Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 25479 del 12/03/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 25479 Anno 2015
Presidente: PALLA STEFANO
Relatore: VESSICHELLI MARIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SALVATO FABIO N. IL 23/12/1969
avverso la sentenza n. 849/2009 CORTE APPELLO di MESSINA, del
08/06/2011
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 12/03/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARIA VESSICHELLI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. 7 -77ctlia-eu’
che ha concluso per / / z 1Lcuu_
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e

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

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Data Udienza: 12/03/2015

Fatto e diritto

Messina in data 8 giugno 2011 (depositata il 20 gennaio 2014) con la quale è stata confermata
quella di primo grado, di condanna, all’esito di giudizio abbreviato, in ordine ai reati di cui ai
capi A) e C) della rubrica.
In particolare l’imputato è stato ritenuto responsabile del reato di cui all’articolo 166 del
decreto legislativo n. 58 del 1998 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione
finanziaria) per avere svolto, in concorso con Famulari e Ficarra (processati separatamente),
nel periodo compreso tra il dicembre 2004 e il giugno 2007, servizi di investimento per i quali
essi non erano abilitati; inoltre del delitto di cui all’articolo 173 lett. b del decreto legislativo n.
42 del 2004 per avere ceduto un dipinto di Francesco Guardi, bene culturale, senza
denunciarne il trasferimento al ministero dei Beni Culturali, fatto accertato il 4 dicembre 2007.
Deduce
1) la nullità della sentenza per violazione degli articoli 177,100 78,100 79, 125,546 e 549
cpp nonché 154 delle disposizioni attuazione del codice di procedura penale.
Sostiene l’impugnante che la sentenza risultava sottoscritta, oltre che dal relatore
dottor Grimaldi, anche dal dott. Brigandì, in luogo dell’originario Presidente del collegio,
designato anche come estensore, dott. Mango non più in servizio.
Tale situazione comporterebbe l’integrazione dell’ipotesi di cui all’articolo 178 lett. A)
cpp e cioè il venir meno del numero dei giudici necessari per costituire il collegio.
Anche l’articolo 569 comma 4 non rileverebbe perché trattasi di norma per la
sostituzione dell’estensore della motivazione e non del numero minimo dei componenti
del collegio che devono necessariamente sottoscrivere l’atto.
Non ricorrerebbe neppure l’ipotesi di cui all’articolo 546 c.p.p. che consente la
sostituzione del magistrato per morte o altro impedimento, posto che nel caso di specie
la sentenza avrebbe dovuto essere depositata nei 90 giorni dalla pronuncia del
dispositivo ed entro quel termine nessun impedimento affliggeva il Presidente, andato
in pensione successivamente al 1 gennaio 2013.
L’imputato sarebbe stato, in altri termini, sottratto al giudice naturale precostituito per
legge.
Il motivo è manifestamente infondato.
Le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato il principio secondo cui, ai fini della
legittimazione alla sottoscrizione del provvedimento collegiale da parte del giudice più anziano
del collegio, l’impedimento, diverso dalla morte, di cui fa menzione l’art. 546, comma secondo,
cod. proc. pen., deve essere effettivo, serio, grave e duraturo ( Sez. U, Sentenza n. 600 del
29/10/2009 Cc. (dep. 08/01/2010 ) Rv. 245175 ).
Nella specie il pensionamento del Presidente- estensore può essere ritenuto di per sé, ostacolo
giuridico alla sottoscrizione ( e prima ancora alla redazione della motivazione) a nulla
rilevando, ai fini che qui interessano, il ritardo nel deposito della motivazione che presenta
possibili rilievi disciplinari per il magistrato in servizio ed invece, sotto il profilo processuale,
soltanto oneri ulteriori in tema di notifica dell’avviso di deposito.
E’ evidente, d’altro canto, la inconferenza della dedotta nullità ex art. 546 uc cpp, posto che
questa deriva dalla mancanza della sottoscrizione del giudice che è un’evenienza non
ricorrente nella specie.
Inoltre neppure l’articolo 178 lett. A assume rilievo nel caso in esame atteso che tale norma
prevede a pena di nullità l’osservanza delle norme sul numero dei giudici necessario per
costituire i collegi, norme che nella specie sono state rispettate dal momento che sia il
processo che la decisione sono stati attuati col numero legale di magistrati mentre soltanto per
1

Propone ricorso per cassazione Salvato Fabio avverso la sentenza della Corte d’appello di

la redazione della motivazione della sentenza è stata applicata la procedura ugualmente
prevista dalla legge, per il caso di impedimento del presidente: un caso nel quale, essendo
prevista la sostituzione sia del presidente impedito che dell’estensore impedito, la procedura
prescinde dalle norme sulla collegialità di cui sopra si è detto;

finanziario in virtù del ne bis in idem.
I motivi sono infondati.
In primo luogo la tesi dell’assorbimento delle due ipotesi criminose non risulta prospettata in
appello mentre invece viene elaborata per la prima volta con ricorso per cassazione nel quale
non sono neppure dettagliate, con la specificità pretesa dall’articolo 581cpp, le circostanze di
fatto che giustificherebbero l’applicazione della norma di cui all’articolo 649 cpp.
Quanto al merito della questione, si rileva comunque che, come affermato dalle Sezioni unite
nella sentenza n. 34655 del 28/06/2005 Cc. (dep. 28/09/2005 ) Rv. 231799, ai fini della
preclusione connessa al principio “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste quando vi sia
corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi
elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo,
di luogo e di persona.
È di tutta evidenza che tale condizione non sussiste nel caso di specie nel quale il fatto
sussunto nel capo A) era quello dell’avere l’imputato, in più occasioni, senza essere abilitato,
svolto servizi di investimento. Inoltre nella motivazione della sentenza si dl atto della
circostanza che il reato di truffa è stato contestato, come dovuto, con la prospettazione del
ricorso ad artifici e i raggiri (nella specie ritenuti insussistenti) che non entrano neppure in
linea di principio, nella composizione del paradigma criminoso del reato di cui all’articolo 166
del Testo unico in materia di intermediazione finanziaria.
D’altra parte la giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, Sentenza n. 42085 del 09/11/2010 Ud.
(dep. 26/11/2010 ) Rv. 248510)costantemente riconosce che il reato di esercizio abusivo di
intermediazione finanziaria possa concorrere con quello di truffa, essendo diversi i beni giuridici
da essi tutelati, in quanto il primo, diversamente dal secondo, è reato di pericolo il cui bene
protetto è il corretto svolgimento, nell’interesse degli investitori, dei mercati mobiliari per il
tramite di operatori abilitati.
Si è anche rilevato in giurisprudenza che integra il reato di abusivismo, previsto dall’art. 166
del D.Lgs 24 febbraio 1998, n. 58, la condotta del promotore finanziario che, anziché limitarsi
ai compiti a lui ordinariamente spettanti (quali la promozione dei prodotti finanziari e le
connesse attività materiali volte a favorire la conclusione del contratto tra cliente e
intermediario, per conto del quale opera, nonché la limitata attività di consulenza, intesa ad
orientare le scelte del risparmiatore), stipuli con il cliente un contratto di gestione degli
investimenti finanziari e percepisca le somme all’uopo destinate. Il reato in questione può
concorrere con il reato di truffa, stante la sostanziale differenza esistente tra le due fattispecie,
in quanto l’abusivismo è reato di pericolo, inteso a tutelare l’interesse degli investitori a
trattare soltanto con soggetti affidabili nonché l’interesse del mercato mobiliare, nel suo
complesso e nei suoi singoli operatori, ad escludere la concorrenza di intermediari non abilitati;
la truffa, invece, è reato di danno, che, per la sua esistenza, richiede l’effettiva lesione del
patrimonio del cliente, per effetto di una condotta consistente nell’uso di artifizi o raggiri e di
2

Con i motivi sub 2 e 4,rectius 5), è stata poi detotta la violazione dell’articolo 649 c.p.
p., essendo stato, l’imputato , assolto dal reato di truffa.
In altri termini, posto che l’imputato era stato tratto giudizio per rispondere sia del reato
di cui al capo A), per il quale è stato condannato, sia del reato di cui al capo B) (truffa),
la assoluzione da tale ultima imputazione, concernendo quasi lo stesso fatto pure
diversamente qualificato, avrebbe dovuto impedire la condanna per il reato di abusivismo

.

una preordinata volontà di gestire il risparmio altrui in modo infedele ( Sez. 5, Sentenza n.
22419 del 02/04/2003 Cc. (dep. 21/05/2003 ) Rv. 224951)
Non ricorre pertanto il requisito dell’identità del fatto evocato dal ricorrente.
3) Col terzo motivo si è denunciata la violazione dell’articolo 166 del decreto legislativo n.
58 del 1998.
Ha sostenuto il ricorrente che il reato di abusivismo finanziario non sarebbe
configurabile, alla luce dell’interpretazione del relativo paradigma, come effettuata nella
sentenza della Cassazione n. 27246 del 2013. Invero tale interpretazione richiederebbe
il connotato della professionalità mentre l’occasionalità della condotta o la predefinizione
dei destinatari dell’attività ne escluderebbe la tipicità sia ai fini dell’abilitazione sia, a
maggior ragione, ai fini della configurabilità del reato.
Da tali premesse in diritto la difesa fa discendere la considerazione che, nel caso di
specie, il reato avrebbe dovuto essere escluso perché la condotta posta in essere
dall’imputato e concretizzatasi nella intermediazione finanziaria aveva riguardato
soltanto i fratelli Di Pietro i quali avevano anche affidato al ricorrente la “password” del
proprio conto corrente per le operazioni in via telematica.
Soltanto costoro, in altri termini, erano partecipi dell’intermediazione finanziaria
dell’imputato correndo il rischio correlato all’investimento.
Invece, nei confronti degli altri soggetti menzionati nella sentenza, erroneamente
definiti investitori, il ricorrente si poneva non come esercente attività di intermediazione
ma soltanto come soggetto che, in cambio dell’affidamento del capitale garantito da un
assegno privo di data e di pari importo, offriva in cambio un saggio di interesse del 2%
mensile a persone che tuttavia non partecipavano agli utili dell’attività di investimento
svolta dal Salvato medesimo. Tant’è che in relazione a tale reato non si sono costituiti
parte civile.
Il difensore riporta nel ricorso i vantaggi percentuali fissi assicurati a ciascuno dei
pretesi investitori.
Il motivo è inammissibile.
Il motivo di ricorso si atteggia come censura in punto di fatto e cioè come tentativo di
alternativa ricostruzione della vicenda rispetto a quella motivatamente apprezzata e valutata
dal giudice del merito.
Questi ha infatti osservato a pagina sei della motivazione che l’accertamento compiuto ha
lasciato emergere, attraverso le dirette deposizioni di molti clienti del Salvato, come costoro
avessero affidato all’imputato i loro risparmi per investimenti finanziari.
Il contrario assunto della difesa è sostenuto con considerazioni di fatto non direttamente
apprezzabili da questa Corte soprattutto se si considera che la tesi viene prospettata pur con la
ammissione che ben più di uno dei clienti dell’imputato, diversi ed ulteriori rispetto ai fratelli Di
Pietro, abbia affermato di essere stato remunerato con interessi corrisposti mensilmente e
dipendenti dall’andamento del mercato (vedi dichiarazioni di Misale e Rao riportate nel ricorso;
ma anche Bottari, oltre a Di Pietro, ha dichiarato di essere stata remunerata col 50% delle
plusvalenze ).
Non può dirsi , dunque, che la sentenza non abbia dato conto dello svolgimento professionale e
cioè non occasionale di servizi di investimento da parte dell’imputato non abilitato.
D’altra parte la condotta punita dall’articolo 166 citato è, appunto, quella dello svolgimento dei
servizi di investimento, da ritenersi integrata, quando questi hanno per oggetto strumenti
finanziari, allorchè l’investimento — che deve comunque essere realizzato dall’intermediario in
forma professionale – avvenga anche nella forma “della negoziazione per conto proprio” come
precisato dal decreto legislativo di attuazione della direttiva 2004/39/CE relativa ai mercati
degli strumenti finanziari, e dunque senza che assumano dirimente valore le modalità e gli
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A

accordi con la parte intercorsi ai fini della determinazione del quantum di remunerazione e
della distribuzione del rischio ( v. analogamente Sez. 5, Sentenza n. 31893 del 22/06/2007 Cc.
(dep. 03/08/2007 ) Rv. 237569 secondo cui il reato di esercizio abusivo di intermediazione
finanziaria ex art.166 D.Lgs. n. 58 del 1998 è integrato dal comportamento del soggetto che,
non abilitato all’attività di promotore finanziario, stipuli con un cliente un contratto di gestione
degli investimenti e percepisca le somme di danaro a tal fine destinate).
Ha osservato nello stesso senso la giurisprudenza di questa Corte che in tema di
intermediazione finanziaria, integra il reato di abusivismo finanziario, la condotta di colui che
stipuli, ancorché privo di abilitazione, un contratto di gestione degli investimenti e, quindi, di
trasferimento di risorse economiche mobiliari dell’altro contraente, con la prospettiva reale o
fittizia di profitti, percependo le somme di denaro a tal fine. Si tratta di un reato di pericolo,
con la conseguenza che, una volta che i risparmi dell’altro contraente siano immessi nel
mercato mobiliare, dal soggetto non abilitato – e, quindi da soggetto idoneo a ledere l’interesse
dell’investitore, del complessivo interesse del mercato mobiliare e dei singoli operatori – non ha
rilevanza in quale modo – fedele o infedele – sia avvenuta la gestione dei risparmi degli
investitori. Peraltro, il mancato investimento o, comunque, l’infedele gestione dei risparmi del
contraente può costituire condotta integrante l’ipotesi del reato di truffa (Sez. 5, Sentenza n.
22597 del 24/02/2012 Cc. (dep. 11/06/2012 ) Rv. 252958).
4) Con il motivo indicato sub 3, rectius 4) si è infine denunciata la violazione dell’articolo
12 delle preleggi e dell’articolo 49 del codice penale.
Ad avviso del difensore l’articolo 166 del testo unico in materia finanziaria non punisce
soltanto la mera intermediazione nell’attività di investimento ma essenzialmente la
condotta, descritta nel comma 2 dell’art. 166, consistente nell’attività di promotore
finanziario senza essere iscritto all’albo.
In altri termini non sarebbe vietata la raccolta di fondi in sé ma soltanto quella
finalizzata all’acquisto di prodotti finanziari per conto di terzi in assenza di abilitazione.
E nella specie tale intermediazione non si era verificata poiché tutti gli investitori erano
concordi nell’affermare che intendevano lucrare solo il 2% mensile dell’investimento,
senza mirare a plusvalenze o dovere soffrire di minusvalenze tanto da non avere
sostenuto di avere subito un danno.
Il motivo è inammissibile per le ragioni già esposte in replica al precedente motivo di
ricorso.
In base al principio della soccombenza l’imputato deve essere condannato a rifondere le spese
sostenute dalla parte civile, liquidate come in dispositivo.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché
alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3.500 oltre
accessori di legge.
Così deciso in Roma il 1tmarzo 2015
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