Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 25738 del 20/03/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 25738 Anno 2015
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: BELTRANI SERGIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ALBINI CLAUDIO N. IL 27/06/1965
PASQUINI MAIRA N. IL 14/04/1959
CORTESI PIERLUIGI N. IL 06/12/1968
MISTRI EDGARDO N. IL 05/10/1949
avverso la sentenza n. 8141/2012 CORTE APPELLO di BOLOGNA,
del 10/06/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/03/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. SERGIO BELTRANI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Og oct etkV1120
che ha concluso per
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Data Udienza: 20/03/2015

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RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Ferrara, con sentenza emessa in data 5 marzo 2011 aveva, per quanto
in questa sede rileva:
dichiarato CLAUDIO ALBINI, in atti generalizzato, colpevole di tutti i reati ascrittigli,
unificati dal vincolo della continuazione, esclusa la contestata recidiva;
dichiarato PIERLUIGI CORTESI, in atti generalizzato, colpevole del reato continuato di

cui al capo B);
dichiarato EDGARDO MISTRI, in atti generalizzato, colpevole del reato continuato di
cui al capo B);
dichiarato MAIRA PASQUINI, in atti generalizzata, colpevole di tutti i reati ascrittile,
unificati dal vincolo della continuazione,
condannando ciascuno alla pena ritenuta di giustizia, con le statuizioni civili in favore
delle parti civili costituite e le statuizioni accessorie.

2. A seguito di appelli ammissibili dei soli imputati (quello del PM territoriale era dichiarato
inammissibile perché tardivo), la Corte di appello di Bologna, con la sentenza indicata in
epigrafe, in dispositivo ha:
– dichiarato non doversi procedere nei confronti di MISTRI EDGARDO perché i reati
ascrittigli sono estinti per morte dell’imputato, con conseguente revoca delle statuizioni civili
pronunciate nei suoi confronti in primo grado;
– dichiarato non doversi procedere nei confronti degli altri tre coimputati in ordine alle
condotte di truffa commesse in data anteriore al

10 ottobre 2006 per intervenuta

prescrizione;

confermato nel resto la sentenza di primo grado quanto alle affermazioni di

responsabilità;

– rideterminato le pene nei confronti dell’ALBINI, del CORTESI e della PASQUINI;
– confermato le statuizioni civili e disposto le statuizioni accessorie del grado.

3. Secondo l’ipotesi accusatoria, confermata dai giudici del merito, gli imputati ALBINI
(promotore immobiliare) e PASQUINI (sua assistente), unitamente ad altri soggetti
separatamente giudicati, si sarebbero associati per commettere un numero indeterminato di
truffe (alla cui commissione avevano partecipato anche il CORTESI – direttore di filiale
dell’istituto bancario truffato – ed il MISTRI – geometra incaricato delle stime peritali -)
1

perpetrate facendo stipulare mutui fondiari a prestanomi, ed ottenendone l’erogazione grazie
alla produzione di documenti falsi, con danno per l’istituto erogante BIPOP CA.RI.RE . di
Bologna.
4. Contro tale provvedimento, gli imputati hanno proposto separati ricorsi per cassazione,
deducendo i motivi che saranno, imputato per imputato, in seguito enunciati, nei limiti
strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att.

5. All’odierna udienza pubblica, è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito (deve, in
proposito, rilevarsi che il difensore di fiducia dell’imputato ALBINI, dopo la ricezione
dell’avviso di rito, ha ritualmente rinunziato al mandato; il difensore di ufficio, pur avendo,
nella memoria difensiva con motivi aggiunti depositata in data 4 marzo 2015, dedotto il
mancato rispetto del termine per comparire fissato dall’art. 610, comma 5, c.p.p., nell’odierna
udienza nulla ha dedotto in proposito, ritualmente discutendo e concludendo come precisato
in epigrafe, e, pertanto, esercitando in toto i diritti di difesa cui il predetto avviso è
finalizzato); all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, e questa Corte
Suprema, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato
mediante lettura in pubblica udienza.

6. Tutti i ricorsi sono inammissibili.

I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITA’ SULLA MOTIVAZIONE
7.

E’ necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimità sulla

motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per cassazione, delineati dall’art. 606,
comma 1, lettera e), c.p.p., come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46
del 2006, che, a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la
possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo
della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai
giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle
considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo convincimento.

7.1. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto
ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. «travisamento della

prova» (consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della
valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od
omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a
critica), purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende
essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in
considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca

c.p.p.

da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame
parcellizzato.
Permane, al contrario, la non deducibilità, nel giudizio di legittimità, del

travisamento

del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria
valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez.
VI, sentenza n. 25255 del 14 febbraio 2012, CED Cass. n. 253099).

lett. e), c.p.p. intenda far valere il vizio di «travisamento della prova>> deve, a pena di
inammissibilità (Cass. pen., Sez. I, sentenza n. 20344 del 18 maggio 2006, CED Cass. n.
234115; Sez. VI, sentenza n. 45036 del 2 dicembre 2010, CED Cass. n. 249035):

(a) identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la doglianza;
(b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che
risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;
(c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché
dell’effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori
ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e compromette, in modo
decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale
“incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.

7.2.

La mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione, come vizi

denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili ictu

ocull, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica
evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni

7.1.1. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’art. 606, comma 1,

difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la
decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del
convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere
tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte, Sez. un., sentenza n. 24 del 24
novembre 1999, CED Cass. n. 214794; Sez. un., sentenza n. 12 del 31 maggio 2000, CED
Cass. n. 216260; Sez. un., sentenza n. 47289 del 24 settembre 2003, CED Cass. n. 226074).
Devono tuttora escludersi la possibilità, per il giudice di legittimità, di

<>, ma solo qualora la difformità della realtà storica sia evidente, manifesta,
apprezzabile ictu °cui/ ed assuma anche carattere decisivo in una valutazione globale di tutti
gli elementi probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non è
sindacabile in sede di legittimità se non manifestamente illogico e, quindi, anche
contraddittorio).

7.3. Non è denunciabile il vizio di motivazione con riferimento a questioni di diritto.
7.3.1. Invero, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez.
sentenze n. 3706 del 21. – 27 gennaio 2009, CED Cass. n. 242634, e n. 19696 del 20 – 25
maggio 2010, CED Cass. n. 247123), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez.
IV, sentenza n. 6243 del 7 marzo – 24 maggio 1988, CED Cass. n. 178442), il vizio di
motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni di
fatto e non anche di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o
contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non
può sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia
giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la sorreggano.
E, d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di
una questione giuridica, non dall’eventuale erroneità degli argomenti posti a fondamento
giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione (Sez. IV, sentenza n.
4173 del 22 febbraio – 13 aprile 1994, CED Cass. n. 197993).

Cass. n. 234622; Sez. III, sentenza n. 39729 del 18 giugno 2009, CED Cass. n. 244623; Sez.

Va, pertanto, ribadito il seguente principio di diritto:

«nel giudizio di legittimità il vizio di motivazione non è denunciabile con riferimento alle
questioni di diritto decise dal giudice di merito, allorquando la soluzione di esse sia
giuridicamente corretta. D’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere soltanto
dall’errata soluzione delle suddette questioni, non dall’indicazione di ragioni errate a sostegno
di una soluzione comunque giuridicamente corretta).

7.4. E’ anche inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p.,
anche se in relazione agli artt. 125, 530, 533 e 546, comma 1, lett. e), c.p.p., per censurare
l’omessa od erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile, in una
prospettiva atomistica ed indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro
istruttorio, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati
specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono essere superati
ricorrendo al motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., nella parte in cui consente di
dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena dì nullità (Cass. pen., Sez.
VI, sentenza n. 45249 dell’8 novembre 2012, CED Cass. n. 254274).

7.5.

La giurisprudenza di questa Corte è, condivisibilmente, orientata nel senso

dell’inammissibilità, per difetto di specificità, del ricorso presentato prospettando vizi di
motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o
alternativa (Sez. VI, sentenza n. 32227 del 16 luglio 2010, CED Cass. n. 248037: nella
fattispecie il ricorrente aveva lamentato la “mancanza e/o insufficienza e/o illogicità della
motivazione” in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze
cautelari posti a fondamento di un’ordinanza applicativa di misura cautelare personale; Sez.
VI, sentenza n. 800 del 6 dicembre 2011 – 12 gennaio 2012, Bidognetti ed altri, CED Cass. n.
251528).
Invero, l’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili
per «mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio

risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente
indicati nei motivi di gravame».
La disposizione, se letta in combinazione con l’art. 581, comma 1, lett. c), c.p.p. (a norma
del quale è onere del ricorrente «enunciare i motivi del ricorso, con l’indicazione specifica

delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta») evidenzia
che non può ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso,
essendo onere del ricorrente di specificare con precisione se la deduzione di vizio di
motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero

5

a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della
motivazione censurata.
Il principio è stato più recentemente accolto anche da questa sezione, a parere della quale

«È inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso nel quale siano prospettati vizi di
motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o
alternativa, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se le censure siano riferite
alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a più di uno tra tali

vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione oggetto di
gravame>> (Sez. II, sentenza n. 31811 dell’8 maggio 2012, CED Cass. n. 254329).
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità, il che rende il
ricorso inammissibile.
7.6. Infine, secondo altro consolidato e condivisibile orientamento di questa Corte (per
tutte, Sez. IV, sentenza n. 15497 del 22 febbraio – 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693;
Sez. VI, sentenza n. 34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), è
inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga pedissequamente le censure
dedotte come motivi di appello (al più con l’aggiunta di frasi incidentali contenenti
contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza
impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle
quali í motivi di appello non siano stati accolti.
7.6.1. Si è, infatti, esattamente osservato (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21
febbraio 2013, CED Cass. n. 254584) che «La funzione tipica dell’impugnazione è quella

della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si
realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591
c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che
sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione è, pertanto,
innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione delle
ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del
provvedimento il cui dispositivo si contesta).

7.6.2. Il motivo di ricorso in cassazione è caratterizzato da una “duplice specificità”:

«Deve essere sì anch’esso conforme all’art. 581 c.p.p., lett. C (e quindi contenere
l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta
presentata al giudice dell’impugnazione); ma quando “attacca” le ragioni che sorreggono la
decisione deve, altresì, contemporaneamente enudeare in modo specifico il vizio denunciato,
in modo che sia chiaramente sussumibile fra i tre, soli, previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1,

6

lett. e), deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua decisività rispetto al
percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere alla deliberazione impugnata, sì da
condurre a decisione differente» (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio
2013, CED Cass. n. 254584).

7.6.3. Risulta, pertanto, evidente che, <>.

8.4.5. I motivi sono comunque:
– privi di specificità in tutte le loro articolazioni, poiché reiterano, più o meno
pedissequamente, censure già dedotte in appello e già non accolte (Sez. IV, sentenza n.
15497 del 22 febbraio – 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. VI, sentenza n. 34521 del
27 giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133);

meno formalistica e restrittiva».

- in parte (relativamente all’evocato «travisamento del fatto») non deducibili (per le
ragioni indicate nel § 7.1 di queste Considerazioni in diritto);
– ancora generici per difetto di indicazione specifica dei mutui “reali”, dei reati ascrivibili a
collaboratori dell’imputato e delle risultanze dalle quali ciò sarebbe analiticamente desumibile,
delle prove in ipotesi travisate in relazione ai sopra menzionati passaggi di denaro
(travisamenti peraltro solo enunciati, ma non documentati nei modi che si è visto essere di
rito: cfr. § 7.1.1 di queste Considerazioni in diritto);

la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e
non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha motivato
l’affermazione di responsabilità, valorizzando (f. 3 ss. della motivazione, redatta senza
indicazione dei progressivi numeri di pagina) i raggiri ed artifici consistiti nella creazione
dell’apparenza di garanzie in realtà inesistenti od inferiori – evocate da documenti
motivatamente ritenuti falsi – consapevolmente posti in essere e risultati decisivi ai fini
dell’induzione all’erogazione dei mutui de quibus, nonché – a fondamento della ritenuta
configurabilità del reato associativo – l’accertata esistenza «di una struttura ben organizzata
ed opportunamente articolata, volta a commettere una serie indeterminata di reati di truffa
utilizzando delle modalità operative ben collaudate», con distribuzione di compiti
tendenzialmente stabili tra gli associati (alcuni dei quali separatamente giudicati). Sulla base
di questi rilievi, si è correttamente concluso che «l’ALBINI è stato il motore del sistema
truffaldino realizzato dagli imputati, il diretto beneficiario delle cospicue somme conseguite ed
il diretto gestore di numerosi rapporti e non si capisce come possa dichiararsi estranei ed
attribuire la responsabilità a qualche collaboratore infedele, che peraltro non menziona»
Con tali argomentazioni il ricorrente in concreto non si confronta adeguatamente,
limitandosi a reiterare le doglianze già sconfessate dalla Corte di appello e riproporre la
propria diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed
indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti.

8.4.6. Deve aggiungersi che, secondo le contestazioni, le truffe ipotizzate avevano natura
di c.d. truffa contrattuale, che, come già chiarito da questa Corte (Sez. II, sentenza n. 18778
del 25 marzo 2014, CED Cass. n. 259964; Sez. fer., sentenza n. 51760 del 3 settembre
2013, CED Cass. n. 258068) ricorre in tutti i casi nei quali l’agente ponga in essere artifici e
raggiri, aventi ad oggetto anche aspetti negoziali collaterali, accessori o esecutivi del
contratto risultati rilevanti al fine della conclusione del negozio giuridico, e per ciò tragga in
inganno il soggetto passivo che è indotto a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe
prestato, a nulla rilevando lo squilibrio oggettivo delle controprestazioni, di tal che l’ingiusto
profitto, con correlativo danno del soggetto passivo, consiste essenzialmente nel fatto
costituito dalla stipulazione del contratto, indipendentemente dallo squilibrio oggettivo delle
rispettive prestazioni.
14

– del tutto assertivi e, comunque, manifestamente infondati, a fronte dei rilievi con i quali

Ciò premesso, nel caso in esame la Corte di appello – anche a prescindere dall’effettività o
meno delle singole compravendite – ha correttamente valorizzato la rilevanza dei documenti
falsi prodotti a corredo delle singole pratiche (essenzialmente quanto all’effettività delle
attività lavorative esercitate dai richiedenti ed al reale valore di mercato degli immobili
oggetto di compravendita, sui quali l’istituto erogante – creditore ipotecario – avrebbe dovuto
rivalersi in caso di inadempimento degli obblighi contrattuali derivanti dai mutui), senza i
quali l’istituto non sarebbe addivenuto alle stipule, o avrebbe potuto negoziare condizioni e

alla commissione delle predette truffe.

8.5. Con il sesto motivo il ricorrente lamenta erronea esclusione delle circostanze
attenuanti generiche ed erronea determinazione della pena inflitta con carenza di
motivazione.

8.5.1. Il motivo è del tutto generico poiché il ricorrente non indica alcun elemento in
ipotesi non considerato o mal considerato; la Corte d’appello, dal canto suo, ha all’uopo
valorizzato la gravità delle condotte accertaste, desunta dalle modalità di esecuzione, dalla
reiterazione, dalla rilevanza dei profitti conseguiti dall’ALBINI e dalla totale assenza di
qualsiasi forma di resipiscenza, in tal modo conformandosi all’orientamento di questa Corte,
per la quale:
– al fine di ritenere od escludere la configurabilità di circostanze attenuanti generiche, il
giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello
che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio: anche un
solo elemento attinente alla personalità del colpevole od all’entità del reato ed alle modalità di
esecuzione di esso può, pertanto, risultare all’uopo sufficiente (così, da ultimo, Sez. II,
sentenza n. 3609 del 18 gennaio – 1° febbraio 2011, CED Cass. n. 249163);
– è da ritenere adempiuto l’obbligo della motivazione in ordine alla misura della pena
allorché sia indicato l’elemento, tra quelli di cui all’art. 133 c.p., ritenuto prevalente e di
dominante rilievo (Sez. un., sentenza n. 5519 del 21 aprile 1979, CED Cass. n. 142252).
Invero, una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, in
tutte le sue componenti, appare necessaria soltanto nel caso in cui la pena sia di gran lunga
superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti risultare sufficienti a dare
conto del corretto impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. espressioni del tipo <
di specificità in tutte le loro articolazioni (reiterando, più o meno pedissequamente, censure
già dedotte in appello e già non accolte: Sez. IV, sentenza n. 15497 del 22 febbraio – 24
aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. VI, sentenza n. 34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013,
CED Cass. n. 256133), del tutto assertivi e, comunque, manifestamente infondati, a fronte
dei rilievi con i quali la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché
esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede ha motivato le contestate statuizioni valorizzando (f. 4 della motivazione) <

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