Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 25626 del 19/04/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 25626 Anno 2013
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PIAZZA GIACOMO N. IL 06/01/1927
avverso l’ordinanza n. 9609/2010 GIUD. SORVEGLIANZA di
PALERMO, del 11/06/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. 9IACOMO RO CHI
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iette/iffte le conclus’oni deg\PG Dott.

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Uditi difens Avv.;

Data Udienza: 19/04/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Il Magistrato di Sorveglianza di Palermo, con ordinanza dell’11/6/2012,
dichiarava inammissibile la domanda proposta da Piazza Giacomo di remissione
del debito per le spese di giustizia. Le spese riguardavano il procedimento per la
misura di prevenzione della confisca disposto dal Tribunale di Palermo e
confermata dalla Corte d’appello di Palermo a carico di Piazza Vincenzo, cui
aveva partecipato il ricorrente quale terzo intestatario di beni ritenuti riferibili al

Secondo il Magistrato, l’istituto della remissione del debito è limitato ai
destinatari di pena o di misura di sicurezza, unici soggetti per i quali è ravvisabile
la ratio premiale dell’istituto di favorire il processo di risocializzazione.

2. Ricorre per cassazione Piazza Giacomo, deducendo la violazione dell’art. 6
d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 e dell’art. 3 della Costituzione.
La normativa sulla remissione del debito è regolamentata dall’art. 6 d.P.R.
115 del 2002 che ha riformato integralmente la precedente normativa,
abrogandola espressamente; la sostituzione alle categorie dei condannati e
internati di quella degli “interessati” comporta che il diritto a chiedere la
remissione del debito spetta a qualsiasi interessato, volendo il legislatore
allargare il principio di premialità a tutte le categorie.
L’affermazione del Magistrato di Sorveglianza secondo cui l’esigenza di
favorire processi di risocializzazione non riguarda coloro che sono stati colpiti da
misure di prevenzione viola il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della
Costituzione; la conseguenza paradossale di tale interpretazione è quella di un
condannato che viene sollevato dal pagamento di ingenti somme, al contrario di
chi non ha commesso alcuna condotta illecita.

In un secondo motivo, il ricorrente deduce il difetto e la manifesta illogicità
della motivazione: la giustificazione addotta dal Magistrato di Sorveglianza
dell’utilizzo della espressione “interessato” – volontà del legislatore di
comprendere in esso sia il condannato che l’internato – è destituita di
fondamento giuridico, atteso che il legislatore, con l’emanazione del T.U., ha
riformato radicalmente la precedente normativa, volendo comprendere nel
beneficio anche soggetti non condannati né internati.
Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

3. Il Procuratore generale, nella requisitoria scritta, chiede l’annullamento
con rinvio dell’ordinanza impugnata: l’attuale disciplina normativa è innovativa
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proposto.

rispetto al precedente art. 56 dell’ordinamento penitenziario e comprende la
remissione del debito a qualunque interessato, anche se oggetto di un
procedimento di prevenzione.

4. Il ricorrente ha depositato memoria con cui ribadisce le considerazioni già
esposte.

1. Il ricorso, ad avviso del Collegio, non è fondato e, pertanto, deve essere
rigettato.
La questione di diritto posta all’esame del Collegio ha riguardo alla
legittimazione a domandare (quindi alla ammissibilità della richiesta) la
remissione del debito, di cui all’art. 6 d.P.R. n. 115 del 2002, di soggetti
condannati al pagamento delle spese processuali nel procedimento di
prevenzione. L’istanza di remissione del debito è stata avanzata da un terzo
intestatario di beni oggetto di confisca nel procedimento di prevenzione a carico
della quale i giudici di merito hanno posto il pagamento in solido delle spese del
procedimento.

2. Tanto precisato, è opportuno prendere le mosse dalla considerazione che
la remissione del debito, disciplinata dal vigente art. 6 d.P.R. n.115 del 2002 al
titolo II relativo alle «disposizioni generali relative al processo penale»
riguarda soltanto le spese del processo penale; nessuna disposizione del citato
d.P.R., infatti, consente l’applicazione dell’istituto oltre le spese del processo
penale cui esclusivamente si riferisce.
Come è stato affermato dalla Corte costituzionale (n.98/1998 e n.57/2001),
l’obbligazione relativa alle spese processuali nel processo penale deve essere
considerata non come obbligazione civile, ma vera e propria sanzione economica
accessoria alla pena. Tale assunto è stato raccolto e ulteriormente ribadito anche
dalla Corte di legittimità e da ultimo con la decisione delle Sez. U., n. 491 del
2011, Pisior.
Orbene, è del tutto evidente che non possono assumere la predetta natura
le spese processuali eventualmente poste a carico del terzo interessato nel
procedimento di prevenzione, tenuto conto che tale procedimento non può mai
comportare l’irrogazione di una pena, non essendo in alcun modo paragonabile
ad essa né la misura di prevenzione personale (pur essendo connotata da un
contenuto limitativo della libertà personale), né la misura di prevenzione
patrimoniale alla cui applicazione è finalizzato il procedimento di prevenzione.

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CONSIDERATO IN DIRITTO

Del resto – come è stato affermato in più occasioni – il terzo che interviene
nel procedimento di prevenzione laddove venga in esame l’applicazione di una
misura patrimoniale, sia che intervenga volontariamente, sia che partecipi iussu
iudicis,

non è destinatario della misura di prevenzione, ma portatore nel

procedimento di prevenzione di un mero interesse di natura civilistica (da ultimo
Sez. 2, n. 27037 del 27/03/2012 – dep. 10/07/2012, Bini, rv. 253404).

3. E’ nota, altresì, la differenza strutturale tra il fatto reato oggetto del
pena o di una misura di sicurezza, e la fattispecie astratta delle misure di
prevenzione, funzionati alla tutela della sicurezza pubblica, che non sono
connesse a responsabilità penali del soggetto, non si fondano sulla colpevolezza,
né hanno carattere sanzionatorio di doveri giuridici, ma sono collegate ad un
complesso di comportamenti integranti una «condotta di vita» che il
legislatore assume come indice di pericolosità sociale.

La distanza dal paradigma sanzionatorio del procedimento di prevenzione è
stata sottolineata anche rammentando come la Corte di Strasburgo (6/11/1980,
Guzzardi; 22/2/1994, Raimondo; 6/4/2000, Labita), nell’affrontare la questione
della qualificazione delle misure di prevenzione previste dal nostro ordinamento,
recependo la c.d. concezione autonomistica dell’illecito penale, le abbia ritenute
estranee all’area della «materia penale» escludendole addirittura, almeno in
astratto, dal novero delle misure privative della libertà personale di cui all’art. 5
della Convenzione EDU e qualificandole come semplici restrizioni alla libertà di
circolazione di cui all’art. 2 del protocollo n. 4 della Convenzione (Sez. U, n.
10281 del 25/10/2007 – dep. 06/03/2008, Gallo, rv. 238657).

4. D’altro canto – come è stato evidenziato nell’ordinanza impugnata – la
modifica della disciplina della remissione del debito, prima prevista dall’abrogato
art. 56 Ord. Pen., secondo l’art. 6 del T.U. sulle spese di giustizia non è
connotata da elementi tali da aver inciso sulla natura e sulla ratio dell’istituto
che, al contrario, mantiene le sue caratteristiche premiali ancorate alla condotta
ed alle disagiate condizioni economiche del soggetto a carico del quale le spese
sono poste in quanto condannato nell’ambito del processo penale.
Invero, il legislatore ha trasfuso nel contesto della disciplina delle spese di
giustizia l’istituto della remissione del debito, apportandovi le modifiche rese
necessarie dagli interventi della Corte costituzionale (n. 342/91) che aveva
dichiarato illegittimo l’art. 56 Ord. Pen. nella parte in cui non prevedeva che,
anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia

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processo penale, cui consegue una pronuncia di condanna e l’irrogazione di una

cautelare, potessero essere rimesse le spese del procedimento al condannato
che avesse serbato in libertà una regolare condotta e versasse in disagiate
condizioni economiche. E’ stato, infatti, evidenziato in dottrina come la nuova
collocazione confermi che la remissione del debito rappresenta un beneficio di
natura economica che mira ad estinguere il debito del condannato per spese di
mantenimento e processuali; rappresenta, cioè una forma di rinuncia abdicativa
da parte dello Stato ad un proprio credito diretta ad agevolare il reinserimento
del soggetto nel momento più delicato della dimissione, attenuando le difficoltà

ed evitando che coloro che abbiano espiato la pena ed abbiano dimostrato di
avere positivamente compiuto un processo di responsabilizzazione e di
acquisizione delle regole minime di convivenza civile si vedano poi ostacolati
proprio nel momento del reinserimento a causa dei debiti residui nei confronti
dello Stato costituiti da spese processuali e di mantenimento in carcere.
Tali finalità dell’istituto non possono ritenersi snaturate in ragione della
circostanza che nella formulazione rinnovata rispetto all’art. 56 Ord. Pen., l’art. 6
del più volte citato d.P.R. faccia riferimento all’interessato e non al condannato.
Anche l’attuale lettera della norma, per vero, non può che condurre alla
individuazione dei destinatari del beneficio in coloro che siano stati condannati
nel processo penale, posto che al comma 2 viene fatto riferimento a chi “è stato
detenuto o internato” e al comma i a chi “non è stato detenuto o internato”,
ossia a soggetti comunque condannati in un processo penale.
Non è, quindi, venuto meno il presupposto dell’istituto nella sussistenza di
indici di ravvedimento del condannato, ancorché riferibile – in conformità con la
pronuncia della Corte cost. n. 342/1991 – anche ai soggetti che non hanno
espiato la pena o non la hanno espiata in carcere.
Né può assumere rilievo – come vorrebbe il ricorrente – un generico
riferimento ai soggetti condannati al pagamento delle spese anche a prescindere
dalla condanna a sanzione penale, non potendosi in tal caso spiegare la
limitazione del beneficio al processo penale di cui, anche dal punto di vista
sistematico della norma nell’ambito del T.U. sulle spese di giustizia, non è dato
dubitare.

5. Si deve, ancora, sottolineare come la lettura dell’art. 6 d.P.R. 115 del
2002 nel senso di una “riforma integrale della precedente normativa”, che, non a
caso, è stata abrogata, contrasta con la finalità del Testo Unico: in effetti, l’art. 7
della legge n. 50 del 1999, che prevedeva, appunto, la compilazione da parte del
Governo di Testi Unici, indicava, tra i criteri e i principi direttivi ai quali
l’esecutivo avrebbe dovuto attenersi, quello di procedere ad una “puntuale

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che il soggetto può incontrare nel periodo successivo alla espiazione della pena

individuazione del testo vigente delle norme” nonché ad un “coordinamento
formale

del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto

coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e
sistematica della normativa anche al fine di adeguare e semplificare il
linguaggio normativo”, con “l’esplicita abrogazione di tutte le rimanenti
disposizioni”.
In definitiva, il Testo Unico non avrebbe dovuto riformare alcunché, ma solo
puntualmente individuare il teste delle norme già vigenti; le modifiche erano

stato fatto al fine di recepire la sentenza della Corte Costituzionale n. 342 del
1991, del tutto estranea al tema della condanna alle spese processuali nel
procedimento di prevenzione.

6. Per quel che riguarda specificamente l’applicabilità dell’istituto della
remissione del debito al procedimento di prevenzione, deve poi evidenziarsi che
sotto il profilo processuale tale procedimento non può farsi rientrare nel processo
penale in senso stretto, trattandosi, come è noto, di procedimento che ha nel
tempo acquisito natura giurisdizionale con caratteristiche e disciplina proprie, al
quale sono applicabili alcune norme del procedimento di esecuzione penale, art.
666 cod proc. pen., ed altre disposizioni del codice di rito in conseguenza di
espresso rinvio a dette norme. Tanto è confermato, del resto, anche dalla novella
disciplina del d.lgs. n. 159 del 2011.
Non può, quindi, ritenersi argomento utile – come, invece, afferma il
Procuratore generale nella sua requisitoria scritta – al fine di sostenere
l’applicabilità della remissione del debito ai soggetti coinvolti nel procedimento di
prevenzione, la disposizione dell’art. 204 del d.P.R. citato. Tale norma, contenuta
nella parte VII relativa alla «riscossione», titolo I, capo II, nell’ambito dei
principi dettati per il processo penale, prevede specificamente che nel processo
di prevenzione si proceda al recupero delle spese solo in caso di condanna alle
spese da parte della Corte di cessazione. Dall’inserimento sotto il capo
«principi per il processo penale», in tema di riscossione, di una disciplina
eccezionale della materia delle spese per il procedimento di prevenzione nei
sensi indicati (al pari di quella prevista per il procedimento di sorveglianza e di
esecuzione) non può desumersi l’applicazione della remissione del debito alle
spese relative al procedimento di prevenzione. Al contrario, la norma richiamata
conferma come il procedimento di prevenzione si caratterizzi in maniera
peculiare anche per quel che riguarda le spese processuali rispetto al processo
penale cui esclusivamente si riferisce la disciplina dell’art. 6 contenuto nel titolo
Il della parte I del d.P.R. n. 115 del 2002.

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ammesse solo al fine di un coordinamento formale e, nel caso di specie, ciò è

Peraltro, posto che dal citato art. 204 discende che al procedimento di
prevenzione non consegue ne può conseguire, fatto salvo per il giudizio di
cassazione, la condanna alle spese processuali, né nei confronti del proposto, né
dei terzi interessati, a maggior ragione, dal procedimento di prevenzione non
può derivare quella sanzione economica accessoria alla pena suscettibile di
remissione attraverso l’istituto della remissione del debito di cui all’art. 6 del
d.P.R. n. 115 del 2002.

detto sin qui, possono essere piegate a finalità del tutto estranee all’istituto
quale rimedio ad una eventuale errata pronuncia in ordine alla condanna alle
spese processuali.
Tale pronuncia, all’evidenza estranea all’esame di cui è investita la Corte in
questa sede, può essere impugnata attraverso i mezzi propri previsti
dall’ordinamento sia in sede penale che in sede civile ed è opportuno, in specie,
ricordare che le Sezioni Unite (n. 15 del 31/05/2000, Radulovic; n. 7945 del
31/01/2008, Boccia) hanno ritenuto ammissibile la procedura della correzione
dell’errore materiale, ex art. 130 cod. proc. pen., sottolineando come la
correzione in punto di condanna alle spese incida non sul contenuto intrinseco
della pronuncia relativa al

thema decidendum,

ma semplicemente su una

pronuncia consequenziale ed accessoria alla prima e non implicante alcuna
discrezione valutativa da parte del giudice; pertanto, la correzione dell’errore
materiale in tal caso non si pone come (inammissibile) rimedio ad un vizio della
volontà del giudice o ad un suo errore di giudizio, ma è soltanto lo strumento per
eliminare la disarmonia tra la manifestazione esteriore costituita dal documentosentenza e quanto poteva e doveva essere statuito ex lege.
Ogni questione, poi, sull’ammontare delle spese processuali deve essere
fatta valere attraverso i mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento in sede
civile (Sez. U., n. 491 del 2011, Pislor, rv. 251265).

8. Resta, pertanto, solo da rilevare che, tenuto conto del contenuto del
provvedimento impugnato sintetizzato in premessa, il dedotto vizio di
motivazione risulta manifestamente infondato e che, stante la specifica posizione
del terzo nei sensi già richiamati, si palesa, altresì, l’infondatezza della violazione
dell’art. 3 Cost. denunciata dalla ricorrente, dovendosi, peraltro, ribadire che la
pronuncia Corte cost. n. 342/1991 aveva rilevato la illegittimità dell’abrogato art.
56 Ord. Pen. facendo, comunque, esclusivo riferimento ai soggetti “condannati”
che dovevano essere ugualmente legittimati a chiedere la remissione del debito,
sia che avessero sofferto la detenzione, sia che avessero diversamente espiato la

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7. Né, all’evidenza, la ratio e la natura della remissione del debito, di cui si è

pena o non l’avessero affatto espiata.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali.

P.Q.M.

processuali.

Così deciso il R;r212013

alliPOSITATA

IN CANCELLERIA

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

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