Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 25706 del 24/04/2015


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 25706 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: MULLIRI GUICLA

ORDINANZA
sul ricorso proposto da:

Severini Ugo, nato a Norcia 1’1.9.45
imputato art. 56, 515 c.p.
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma del 13.12.12

Sentita la relazione del cons. Guida Mùlliri;
Vista la memoria depositata 1’11.3.15
osserva
Al ricorrente è stata contestata la violazione degli artt. 56, 515 c.p. per avere detenuto,
presso l’esercizio commerciale di ristorazione da lui gestito, alimenti di vario genere surgelati
senza che nel menu fosse specificata tale loro condizione originaria.
La sentenza della Corte d’appello, oggetto di ricorso ha confermato l’affermazione di
responsabilità pur accogliendo in parte il gravame rideterminando la pena e, come richiesto,
solo in quella pecuniaria.
Il presente gravame – rafforzato dalla memoria – lamenta travisamento della prova
perché i cibi si trovavano nel locale dispensa e non nella cucina (come detto in sentenza). Inoltre,si
fa notare che non è stata accertata la mancanza di prodotti freschi per quelle preparazioni
che, sul menu, non venivano indicati come surgelati. In sostanza, non sarebbe stata acquisita
la prova, oltre il ragionevole dubbio, della sussistenza degli atti idonei diretti alla commissione
della frode in commercio contestata, né sul piano oggettivo, né su quello soggettivo.

Data Udienza: 24/04/2015

Il ricorso è manifestamente infondato e, quindi, inammissibile. Esso, invero, punta, in
primo luogo ad una rivisitazione fattuale dolendosi, cioè, della mancata considerazione, da
parte della Corte, delle spiegazioni alternative offerte dalla difesa a proposito della presenza
dei cibi surgelati.
Invero, la semplice lettura della sentenza impugnata smentisce la doglianza. I giudici
della corte territoriale, infatti, in primo luogo, hanno espressamente parlato di collocazione dei
cibi “all’interno della dispensa” (v. metà pag. 2) sì che il successivo utilizzo del termine “cucina”
rappresenta una evidente “improprietà tecnica” (tipica di chi non svolgendo le precipue funzioni di

della prova” in senso tecnico essendo pacifico che, comunque, si sta discettando di prodotti che
si trovavano in ambiente limitrofo alla cucina vera e propria e non certo in un locale distante
ed avulso dal contesto sì che ritenere che essi fossero destinati al consumo degli avventori
presso il locale non rappresenta certo un’ipotesi azzardata e/o scissa sul piano logico dalla
contestazione. Al contrario, rientra proprio tra le ipotesi “alternative” rappresentate ai giudici
di merito quella secondo cui quei cibi surgelati avrebbero potuto – previo aggiornamento del
menu – esser destinati ai clienti qualora fossero finiti i generi freschi.
Tale rilievo, evidenziato dalla Corte (che vi ha risposto puntualmente) dimostra come – a
differenza di quanto sostenuto nel ricorso – i giudici dell’appello abbiano valutato (così come
altre)le spiegazioni alternative offerte dalla difesa e le abbiano disattese motivatamente ed in
modo logico sicché le censure odierne – alquanto generiche – sono prive di pregio visto che era
nelle prerogative dei giudici di merito privilegiare una spiegazione rispetto ad un’altra a
condizione che ciò facessero motivatamente se senza cesure sul piano logico.
Anche il tema dell’elemento soggettivo è stato apprezzato ma escluso
argomentatamente facendo notare che l’imputato era non solo il rappresentante legale ma
anche la persona che operava all’interno del locale sì da doversi ragionevolmente escludere
che «a sua insaputa, qualcuno non meglio identificato abbia disposto l’utilizzo di alimenti
surgelati esponendolo a rilievi di natura penale, come di fatto avvenuto». L’argomentazione ha
pregio anche alla luce della constatazione di fatto – risultante dalla sentenza – circa la
quantità abbastanza considerevole di cibi surgelati rinvenuta.
Va, infine, soggiunto che i richiami al ricorso, contenuti nella memoria, non inducono a
rivedere il giudizio fin qui illustrato.
Alla presente declaratoria segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 €.
P.Q.M.
Visti gli artt. 610 e ss. c.p.p.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 €.

Così deciso in Roma nell’udienza del 24 aprile 2015

Il Presidente

ristoratore è indotto a considerare genericamente “cucina”, sia i locali ove si predispongono le pietanze, sia quelli
dove vengono allocati i prodotti necessari alla loro elaborazione). Di certo, non si tratta di un “travisamento

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