Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 2571 del 29/11/2012


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 2571 Anno 2013
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: DELL’UTRI MARCO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
1) SORICELLI ANTONIO N. IL 27/03/1958
avverso la sentenza n. 402/2011 CORTE APPELLO di ROMA, del
13/02/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 29/11/2012 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARCO DELL’UTRI
Udito il Procuratore Generale in persona del Don.
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Data Udienza: 29/11/2012

Ritenuto in fatto
1. – Con sentenza resa in data 13.2.2012, la Corte d’appello di Roma ha integralmente confermato la sentenza del Tribunale di Roma in
data 17.9.2010 con la quale Antonio Soricelli è stato riconosciuto colpevole del reato di cui agli artt. 590, commi 3 e 5,583, comma i nn. i e 2,
perché, per colpa consistita in generica imprudenza, negligenza e imperizia – e comunque in violazione delle altre norme precauzionali indicate
nel capo di imputazione esteso ai correi individuati dalla pubblica accusa
-, nell’espletare le incombenze connesse alle proprie funzioni di delegato
del datore di lavoro della Azzurra 2000 s.r.1., cagionava un infortunio al
dipendente Alessio Spaccatrosi, il quale, partecipando indebitamente
allo scarico di una serie di travi effettuato da personale dell’Alfa Costruzioni e Montaggi s.r.1., rimaneva schiacciato dalla caduta di una trave
dovuta alla rottura della fascia utilizzata (logora e di portata inferiore al
peso della trave stessa) che subiva uno strappo anche a causa delle sollecitazioni improprie causate dalla collocazione asimmetrica della trave.
Infortunio che cagionava allo Spaccatrosi lesioni guarite in un periodo superiore a 40 giorni e dalle quali è residuato all’infortunato
un’invalidità permanente consistita nell’amputazione dell’arto inferiore
destro.
Reato commesso in Roma il 3.6.2005.
Con la sentenza di primo grado, il Tribunale romano ha inflitto ad
Antonio Soricelli la pena di due mesi di reclusione, oltre al pagamento
delle spese processuali.
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, ha proposto
ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, affidato a un unico articolato motivo d’impugnazione.
2. – Con il proposto ricorso, l’impugnante censura la nullità della
sentenza d’appello per difetto di motivazione, ai sensi dell’articolo 606,
lett. e), c.p.p., in relazione alla prova sull’elemento psicologico del reato
di cui agli artt. 590, commi 3 e 5, 583 comma i nn. i e 2, c.p., sotto il
profilo del travisamento del fatto.
Lamenta, in particolare, il ricorrente, la circostanza che la corte
territoriale si sia limitata alla mera riproposizione delle argomentazioni
già svolte dal giudice di primo grado, senza fornire risposta alle ragioni
di censura specificamente indicate nei motivi di appello, così incorrendo,
inevitabilmente, nel medesimo travisamento del fatto ascrivibile all’ingiusta sentenza di condanna inflitta all’imputato.
Nella specie, entrambi i giudici del merito avevano erroneamente
valutato gli estremi della condotta tenuta dall’imputato, ravvisando la
sussistenza di una sua colpa nella provocazione dell’infortunio contesta-

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to, laddove tale evento doveva ritenersi viceversa addebitabile all’incidenza esclusiva della causa, sopravvenuta, eccezionale e imprevedibile,
posta in essere dalla stessa vittima dell’incidente.
In particolare, secondo il ricorrente, il giudice d’appello ha omesso di considerare le decisive circostanze di fatto emerse dalle deposizioni
testimoniali acquisite nel corso del dibattimento di primo grado, consistite: i) nel fatto che il lavoratore infortunato fosse perfettamente a conoscenza dell’inidoneità della cinghia usata per lo scarico delle travi; 2)
nel fatto che nel cantiere erano effettivamente presenti i mezzi (pinze e
catene) idonei allo scarico delle travi; 3) nel fatto che il Soricelli, nell’allontanarsi dal cantiere, aveva dato precise istruzioni di attendere il proprio ritorno per lo scarico di dette travi.
L’omessa e doverosa rivalutazione delle prove acquisite nel corso
del dibattimento di primo grado ha quindi determinato il denunciato vizio di motivazione, con l’inevitabile conseguenza della nullità della sentenza di secondo grado.
Sul punto, il ricorrente ribadisce come non possa ritenersi configurabile la colpa del preposto per l’omessa vigilanza relativa all’utilizzo
delle attrezzature, se l’evento è riconducibile a un’imprevedibile iniziativa di lavoratori di cui l’imputato non era conoscenza e senza che lo stesso imputato fosse presente al momento del fatto; così come non può ritenersi configurabile la colpa in capo al preposto, per l’omessa vigilanza
relativa all’utilizzo delle attrezzature, se l’evento è riconducibile a un’imprevedibile iniziativa del lavoratore di cui l’imputato non è a conoscenza.
In particolare, pur ribadendo come l’attività di vigilanza del preposto debba essere continua e accurata, la stessa non può tuttavia esser
chiamata a neutralizzare l’incidenza di comportamenti irresponsabili del
lavoratore, ovvero il ricorso di eventi occasionali e imprevedibili, non
essendo peraltro necessario il ricorso di un comportamento abnorme del
lavoratore al fine di esonerare il preposto da ogni responsabilità, essendo sufficiente che lo stesso lavoratore abbia agito in modo improprio,
dovendo in caso contrario ritenersi inammissibilmente attribuita, a carico del preposto, un’incondizionata responsabilità per il comportamento
dei lavoratori.
Considerato in diritto
3. – Il ricorso è infondato.
Le argomentazioni critiche sottoposte dal ricorrente all’esame di
questo giudice di legittimità prospettano la rivalutazione del materiale
istruttorio acquisito nel corso del processo affinché abbia in questa sede

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a emergere il carattere contraddittorio del giudizio di colpevolezza
espresso dal giudice d’appello (in conformità a quello assunto dal tribunale di prime cure), segnatamente in relazione alla ritenuta sussistenza
della colpa dell’imputato (quale delegato del datore di lavoro) nella produzione di un evento infortunistico, viceversa ascrivibile, in via esclusiva, all’abnorme comportamento del lavoratore infortunato, ovvero, in
ogni caso, delle maestranze comunque coinvolte nello svolgimento delle
operazioni lavorative oggetto del giudizio.
Tali argomentazioni critiche del ricorrente, tuttavia, non individuano, né specificano in modo puntuale, il ricorso di alcun passaggio o
segno di un percorso illogico o incongruo nello sviluppo della motivazione della sentenza d’appello, limitandosi a manifestare un mero dissenso
in ordine alla valutazione compiuta in fatto con riguardo al materiale
istruttorio acquisito.
In relazione a tale aspetto, varrà porre l’accento, in primo luogo,
sull’assoluta congruità della valutazione espressa, da entrambi i giudici
del merito, in ordine alla complessiva inattendibilità della prova testimoniale acquisita, che le corti territoriali hanno giudicato (sulla base di
un ragionamento criticamente consapevole e pienamente lineare, sul
piano logico-giuridico) gravemente compromessa, nei suoi esiti significativi, dalle numerose e irriducibili contraddizioni emerse, che hanno
financo indotto il giudice di prime cure alla trasmissione degli atti del
procedimento all’ufficio del pubblico ministero in sede, in ragione dell’ipotizzabile falsa testimonianza attribuibile alle deposizioni rese dai dichiaranti.
Parimenti congrua, sul piano della coerenza logica del ragionamento, deve ritenersi l’affermazione espressa dai giudici di merito con
riguardo alla specificità del caso in esame, là dove sottolinea il carattere
stringente dell’obbligo del preposto del datore di lavoro di esplicare una
vigilanza, sull’esecuzione delle lavorazioni affidate al suo controllo, spinta al punto di intervenire, impedendolo, sull’uso di attrezzature lavorative, il cui impiego, come occorso nell’occasione qui sottoposta a giudizio,
possa concretamente e prevedibilmente prospettarsi come gravemente
pericoloso per l’integrità degli stessi lavoratori.
Nella specie, deve ritenersi pienamente corretta, e immune dalle
censure alla stessa rivolte dal ricorrente, l’affermazione della corte distrettuale secondo cui il Soricelli, immotivatamente allontanatosi dal
cantiere dove si stavano svolgendo le operazioni lavorative ch’ebbero a
condurre all’infortunio, avrebbe dovuto attivarsi, in modo esplicito, risoluto e inequivoco, al fine di impedire che lo Spaccatrosi, rimasto solo e in
attesa di un camion da scaricare, potesse fare uso dell’attrezzatura mi-

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donea (una cinghia totalmente usurata) che era stata lasciata in loco, e
che avrebbe prevedibilmente potuto essere utilizzata per l’esecuzione
delle operazioni di scarico in programma.
Nessuna particolare abnormità, a tale riguardo, può essere predicata con riferimento alla condotta del lavoratore infortunato o alle maestranze comunque coinvolte nello svolgimento delle operazioni di scarico oggetto del giudizio (come infondatamente preteso dal ricorrente),
non potendo infatti ritenersi assolutamente imprevedibile la condotta
del lavoratore il quale, rimasto solo senza il controllo o l’ausilio delle direttive del preposto, in un cantiere provveduto di materiali e attrezzature
assolutamente inidonee all’uso (e per ciò stesso gravemente pericolose
per i lavoratori ivi impegnati), proceda poi allo scarico delle travi medio
tempore introdotte in cantiere utilizzando quella stessa attrezzatura inidonea (“Tunica fascia rimasta in cantiere”: cfr. pag. 6 della sentenza
d’appello), senza che fosse risultata alcuna inequivoca certezza in ordine
all’effettiva sussistenza (o alla certa utilizzabilità in via alternativa) delle
pinze o delle catene indicate dal ricorrente come asseritamente esistenti
in loco e idonee allo scarico delle travi in esame.
È, da ultimo, appena il caso di evidenziare, in senso contrario alle
deduzioni fatte proprie dal ricorrente, come le circostanze di fatto dallo
stesso ritenute decisive per come emerse in forza delle deposizioni testimoniali acquisite nel corso del processo (ai fini del proscioglimento
dell’imputato), altro non siano che risultanze dubbie e nel loro complesso svalutate dai giudici del merito, i quali, in ragione delle numerose discordanze rilevate, ne hanno radicalmente escluso l’attendibilità, sulla
base di una motivazione già indicata come logicamente lineare e del tutto immune dalle generiche doglianze sul punto sollevate dal ricorrente.
4. — Al riscontro dell’infondatezza dei motivi di doglianza avanzati dall’imputato segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
Per questi motivi
la Corte Suprema di Cessazione, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29.11.2012.

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