Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 25689 del 17/03/2015


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 25689 Anno 2015
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
FRROKU PAVLIN N. IL 16/05/1979
avverso la sentenza n. 157/2013 CORTE APPELLO di MILANO, del
23/06/2014
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI;

Data Udienza: 17/03/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 23/6/2014, la Corte di appello di Milano, in parziale
riforma di quella del G.I.P. del Tribunale di Milano di condanna di Frroku Pavlin
alla pena di anni otto di reclusione per i reati di tentato omicidio e porto fuori
dalla propria abitazione di un coltello, con recidiva specifica e infraquinquennale,
previa concessione delle attenuanti generiche rideterminava la pena in anni
cinque di reclusione.

Elis ferendolo in varie parti del corpo e determinando, fra l’altro, una lesione
penetrante all’addome tale da rendere necessario un intervento chirurgico di
urgenza.
La responsabilità dell’imputato per la condotta descritta nell’imputazione non
è contestata. La persona offesa era stata ricoverata con ferite d’arma bianca “di
cui una penetrante all’erniaddorne sinistro con probabile lesione delle anse
intestinali” e con prognosi riservata; effettivamente era riscontrata la lesione ad
un’ansa con perdita di una notevole quantità di sangue. Il consulente tecnico
nominato dal P.M. aveva ritenuto l’addome sede del tutto idonea, quando
particolarmente attinta, a provocare la morte e aveva aggiunto che le pericolose
conseguenze – tra cui l’abbondante emorragia interna – erano state evitate
tramite l’intervento chirurgico che aveva asportato l’ansa perforata in cinque
punti e aveva ricanalizzato l’intestino.
Il consulente della difesa, al contrario, aveva sostenuto che la persona
offesa non aveva corso pericolo di vita e aveva escluso che l’addome sia sede di
organi nobili che potessero mettere in pericolo la vita del soggetto.
Il Giudice di primo grado aveva tratto la volontà ornicidiaria dall’indole
dimostrata dall’indagato, dimostrata dall’aggressione in luogo pubblico e dalla
precedente aggressione ai danni del cugino della vittima in un giorno precedente,
dalla zona del corpo presa di mira, dal tipo di arma utilizzata, dalle modalità
dell’aggressione (aveva afferrato la vittima per la spalla, lo aveva fatto voltare e
gli aveva sferrato la coltellata all’addome) e, infine, dalla condotta successiva al
fatto.
L’appellante aveva chiesto l’assoluzione o, in subordine, la derubricazione
della condotta nel reato di lesioni, chiedendo, comunque, la rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale mediante nomina di perito per verificare se si fosse
mai verificato un pericolo di vita per la persona offesa. Secondo la difesa
dell’imputato, entrambi i consulenti – del P.M. e della difesa – avevano concluso
per l’inesistenza di un pericolo di vita per la persona offesa; l’appellante aveva,
inoltre, sostenuto che il coltello (mai rinvenuto) era di piccole dimensioni; aveva,

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Secondo l’imputazione, Frroku aveva più volte colpito con un coltello Hoxha

poi osservato che, se vi fosse stata volontà omicida, l’imputato non avrebbe
scelto un posto frequentato per ferire la persona offesa.
La Corte riteneva che non vi fosse necessità di una perizia medico legale,
atteso che la valutazione della documentazione medica spetta all’Autorità
Giudiziaria.
Quanto alla questione della qualificazione della condotta, la Corte territoriale
osservava che era fuorviante parlare esclusivamente di pericolo di vita corso o
meno in concreto dalla vittima: piuttosto, per ritenere sussistente il dolo

sede corporea raggiunta, la profondità della ferita inferta.
Nel caso di specie, l’intervento chirurgico immediato aveva evitato
conseguenze pericolose nel breve termine; l’addome è una sede corporea
rischiosa anche per la vita quando, come nel caso di specie, il colpo è inferto con
una certa forza.
Significativo, ai fini dell’animus necandi, era anche il colpo che aveva ferito il
braccio sinistro: lesione da difesa rispetto ad una coltellata che mirava alle parti
alte del corpo, dove hanno sede gli organi vitali.
La Corte concludeva condividendo con il G.I.P. che la morte non era stata
solo rappresentata come possibile dal soggetto agente, ma accettata nella sua
concreta possibilità di verificarsi.

2. Ricorre per cassazione Frroku Pavlin, deducendo distinti motivi.
Con un primo motivo il ricorrente deduce vizio della motivazione in relazione
alla incompatibilità tra tentato omicidio e dolo eventuale. La Corte aveva
descritto il dolo dell’imputato come eventuale, sostenendo che l’evento morte
“non era stato rappresentato solo come possibile da soggetto agente, ma
accettato nella sua concreta possibilità di verificarsi”: quindi l’evento non era
stato voluto, ma accettato. Il ricorrente richiama la giurisprudenza di questa
Corte sull’incompatibilità tra il tentativo e il dolo eventuale.
In un secondo motivo il ricorrente deduce vizio della motivazione quanto alla
configurabilità del tentativo: in effetti, la Corte aveva fatto riferimento
all’elemento oggettivo del “mezzo usato” per riconoscere il tentativo di omicidio:
ma il ricorrente si era avvalso di un coltello di piccole dimensioni, non idoneo a
commettere l’omicidio. Non a caso, nonostante la vittima fosse stata colpita sei
volte, non aveva mai rischiato la vita.
Anche con riferimento alla gravità delle lesioni inferte all’addome la
motivazione era contraddittoria, atteso che in un passaggio la sentenza dava
atto che la ferita non aveva avuto ripercussioni funzionali; d’altro canto, in altro
passaggio, la Corte sosteneva che l’imputato aveva tentato di colpire l’avversario

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omicidiario, erano rilevanti il tipo di arma impiegata, la sua idoneità offensiva, la

nella parte alta del corpo, dove si trovano gli organi vitali.
In un terzo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione con riferimento
al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ai sensi
dell’art. 603 cod. proc. pen.. La Corte aveva negato che vi fossero contrasti tra i
due consulenti sulla capacità della ferita all’addome di provocare la morte della
persona offesa, ma tale contrasto sussisteva con evidenza.
Il ricorrente conclude per l’annullamento della sentenza impugnata.

1. Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi manifestamente
infondati.

Si deve, in primo luogo, affermare la manifesta infondatezza del terzo
motivo di ricorso: poiché il giudizio si è svolto con rito abbreviato e la relativa
domanda dell’imputato non era condizionata all’espletamento di una perizia, non
sussisteva alcun diritto della parte all’espletamento della stessa e, pertanto, la
Corte poteva liberamente valutare la necessità di espletare la perizia con una
decisione adottata d’ufficio che le parti potevano soltanto sollecitare.
Nel caso di specie, la Corte ha adeguatamente motivato la decisione
opposta; e, del resto, la sentenza spiega correttamente perché il tema del
concreto pericolo di vita corso dalla persona offesa non sia affatto decisivo per
ritenere sussistente il dolo omicidiario, così come i due consulenti sono concordi
(pag. 7 della sentenza) nell’affermare che, se il soggetto non fosse stato
soccorso, sarebbe deceduto (così espressamente il consulente della difesa): del
resto, visto l’intervento chirurgico realizzato, ciò è del tutto chiaro.

Anche i due primi motivi di ricorso sono palesemente infondati.
Il ricorso fa leva sull’infelice sintesi finale delle considerazioni sull’animus
necandi da parte della Corte, nella parte in cui conclude che “l’evento morte non
era stato rappresentato solo come possibile, ma accettato nella sua concreta
possibilità di verificarsi”; in realtà, come l’ampia motivazione precedente fa
comprendere, la Corte territoriale – tenuto conto dell’idoneità ad uccidere
dell’arma, della pluralità dei colpi inferti, della sede colpita più profondamente,
del tentativo di colpire la vittima anche in parti più esplicitamente vitali (cuore,
polmoni) – nel condividere le conclusioni del Giudice di primo grado, intendeva
affermare che Frroku aveva concretamente previsto la morte della persona
offesa come conseguenza delle coltellate che le infliggeva e l’aveva voluta: non
aveva, cioè, previsto che le conseguenze sarebbero state soltanto lesioni

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CONSIDERATO IN DIRITTO

personali.
L’idoneità del coltello a provocare la morte – in relazione alle sue dimensioni,
per la verità ignote, atteso che l’arma non era mai stata rinvenuta – è stata
oggetto di analisi adeguata da parte della sentenza impugnata.

2. Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in
forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale

esulando profili di colpa nel ricorso (v. sentenza Corte Cost. n. 186 del 2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di euro 1.000 alla Cassa delle
Ammende.

Così deciso il 17 marzo 2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente

ritenuta congrua, di euro 1.000 (mille) in favore delle Cassa delle Ammende, non

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