Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 25363 del 15/05/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 25363 Anno 2015
Presidente: GALLO DOMENICO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 15/05/2015

SENTENZA
Sul ricorso proposto nell’interesse di Belleri Giuseppe, n. a Darfo
Boario Terme (BS) il 10.01.1953, rappresentato e assistito dall’avv.
Caterina Malavenda, di fiducia, avverso la sentenza della Corte
d’appello di Milano, quinta sezione penale, n. 3214/2013, in data
29.10.2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
letta la memoria presentata in data 07.05.2015 nell’interesse di
Belleri Giuseppe;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Massimo
Galli che ha chiesto il rigetto del ricorso;
sentita la discussione del difensore della parte civile Berlusconi Silvio,
avv. Nicolò Ghedini che ha chiesto il rigetto del ricorso;

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sentita altresì la discussione del difensore del ricorrente avv. Caterina
Malavenda che ha chiesto l’accoglimento del ricorso con annullamento
senza rinvio ovvero, in subordine, con rinvio, della sentenza
impugnata per difetto di motivazione su elementi essenziali.

RITENUTO IN FATTO

1. Belleri Giuseppe, direttore responsabile del settimanale “Oggi”, veniva
tratto a giudizio per rispondere dei seguenti reati:
– capo A): art. 648 cod. pen. perché, al fine di procurarsi un profitto e
con la consapevolezza della provenienza delittuosa, acquistava o
comunque riceveva dal fotografo Zappadu Antonello ovvero da altra
persona rimasta sconosciuta, quindici fotografie raffiguranti l’on.
Berlusconi Silvio in compagnia di alcune ospiti, fotografie di provenienza
illecita in quanto riproducenti immagini attinenti alla vita privata
indebitamente captate, poiché svolgentesi nell’appartenenza di un luogo
di privata dimora, ossia nel parco di Villa Certosa in Sardegna, locata ad
uso abitativo;
– capo B): art. 615 bis, comma 2 cod pen., perchè mediante
pubblicazione sul settimanale medesimo (n. 17 del 17.04.2007) in
copertina ed alle pagine 32-42, diffondeva quindici fotografie raffiguranti
l’on. Berlusconi Silvio in compagnia di alcune ospiti, fotografie
indebitamente captate in quanto riproducenti immagini attinenti alla vita
privata, poiché svolgentesi nell’appartenenza di un luogo di privata
dimora, ossia nel parco di Villa Certosa in Sardegna, locata ad uso
abitativo.
1.1. Con sentenza in data 01.03.2013, il Tribunale di Milano, in
composizione monocratica, affermava la penale responsabilità
dell’imputato e, concesse le circostanze attenuanti generiche e
riconosciuto il vincolo della continuazione, lo condannava alla pena di
mesi cinque di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale
e la condanna al risarcimento del danno cagionato alla parte civile,
liquidato nella complessiva misura di euro 10.000,00.
1.3. Con atto in data 12.04.2013, la difesa dell’imputato proponeva
appello, chiedendo la riforma della sentenza sotto plurimi profili, e
segnatamente:
– prospettando le ragioni per cui l’appellante avrebbe dovuto essere

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I

assolto dal reato di cui all’art. 615 bis cod. pen. o per insussistenza del
fatto in sé, o per insussistenza del reato di cui al primo comma dell’art.
615 bis cod. pen. contestato a Zappadu Antonello o perché il fotografo
non è punibile ex artt. 21 Cost. e 51 o 59 cod. pen.;
– prospettando le ragioni per cui l’appellante avrebbe dovuto essere
assolto anche per il reato di cui all’art. 648 cod. pen. o, in subordine, per
cui tale reato avrebbe dovuto essere escluso, in ragione del principio di

specialità o derubricato in quello di incauto acquisto e l’azione penale
dichiarata improcedibile per difetto di querela;
– prospettando le ragioni per le quali all’imputato avrebbe dovuto essere
applicata la scriminante del legittimo esercizio del diritto di cronaca
(scriminante che, ove per le stesse ragioni fosse stata riconosciuta al
fotografo, avrebbe comunque legittimato la sua assoluzione);
– in tema di quantificazione e mancata conversione della pena irrogata
nonché in tema di liquidazione e quantificazione del danno.
2. Con sentenza in data 29.10.2014, la Corte d’appello di Milano, in
parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava non doversi
procedere nei confronti di Belleri Giuseppe in relazione al capo B) per
essere lo stesso estinto per prescrizione; rideterminava la pena in
relazione al capo A), in mesi due di reclusione ed euro 200,00 di multa,
sostituendo la pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria, in
ragione di euro 2.280,00 di multa, così determinando la pena finale
complessiva in euro 2.480,00 di multa, con revoca del beneficio della
sospensione condizionale e conferma nel resto della pronuncia di prime
cure.
3. Avverso la sentenza di appello, Belleri Giuseppe, tramite difensore,
propone ricorso per cassazione lamentando:
-violazione di legge, e segnatamente degli artt. 615 bis, comma 1 cod.
pen., 51 e/o 59 cod. pen., poiché il giudice a quo avrebbe dovuto
escludere la sussistenza del reato ipotizzato a carico del fotografo che ha
realizzato le foto de quibus per difetto ovvero per insufficienza di prove
in ordine all’elemento materiale e/o soggettivo del reato o, quantomeno,
dichiarare quest’ultimo non punibile per aver esercitato il diritto di
cronaca ex artt. 21 Cost. e 51 e/o 59 cod. pen., per l’effetto escludendo
il reato di ricettazione in capo al ricorrente; mancanza e/o
contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla
riconosciuta responsabilità del fotografo (primo motivo);

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-violazione di legge e segnatamente dell’art. 648 cod. pen. e/o del
principio di specialità nella parte in cui il giudice a quo non ha escluso la
sussistenza del reato di ricettazione ex art. 530, comma 1 o 2 cod. proc.
pen., per difetto degli elementi costitutivi e/o applicando il principio di
specialità e, per l’effetto, escludendo la configurabilità di tale reato,
stante la ipotetica configurabilità di quello (art. 615 bis, comma 2 cod.
pen.) di diffusione di immagini realizzate con le modalità di cui all’art.

615 bis, comma 1 cod. pen., pure contestato che avrebbe dovuto essere
ritenuto il solo ipotizzabile in forza del principio di specialità e che è
stato dichiarato prescritto; si eccepisce il totale difetto di motivazione in
ordine alla sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato di
ricettazione, in particolare nulla argomentando l’impugnata sentenza in
ordine alla pretesa sussistenza del dolo specifico consistente nel fine di
profitto ed alla dedotta configurabilità, nonché in ordine alla mancata
derubricazione ed in ordine all’applicazione del principio di specialità
(secondo motivo);
-violazione di legge e, in particolare, degli artt. 51 o 59 cod. pen. in
relazione all’art. 648 cod. pen., nella parte in cui il giudice a quo non ha
assolto l’imputato ex art. 530, commi 1, 2 o 3 cod. proc. pen. perché il
fatto non costituisce reato, essendo la sua condotta scriminata dal
legittimo esercizio del diritto di cronaca ex artt. 21 Cost. e 51 e/o 59
cod. pen.; si eccepisce il totale difetto di motivazione in ordine al
mancato riconoscimento della scriminante de qua in ordine al reato di
ricettazione (terzo motivo).
3.1. In relazione al primo motivo, censura il ricorrente l’approccio
minimalista con il quale i giudici di merito avevano trattato le
informazioni ricavabili dalle immagini realizzate che, lungi dall’integrare
un “comportamento scherzoso ed affettuoso” che forse non avrebbe
neppure giustificato un servizio di copertina, finivano per contraddire la
coerenza personale e politica dell’uomo pubblico e dei valori dal
medesimo da sempre manifestati.
Si osservava in particolare come il “sacrificio” della riservatezza
dell’interessato doveva necessariamente essere messo a confronto con il
rilievo delle immagini e con quanto esse documentavano, di tal che le
informazioni raccolte giustificavano la condotta del fotografo che
nell’eventuale processo a suo carico ben avrebbe potuto ottenere il
riconoscimento dell’esimente del legittimo esercizio del diritto di

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cronaca, quanto meno sotto il profilo putativo; né si poteva
fondatamente ritenere che il fotografo avesse colto un momento privato,
dal momento che doveva escludersi che il padrone di casa, per la
obiettiva situazione in cui si era venuto a trovare e per il luogo in cui le
foto erano state realizzate, contasse sul riserbo, in relazione alle
condotte assunte in quella occasione, ostentate più che celate al mondo
esterno. Né per la captazione delle immagini era stato usato un mezzo

invasivo, avendo il fotografo Zappadu utilizzato un programma che
serviva solo ad ingrandire parti di foto senza sgranarne i contorni a
ragione della distanza, piuttosto modesta, tra la macchina fotografica ed
i soggetti ripresi.
3.2. In relazione al secondo motivo, si censura la sentenza impugnata
nella parte in cui, per quanto riguarda il reato di ricettazione, ricava la
sussistenza dell’elemento materiale dall’accertamento incidentale del
reato di cui all’art. 615 bis comma 1 cod. pen. in capo allo Zappadu, che
non è mai stato accertato in sede giudiziaria e che avrebbe dovuto
essere escluso per quanto sopra esposto, avendo altresì omesso di
considerare quanto dedotto dal ricorrente in ordine all’impossibilità di
ricettare immagini, il che esclude che il cd contenente le foto potesse
formare oggetto di ricettazione, essendo al più utile ad integrare la
meno grave condotta di cui all’art. 615 bis comma 2 cod. pen.: in altre
parole, il direttore aveva ricevuto e veicolato notizie, sotto forma di
immagini che, come tali, non avrebbero potuto essere ricettate, ma al
più solo formare oggetto della tutela penale predisposta dal citato art.
615 bis comma 2 cod. pen..
Anche la motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato, e
segnatamente sulla sussistenza del dolo generico inerente la
consapevolezza di ricevere il corpo di un reato, appare non esaustiva, né
lo è quella con la quale è stata negata l’applicazione del principio di
specialità. Invero, in una singolare commistione fra il dolo eventuale,
identificato con la consapevolezza della provenienza illecita del bene
ricevuto e il dolo specifico, che si identifica con il fine di lucro che
l’agente si propone di perseguire – trattandosi all’evidenza di due
presupposti diversi, la cui contemporanea sussistenza deve essere
accertata – il Tribunale, a proposito della sussistenza dell’elemento
soggettivo del reato, aveva affermato la sufficienza del dolo eventuale,
utilizzando una sentenza delle Sezioni unite penali, secondo la quale il

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delitto è compatibile con un atteggiamento psicologico di un gradino
superiore al mero sospetto, in ordine alla provenienza della cosa da un
delitto, che consisterebbe nella rappresentazione di una concreta
possibilità in tal senso. In realtà, nel lineare percorso argonnentativo del
ricorrente vi è tutto, meno che una implicita ammissione di aver
pubblicato immagini, con la consapevolezza che derivassero da una
condotta penalmente rilevante: militano, in tal senso, la valutata

cronaca e l’iter manuale di captazione delle immagini, mediante il quale i
particolari delle foto erano stati tratti dalle foto originarie e definiti.
Censurabile anche la motivazione in ordine all’inapplicabilità del principio
di specialità, essendo evidente che il ricorrente, se mai si sia
rappresentato di commettere un reato, è all’art. 615 bis comma 2 cod.
pen. che aveva pensato, rimanendo evidentemente fuori da tale ipotesi
la ricezione di immagini per fini diversi da quelli della successiva
pubblicazione.
In ogni caso, il ricorrente avrebbe dovuto essere assolto sia per il difetto
o l’insufficienza di prove, in ordine all’elemento materiale del reato,
stante l’impossibilità di annoverare il “provento” di quel reato fra le cose
che possono formare oggetto di ricettazione; sia, soprattutto, per il
difetto o l’insufficienza di prove, in ordine all’elemento soggettivo del
reato, inteso sia come consapevolezza della provenienza illecita delle
immagini, sia come volontà di trarre profitto dalla loro ricezione,
propedeutica alla loro pubblicazione, come scopo primario della
condotta; inoltre, sulla scorta delle rassicurazioni chieste ed ottenute dal
Belleri e delle cautele adottate prima di decidere l’acquisto e la
diffusione di quelle immagini, il reato avrebbe dovuto essere derubricato
in incauto acquisto e l’azione penale non avrebbe dovuto essere
promossa, per difetto di querela.
3.3. In relazione al terzo motivo, si evidenzia come il ricorrente abbia
inteso, senza dubbio, esercitare il diritto di informare, appagando per
converso quello dei suoi lettori ad essere informati, su fatti veri, siccome
puntualmente documentati, di manifesto interesse pubblico e senza
ricorrere ad espressioni gratuitamente offensive, diritto che ha potuto
esercitare compiutamente solo acquisendo quelle foto e pubblicandole.
Se dovesse ritenersi che la prima condotta è autonoma e dotata di
rilevanza penale propria, si dovrà ugualmente ritenerla non punibile,

,

irrilevanza penale della condotta del fotografo, l’esercizio di un diritto di

avendo il ricorrente agito nell’esercizio di un diritto, costituzionalmente
garantito. Come nel caso della legittima difesa, il bene vita di chi
reagisce difendendosi, prevale sul bene vita dell’aggressore, purchè
siano rispettati i limiti, posti dall’art. 52 cod. pen., pur trattandosi di beni
di rango costituzionale, così la tutela del bene “patrimonio” necessariamente circoscritto ad un interesse schiettamente patrimoniale
– soccombe di fronte all’esercizio del diritto di cronaca, purchè nel

rispetto dei limiti individuati dalla giurisprudenza: principio che è stato
costantemente ribadito, anche in arresti giurisprudenziali recenti, per il
c.d. “giornalismo d’inchiesta”, in relazione alla cui modalità di fare
informazione si è affermato che non comporta violazione dell’onore e del
prestigio di soggetti giuridici, con relativo discredito sociale, qualora
ricorrano l’oggettivo interesse a rendere consapevole l’opinione pubblica
di fatti ed avvenimenti socialmente rilevanti, l’uso di un linguaggio non
offensivo e la non violazione di correttezza professionale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è, nei limiti che si andranno ad esporre, fondato e, come
tale, meritevole di accoglimento.
2. Nella premessa relativa alla trattazione del primo motivo di doglianza,
va evidenziato come il ricorrente contesti l’approccio “interpretativo”
delle immagini “incriminate” da parte dei giudici di merito che, in chiave
minimalista, aveva ritenuto troppo alto il “sacrificio” del bene della
riservatezza in vista del riconoscimento della scriminante dell’esercizio
del diritto di cronaca. Invero, per il ricorrente, la ragione per la quale lo
stesso aveva ritenuto che quelle fotografie fossero da pubblicare,
risiedeva proprio nel comportamento che il loro protagonista aveva
assunto in quella occasione, a poche settimane dalle scuse pubbliche
presentate alla moglie che, sempre pubblicamente, lo aveva
rimproverato per l’eccessiva leggerezza con la quale si era rivolto, in
quel caso solo verbalmente, a due avvenenti e giovani donne.
2.1. Il profilo da tenere presente per valutare la fondatezza delle varie
censure era – per il ricorrente – la natura di quel comportamento tenuto
sotto gli occhi delle guardie del corpo, inservienti e giardinieri, a
dimostrazione da un lato dell’assoluta abitualità dei gesti e, dall’altro,
della totale assenza di riserbo nell’assumerli: da qui, la ritenuta

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esclusione di “scene attinenti la vita privata” per assenza di riservatezza
(tutto avveniva “alla luce del sole, con un mare di gente intorno”: teste
Bonaiuti), come da scelta proveniente dallo stesso “padrone di casa”.
2.2. Replica la sentenza di secondo grado che il luogo di captazione delle
immagini (Villa Certosa), residenza privata nella disponibilità esclusiva
della persona offesa, rientra appieno nel concetto di privata dimora
tutelato dall’art. 14 della Costituzione, dall’art. 8 della Convenzione

europea dei diritti dell’uomo e dall’art. 614 del codice penale. In
generale, tale qualifica non era sminuita dal fatto che tale dimora fosse
visitata da una molteplicità di ospiti e di soggetti anche in parte
sconosciuti allo stesso proprietario, dal momento che “l’intera tenuta, ivi
compreso il parco e le altre strutture ivi esistenti, non erano liberamente
accessibili al pubblico, ma solo ed esclusivamente previo consenso del
padrone di casa”; su queste premesse, la conclusione del giudice di
merito era nel senso che, le scene ritratte, dovessero considerarsi
certamente come attinenti alla vita privata, atteso che “la privatezza
deriva proprio dal sicuro rapporto esclusivo tra il titolare e il luogo ove la
scena è stata ripresa” e che “il concetto di si riferisce a
qualsiasi atto o vicenda della persona in luogo riservato e inaccessibile a
terzi estranei”.
2.3. Appare evidente come lo stesso dato (tipologia e modalità dei gesti
osservati e ripresi) viene utilizzato dalla sentenza (e dalla persona
offesa) per “esaltarne” il dato della privatezza comunque inaccessibile
agli estranei da un lato e, per evidenziarne l’assenza totale di
riservatezza essendo stata evidente una volontà ostentatrice, dall’altro.
Ritiene il Collegio che non sia questo il “metro” su cui misurare la
sussistenza o meno del reato, potendo la distinzione in parola avere
rilevanza solo se il luogo in discussione, a prescindere dal livello o meno
di riservatezza tutelabile, non costituisca un domicilio; peraltro, se è
vero che, sulla nozione di domicilio a norma dell’art. 14 della
Costituzione, così come su quello di privata dimora a norma dell’art. 614
cod. pen. (richiamato dall’art. 615 bis cod. pen., sulle interferenze
illecite nella vita privata e dall’art. 266, comma 2 cod. proc. pen. sulle
intercettazioni ambientali), non vi sono né in giurisprudenza né in
dottrina indicazioni univoche, appare altresì possibile dubitare che vi sia
coincidenza tra l’ambito della garanzia costituzionale e quello della tutela
penale. Invero, ad alcuni orientamenti che pongono l’accento

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prevalentemente all’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di
manifestazioni della vita privata (come il riposo, l’alimentazione, lo
studio, l’attività professionale, lo svago) di chi lo occupa ed anche
all’esistenza di una certa durata del rapporto tra luogo e persona, ve ne
sono altri che pongono l’accento sul carattere esclusivo (ius excludendi
alios) e sulla difesa della privacy.
2.4. E’ tuttavia un dato incontestabile come la giurisprudenza tenda ad

614 e 615 bis cod. pen. (cfr., Sez. U, sent. n. 26795 del 28/03/2006,
Rv. 234296), mentre tenda a circoscriverlo quando l’ambito domiciliare
rappresenta un limite allo svolgimento delle indagini.
Sotto questo primo profilo, le conclusioni che la Corte territoriale trae sul
punto, valorizzando il dato decisivo rappresentato dalla qualificazione del
luogo quale privata dimora, appaiono immuni da censure.
2.5. Ma il “tema” non può esaurirsi qui, essendo necessario prendere in
considerazione l’ulteriore aspetto della “visibilità”.
Non v’è dubbio che la ripresa fotografica da parte di terzi leda la
riservatezza della vita privata ed integri il reato di cui all’art. 615 bis
cod. pen., allorquando vengano ripresi comportamenti sottratti alla
normale osservazione dall’esterno, essendo la tutela del domicilio
limitata a ciò che si compie in luoghi di privata dimora in condizioni tali
da renderlo tendenzialmente non visibile ad estranei: ne consegue che,
se l’azione, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, può essere
liberamente osservata senza ricorrere a particolari accorgimenti, il
titolare del domicilio non può vantare alcuna pretesa al rispetto della
riservatezza (Sez. 6, sent. n. 40577 del 01/10/2008, Rv. 241213).
Dev’esservi, quindi, motivazione sulla “visibilità”. E tale motivazione
deve ritenersi esistente nelle sentenze di merito che chiariscono come la
“captazione” delle immagini sia avvenuta attraverso un’attività da
ritenersi invasiva perché operata con particolari accorgimenti (utilizzo di
un teleobiettivo prima e di un programma al computer dopo, il c.d.
Photoshop, per ingrandire le immagini senza modificarne la risoluzione).
L’assenza dell’elemento psicologico asserita dalla difesa del ricorrente in
ragione del fatto che l’opera sia stata invece irrilevante (operando la
traslazione del difetto di tale elemento dal fotografo al direttore) urta
contro un rilievo insormontabile rappresentato dal testimoniale di
riferimento richiamato (per tutti, il capitano Bramati) secondo cui dal

ampliare il concetto di domicilio in funzione della tutela penale degli artt.

luogo degli scatti fotografici non si vedevano volti (le consulenze e lo
stesso fotografo riferiscono di una distanza di circa 150 metri che
consentiva di vedere i comportamenti ma non i volti ed era stato
utilizzato un teleobiettivo di una certa potenza) a dimostrazione del fatto
che, la visibilità ad occhio nudo era, quantomeno, assai parziale, per non
dire, estremamente ridotta. Affermare che non è stato utilizzato un
mezzo invasivo perché con la semplice macchina fotografica non si

vedeva altro che quello che è percepibile dall’occhio umano, è pertanto
del tutto errato, perché per “mezzo”, in questo caso, si deve considerare
il tutto, ossia macchina fotografica, prima e programma photoshop,
dopo; eccepire, ancora, che le prime immagini erano comunque visibili
con buona approssimazione, significa sostanzialmente negare tutta
l’attività del fotografo svolta successivamente e significa anche negare le
stesse affermazioni dei testimoni secondo cui vi era “approssimazione” e
“intuizione”, che, altro non vuol dire che, sul posto, l’osservante non
aveva visibilità piena. Sotto questo profilo, la motivazione della Corte
territoriale, del tutto conforme ad incontestabili principi logico-giuridici,
rimane sottratta al sindacato di legittimità.
2.6. Né può far superare queste conclusioni la ritenuta mancanza di
lesività della condotta a ragione di una mancanza di riserbo
comportamentale da parte del soggetto leso che, agendo senza
particolari cautele a protezione del proprio diritto, avrebbe di fatto
consentito ad una sua violazione da parte di terzi.
L’argomento è suggestivo, e, per certi versi, paradossale. Il diritto va
rispettato indipendentemente dal modo in cui lo esercita il suo titolare;
peraltro, occorre considerare che la lesività è principio cui riferirsi
prevalentemente in ipotesi di reati a pericolo presunto e, comunque,
anche in tali casi, la concreta lesività della condotta deve essere valutata
con riferimento alla efficienza causale della prescrizione che viene
violata, atteso che il destinatario di una prescrizione destinata a
soddisfare le esigenze di tutela del bene protetto dalla norma non può
sottrarsi al corrispondente adempimento mediante l’adozione di
accorgimenti diversi da quelli indicati.
2.7. Sostiene altresì la difesa del ricorrente che, avuto riguardo alle
assicurazioni chieste dal Belleri allo Zappadu, e puntualmente ottenute,
il reato di ricettazione difetterebbe dell’elemento psicologico e, in ogni
caso, si sarebbe dovuto derubricare lo stesso in quello di incauto

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acquisto.
Al riguardo, la Corte territoriale, dopo aver premesso che, ai fini
dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 615 bis, comma 2 cod.
pen., è sufficiente la coscienza e volontà di rivelare o diffondere notizie o
immagini della vita privata acquisite con l’uso di strumenti di ripresa
visiva nell’altrui domicilio, evidenziava come il Belleri avesse acquistato
e pubblicato le fotografie sapendo, o comunque assumendosi

consapevolmente il rischio, che le scene ritratte, pacificamente
svolgentesi all’interno del parco di Villa Certosa, fossero state captate
con le descritte modalità. E tale consapevolezza, integrante l’elemento
soggettivo del reato di ricettazione, discendeva da almeno tre elementi
di carattere oggettivo, e segnatamente:
-dal fatto che il fotografo, nel consegnare al Belleri il dischetto con le
immagini, gli aveva detto di essersi appostato su un monte e di aver
usato un obiettivo da 400 mm.;
-dal fatto che il settimanale Oggi aveva già pubblicato in passato altre
precedenti fotografie scattate nello stesso parco, non censurate da
Berlusconi Silvio, ma che avevano comunque provocato l’intervento delle
guardie del corpo;
-dal fatto che il Belleri, in sede di dichiarazioni spontanee, aveva
affermato di aver deciso di acquistare le foto in questione “per fare uno
scoop, pur sapendo che si trattava di scene private captate
clandestinamente”.
Né, infine, può ritenersi che la sentenza di secondo grado avesse
omesso di motivare sulla diversa figura di reato di cui all’art. 712 cod.
pen., essendovi stata una motivazione implicita conseguente al rigetto
della tesi principale.
Il primo motivo di doglianza è, quindi, infondato.
3. Con riferimento al secondo motivo, si censura la sentenza impugnata
che ricava la sussistenza dell’elemento materiale della ricettazione
dall’accertamento incidentale del reato di cui all’art. 615 bis, comma 1
cod. pen. in capo allo Zappadu, omettendo di prendere in seria
considerazione l’impossibilità di ricettare immagini ed invocando un
precedente giurisprudenziale (Sez. 2, sent. n. 308 del 21/10/2004, Rv.
230426), secondo cui non è configurabile il reato di ricettazione a carico
di soggetto che si sia limitato a ricevere dati, informazioni e notizie tratti
da materiale documentario che sia stato oggetto di furto, mancando, in

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,.•

siffatta ipotesi, l’esistenza di una “res” suscettibile di apprensione e
possesso.
Evidenzia inoltre il ricorrente come non possa configurarsi il concorso tra
i reati contestati al Belleri, essendo la ricezione delle fotografie attività
preparatoria e necessaria per la loro diffusione.
Le “risposte” della Corte territoriale sono, su entrambi i punti, del tutto
congrue e prive di vizi logico-giuridici.

3.1. Sulla prima questione rileva la Corte come il precedente invocato,
oltre ad essere del tutto isolato, afferisce a situazione del tutto
differente rispetto a quella in esame concernente “il ben diverso caso di
un soggetto che aveva acquistato dati e informazioni tratti da copie dei
registri di repertorio e delle tavole alfabetiche custodite presso un ufficio
di pubblicità immobiliare, i cui originali erano stati illecitamente sottratti
da una diversa persona: in quel caso, osservava la Suprema Corte,
l’assoluzione derivava dal fatto che la ricezione non riguardava i
documenti in copia o in originale che erano stati sottratti, ma le notizie, i
dati e le informazioni in essi contenuti, con la conseguenza che era da
escludere la “necessaria identità” del dato acquisito “con la res furtiva”
…; … nel caso in esame, invece, piena identità vi è tra le fotografie
illecitamente scattate ed i beni acquistati dall’imputato …; non si tratta
dell’avere dato la notizia che un personaggio noto circolasse con alcune
ragazze nella sua tenuta, ma dell’avere ricevuto e pubblicato gli oggetti,
le fotografie appunto, che documentavano inequivocabilmente le
modalità e i gesti compiuti dal personaggio stesso …”.
3.2. Sulla seconda questione, invece, la Corte d’appello trae la
configurabilità giuridica di entrambi i delitti da una serie di elementi, e
precisamente: “dal fatto che solo a Zappadu era ascrivibile il reato
presupposto (art. 615 bis, comma 1 cod. pen.) consistente nell’illecita
captazione delle immagini; dal fatto che Belleri aveva dapprima deciso di
acquistare le fotografie (così compiendo la ricettazione, non trattandosi
di un antefatto non punibile) e poi di pubblicarle sul settimanale (così
compiendo il reato di ricettazione, non trattandosi di un antefatto non
punibile) e poi di pubblicarle sul settimanale (così compiendo il reato di
cui all’art. 615 bis, comma 2 cod. pen.); dal fatto che i due reati hanno
obiettività giuridica diversa e sono stati realizzati in momenti diversi …”.
3.3. Fermo quanto precede, rileva il Collegio come la previsione della
clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato”

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contenuta nell’incipit dell’art. 615 bis, comma 2 cod. pen., imponga in
primo luogo di stabilire i parametri che l’interprete deve seguire per
individuare il reato più grave.
Il Collegio è consapevole che un risalente (ed isolato) orientamento
aveva in passato ritenuto che la maggior gravità del reato dovesse
stabilirsi in relazione alla pena edittale detentiva, in particolare avendo
riguardo alla pena massima in astratto comminata, oppure – in caso di

pari gravità della massima – alla pena minima (Sez. 5, sent. n. 2817 del
16/01/1986, Rv. 172419).
Ciononostante, ritiene il Collegio che la maggiore gravità del reato,
comportando l’assorbimento di una fattispecie nell’altra in
considerazione del suo effettivo minor disvalore dell’una a fronte
dell’effettivo maggior disvalore dell’altra, vada necessariamente valutata
avendo riguardo alla pena in concreto irrogabile, e quindi tenendo anche
conto delle circostanze in concreto ritenute e dell’esito dell’eventuale
bilanciamento tra esse. In proposito, si è affermato che, in presenza
della clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, la
maggiore o minore gravità dei reati concorrenti deve essere valutata
avendo riguardo alla pena in concreto irrogabile, tenuto anche conto
delle circostanze ritenute e dell’esito dell’eventuale bilanciamento tra
esse (Sez. 2, sent. n. 36365 del 07/05/2013, Rv. 256877).
Nella fattispecie, il giudice di primo grado, ai soli fini di stabilire il
trattamento sanzionatorio ma non per la valutazione degli effetti
conseguenti all’eventuale operatività della clausola di riserva contenuta
nell’art. 615 bis, comma 2 cod. pen., aveva ritenuto come più grave
quest’ultima violazione: detta valutazione non può ritenersi ferma ed
indiscutibile in questa sede, ostando in tal senso l’avvenuta declaratoria
di prescrizione di detto reato, circostanza che impedisce non solo di
riprendere – in concreto – il “confronto” tra le due imputazioni essendo
venuto meno l’originario trattamento sanzionatorio complessivo ma
anche di recepire la valutazione di maggiore gravità operata dal primo
giudice, imponendo conseguenzialmente di riconsiderare la gravità,
questa volta valutabile solo in via astratta, dei due reati, avuto riguardo
alle cornici edittali delle rispettive sanzioni.
Nella fattispecie, il reato di ricettazione, che prevede una pena edittale
massima (sei anni) più alta, a cui si aggiunge anche una pena pecuniaria
(non prevista nel reato di cui all’art. 615 bis, comma 2 cod. pen.), ai fini

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che qui interessano, deve necessariamente ritenersi più grave rispetto al
reato di interferenze illecite nella vita privata.
Su questa premessa, appare evidente come il reato di ricettazione non
possa ritenersi assorbito in quello previsto dall’art. 615 bis, comma 2
cod. pen. (in astratto, sarebbe stato semmai possibile ritenere l’esatto
contrario, ma il giudicato formatosi sul reato di cui all’art. 615 bis,
comma 2 cod. pen. impedisce un’operazione in tal senso), dovendosi

altresì osservare come non sussista il concorso apparente di norme
stante l’indiscutibile difformità della fattispecie in esame coinvolgenti
beni giuridici diversi. Invero, l’inciso “salvo che il fatto costituisca più
grave reato” presuppone, perché operi in concreto il meccanismo
dell’assorbimento, che il reato più grave sia posto a tutela del medesimo
bene-interesse (Sez. 5, sent. n. 6250 del 21/01/2004, Rv. 228087):
ipotesi che, certamente, non ricorre nel caso di specie, perché l’art. 615
bis cod. pen. è posto a tutela della riservatezza, mentre la ricettazione
tutela il diverso bene-patrimonio.
3.4. La difesa del ricorrente contesta la mancanza del profitto del reato
di ricettazione, evidenziando come il Belleri volesse solo divulgare le
fotografie e lo scoop non gli avrebbe fruttato (come, in effetti, non ha
fruttato) né alcun vantaggio economico né di carriera (tant’è che dopo
meno di un anno dalla pubblicazione, lo stesso aveva lasciato la
direzione del settimanale Oggi), come già dedotto nei motivi di appello
(nei quali il ricorrente aveva espressamente osservato: “ammesso e non
concesso … che l’appellante si fosse davvero rappresentato la
provenienza delittuosa dei cd … tale profilo non esaurisce il tema, posto
che alla consapevolezza deve aggiungersi anche il fine specifico di lucro,
previsto dall’art. 648 cod. pen., liquidato dalla sentenza in modo assai
sbrigativo e, sia consentito, offensivo per l’appellante che, si sostiene,
avrebbe ricavato un utile professionale e proventi superiori al consueto
per il suo editore”).
Riprendendo di fatto le considerazioni del primo giudice, anche la
sentenza di secondo grado assume che il profitto del reato di
ricettazione possa avere una natura non patrimoniale ed un contenuto
economico da intendersi genericamente, e consistito, nella fattispecie,
nel presunto aumento delle vendite per lo scoop realizzato “in esclusiva
mondiale”.
Ritiene il Collegio che, sotto questo profilo, la censura del ricorrente sia

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fondata in presenza di vizio di motivazione sul punto da parte della
sentenza impugnata.
A fronte di una specifica censura che invitava a considerare che, se
anche il Belleri avesse conseguito, da quella pubblicazione, un utile
professionale e fatto conseguire all’editore proventi superiori al
consueto, non necessariamente tali erano gli scopi, primari ed esclusivi
della propria condotta, a nulla rilevando – ai fini del dolo specifico del

reato in contestazione che richiede un fine di lucro e un profitto ingiusto
o illecito – le eventuali conseguenze secondarie verificatesi che, sebbene
prevedibili, non erano state né volute, né perseguite dall’imputato, la
Corte territoriale “replica” con un sostanziale silenzio tale da integrare il
difetto di motivazione censurabile nella presente sede di legittimità
4. Con la terza censura, il ricorrente invoca la sussistenza della
scriminante del diritto di cronaca.
Sostanzialmente, si evidenzia:
-che il presupposto per un equilibrato bilanciamento delle diverse
istanze di protezione, è la considerazione della libertà di espressione e
della privacy come diritti di pari dignità e meritevoli di egual tutela;
-che, in alcuni suoi precedenti, la Corte europea aveva espressamente
riconosciuto che “la libertà di espressione costituisce la regola e le sue
limitazioni l’eccezione, da interpretarsi restrittivamente e rigorosamente”
e, parimenti, la Suprema Corte (Sez. 3, sent. n. 16236 del 06/05/2010,
Altobelli, non mass.) aveva affermato che reputazione e privacy sono
eccezioni rispetto al generale principio della tutela dell’informazione;
-che la responsabilità del giornalista verso i cittadini prevale sempre nei
confronti di qualsiasi altra;
– che, nella vicenda in esame, il giudice non ha individuato alcuna precisa
sproporzione tra esercizio del diritto di cronaca e violazione dei diritti di
riservatezza della parte civile, avuto riguardo alla notorietà ed
esposizione del personaggio pubblico Berlusconi Silvio e dei temi da lui
stesso trattati;
– che il diritto di cronaca doveva prevalere sul diritto alla riservatezza,
ricorrendo nella fattispecie la verità dei fatti (oggettiva o putativa),
l’interesse pubblico alla notizia e la continenza formale.
4.1. Il Collegio ritiene che detti profili di censura si pongano come mera
reiterazione di argomentazioni già ampiamente trattate dai giudici di
merito: da qui la loro inammissibile riproposizione nella presente sede di

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legittimità.
Invero, per consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte, è
inammissibile il motivo che si risolva nella pedissequa reiterazione di
quello già dedotto in appello e motivatamente disatteso dal giudice di
merito, dovendosi lo stesso considerare non specifico ma soltanto
apparente, in quanto non assolvente la funzione tipica di critica puntuale
avverso la sentenza oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, sent. n.

25559 del 15/06/2012, Pierantoni, non mass.; Sez. 6, sent. n. 22445
del 08/05/2009, Rv. 244181; Sez. 5, sent. n. 11933 del 27/01/2005,
Rv. 231708). In altri termini, è del tutto evidente che, a fronte di una
sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la
pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione
non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto
affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi, pertanto, i motivi sono
necessariamente privi dei requisiti di cui all’art. 581 cod. proc. pen.,
comma 1, lett. c), che impone la esposizione delle ragioni di fatto e di
diritto a sostegno di ogni richiesta (Sez. 6, sent. n. 20377 del
11/03/2009, Rv. 243838).
4.2. In ogni caso, la Corte territoriale, sulla questione dedotta, ha
efficacemente osservato:
-che l’operatività dell’invocata causa di giustificazione non dipende solo
dal fatto che il diritto di cronaca sia stato esercitato entro i limiti
“interni” stabiliti, bensì anche nel rispetto dei “limiti” esterni, posti a
tutela di altri interessi meritevoli di tutela, dovendosi bilanciare diritti di
rango costituzionale, quali sono la libertà di stampa e l’esercizio del
diritto di cronaca e l’inviolabilità e la riservatezza domiciliare in aderenza
ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità;
-che il Belleri, pur rispettando i limiti interni, aveva oltrepassato i limiti
esterni, imposti dal rispetto del diritto alla riservatezza domiciliare;
-che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, vi è intromissione
illecita nella sfera privata allorquando le fotografie sono scattate
surrettiziamente o con strumenti segreti tali da rendere la loro
pubblicazione illecita, quando le notizie sono acquisite in modo
fraudolento o illegale, quando non sono rispettate le regole
deontologiche;
-che, nel bilanciamento tra l’art. 8 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e l’art. 10 che riconosce la libertà

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d’espressione, occorre tener conto anche delle previsioni contenute nel
codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196/2003) e
dell’allegato codice deontologico nell’esercizio dell’attività giornalistica
approvato in data 29 luglio 1998 che, all’art. 3, impone la “tutela del
domicilio e degli altri luoghi di privata dimora … nel rispetto delle norme
di legge e dell’uso corretto di tecniche invasive”;
-che, nella fattispecie, deve essere esclusa anche l’applicazione della

da Belleri nel momento in cui ha creduto di esercitare un diritto quando
ha deciso di pubblicare le foto, non riguarda i presupposti di fatto della
causa di giustificazione.
Principi – riconosce la Corte territoriale – che “hanno ricevuto …
l’importante avallo della Suprema Corte (prima sezione civile) … che,
con sentenza n. 16647 del 29 aprile 2014 … ha dichiarato inammissibile
il ricorso presentato da R.C.S. Periodici s.p.a. avverso la sentenza del
Tribunale di Milano che confermava il provvedimento assunto dal
Garante per la protezione dei dati personali del 13 settembre 2007, con
il quale era stata inibita a R.C.S. Periodici s.p.a. e ad Azphotos s.a.s.
l’ulteriore diffusione di immagini del servizio fotografico realizzato da
Antonio Zappadu e pubblicato sul settimanale Oggi del 17 aprile 2007”.
5. Alla pronuncia consegue l’annullamento della sentenza impugnata ed
il necessario rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per
nuovo giudizio.
In sede di rinvio, la Corte territoriale dovrà fornire adeguata motivazione
sul punto: se, in presenza di un eventuale utile professionale, anche di
natura non economica per sé e/o per l’editore, conseguito dalla
pubblicazione delle sunnominate fotografie, dette utilità possano
integrare il profitto del reato di ricettazione

PQM

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte
d’appello di Milano per nuovo giudizio.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 15.5.2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente

scriminante putativa, in quanto l’eventuale valutazione erronea operata

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