiarito che il reale ostacolo
a una prognosi favorevole erano le modalità della condotta: in particolare, la gravità del reato
commesso con modalità mafiose, tenuto conto che Antonio Vitale ebbe a minacciare la vittima
del reato, facendo riferimento ai suoi collegamenti con personaggi mafiosi e, in particolare al
padre Michele e ad altri affiliati al sodalizio criminoso, autori di numerosi omicidi.
In conclusione, a fronte di una indiscutibile correttezza della sentenza pronunciata dal
giudice di rinvio, le censure del ricorrente si caratterizzano per un’evidente manifesta

2. Il ricorso è, dunque, inammissibile e, a norma dell’art.616 c.p.p, il ricorrente va
condannato, oltre che al pagamento delle spese del procedimento, anche a versare una
somma, che si ritiene equo determinare in euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende,
non ricorrendo le condizioni richieste dalla sentenza della Corte costituzionale 13 giugno 2000,
n.186.
P.Q.M
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
e a quello della somma di euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, 19 maggio 2015
Il Presidente

infondatezza.

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