Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 25726 del 24/04/2015


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 25726 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: MULLIRI GUICLA

ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
Calabrese Mirko, nato a Taranto il 20.4.89
imputato art. 73 T.U. stup.
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Lecce, Sez. dist. Taranto, del 26.5.14

Sentita la relazione del cons. Guida Mùlliri;
osserva
La sentenza della Corte d’appello qui impugnata, pur riducendo la pena ad anni 1, mesi
8 e 1800 C di multa , ha ribadito la condanna inflitta al ricorrente per violazione alla legge
stupefacente e, soprattutto, ha negato l’invocato beneficio della sospensione condizionale.
Nel presente gravame, il ricorrente denuncia erronea applicazione della legge e vizio
della motivazione nel negare la sospensione condizionale e nella determinazione della pena
base. Quanto al primo aspetto, si fa notare – anche mediante allegazione di atti – che il
ricorrente era stato autorizzato ad allontanarsi dagli arresti domiciliari per recarsi in udienza
con mezzi proprie e senza scorta con provvedimento mai richiesto dall’interessato che,
comunque, tramite difensore, aveva rinunciato a comparire. Con riferimento alla pena, si
ricordano le novelle legislative che hanno di recente interessato la materia degli stupefacente e
si sostiene che i giudici d’appello avrebbero dovuto muovere da un minimo edittale di due anni.
Il ricorso è inammissibile perché in fatto e,comunque, manifestamente infondato.
La motivazione della Corte nel negare la sospensione condizionale della pena, pur in
presenza di una pena che, per il suo ammontare avrebbe teoricamente consentito
l’applicazione del beneficio di cui all’art. 163 c.p., è ineccepibile.

Data Udienza: 24/04/2015

Alla presente declaratoria segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 €.
P.Q.M.
Visti gli artt. 610 e ss. c.p.p.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 €.

Così deciso in Roma nell’udienza del 24 aprile 2015

Il Presidente

Va, innanzitutto, ricordato che, a mente del primo comma dell’art. 164 c.p., il giudice
può irrogare la sospensione condiziona, non solo quando la pena risulti inferiore ad un certo
ammontare meglio precisato nell’art. 163, ma anche quando sia possibile – avuto riguardo alle
circostanze indicate dall’art. 133 c.p. – presumere che il colpevole si asterrà dal commettere
ulteriori reati.
Tra i parametri dell’art. 133 c.p., ricorre anche la valutazione della condotta
contemporanea o susseguente al reato. Nulla di errato, quindi, vi è nel fatto che i giudici
del’appello abbiano apprezzato negativamente il comportamento dell’imputato che, detenuto
agli arresti domiciliari proprio per il presente reato, autorizzato in vista del giudizio d’appello a
recarsi in udienza con mezzi propri e senza scorta, non solo non abbia fatto pervenire – come
avrebbe dovuto fare personalmente (anche tramite la p.g. che lo controllava) — una dichiarazione di
rinuncia, ma non si sia affatto presentato in udienza. Le obiezioni fattuale svolte nel presente
ricorso sono, quindi, del tutto inappropriate, vista la sede, ma anche destituite di fondamento
apparendo, invece, evidente, la grave assenza di senso di responsabilità mostrata dal detenuto
nella circostanza sì da legittimare l’apprezzamento negativo della Corte. Quest’ultima, peraltro
– rispondendo bene sugli stessi temi qui riproposti – ha anche evidenziato l’assenza di un seri
programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza (visto che quello proposto presso il SERT di
Taranto prevedeva solo un trattamento farmacologico con metadone). Né a diverse conclusioni si può
pervenire sulla base della documentazione allegata all’odierno ricorso visto che la nota
allegata ad una istanza difensiva è del 2.12.13, non è dato comprendere se essa fosse stata
portata a conoscenza della Corte ed, in ogni caso, non descrive una realtà attuale e
contemporanea all’epoca della sentenza con un quadro aggiornato circa l’effettivo svolgimento
di colloqui terapeutici ed i loro esiti.
Anche la censura sulla pena è priva di pregio dal momento che la sentenza è del 26
maggio 2014, vale a dire, in cui era ormai in vigore dal 21 maggio precedente la nuova
disciplina. Il fatto, quindi, che i giudici non abbiano applicato il minimo è conseguenza di una
precisa scelta dei giudici che, nel rideterminare la pena (ormai illegale) inflitta in primo grado,
hanno tenuto conto della concreta gravità della condotta (f. 8) ed hanno espressamente escluso
la possibilità di applicare il minimo edittale se non a rischio di “banalizzare il fatto-reato” (f. 9).

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