Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 25353 del 03/06/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 25353 Anno 2015
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
– CHINDAMO GIUSEPPE, n. 21/03/1948 a Laureana di Borrello

avverso l’ordinanza del tribunale del riesame di REGGIO CALABRIA in data
10/11/2014 ;
visti g li atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consi g liere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. G. Corasaniti, che ha chiesto il ri g etto del ricorso;

Data Udienza: 03/06/2015

RITENUTO IN FATTO

L Con ordinanza emessa in data 10/11/2014, depositata in data 4/02/2015, il
tribunale del riesame di REGGIO CALABRIA rigettava la richiesta di riesame
presentata nell’interesse di CHINDAMO GIUSEPPE, richiesta proposta avverso il
provvedimento 2/10/2014 con cui il GIP presso il medesimo tribunale aveva

formano oggetto il patrimonio aziendale, procedendosi nei confronti del
ricorrente per i reati di cui agli artt. 81 cpv., cod. pen., 8, d. Igs. n. 74 del 2000
e 6, d.l. n. 152 del 1991, conv. in legge n. 203 del 1991, per aver in tempi
distinti e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, quale titolare
dell’omonima stazione di servizio ESSO esercente in Rosarno l’attività di vendita
al dettaglio di carburanti per autotrazione, al fine di consentire alla ditta
individuale Rachele Francesco, alla ditta Rachele Trasporti s.r.l. di evadere le
imposte dirette e VIVA, emesso fatture afferenti ad inesistenti operazioni di
compravendita di carburante, negli anni 2007, 2008 e 2009, per un ammontare
complessivo di C 83.383,66 (ditta individuale) e nell’anno 2009 per un
ammontare di C 14.450,00 (ditta Rachele Trasporti s.r.I.), fatti aggravati in
quanto consumati al fine di agevolare l’attività di associazione mafiosa Pesce cui
le predette ditte erano riconducibili (capi 57 e 70); inoltre, procedendosi per il
reato di riciclaggio in concorso (capo 84), per aver sostituito quattro assegni
bancari (tre emessi dalla predetta ditta individuale Rachele Francesco ed uno
dalla ditta Rachele Trasporti s.r.l., tutti riportanti come beneficiario l’attuale
ricorrente) provenienti da delitto perché derivanti dall’estorsione ai danni del
centro di distribuzione merci CE.DI.SISA o da altra attività delittuosa della cosca
(contrabbando gasolio, contrabbando merce contraffatta, traffico di droga), con
denaro contante riferibile all’attività imprenditoriale di Chindanno Giuseppe in
favore di Pesce Salvatore o comunque per aver compiuto in relazione agli stessi
operazioni tali da ostacolare la provenienza delittuosa, fatti aggravati in quanto
consumati al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa Pesce (fatti
contestati come commessi negli anni dal 2007 al 2009).

2. Ha proposto ricorso CHINDAMO GIUSEPPE a mezzo del difensore fiduciario
cassazionista, impugnando l’ordinanza predetta con cui deduce un unico,
articolato, motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la
motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

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disposto il sequestro preventivo della ditta individuale con i relativi beni che

2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c) ed e)
cod. proc. pen., per violazione dell’art. 648 bis cod. pen., 7, d.l. n. 152 del 1991
(conv. in legge n. 203 del 1991) ed 8, d. Igs. n. 74 del 200, nonché dell’art. 125
cod. proc. pen. sotto il profilo dell’illegittimità del decreto di sequestro preventivo
per mancanza di disponibilità del bene sequestrato e mancata valutazione della
memoria difensiva nonché per l’illegittimità del sequestro per difetto dei
presupposti e dei gravi indizi e mancanza di motivazione sul fumus e sul

In sintesi, la censura investe l’impugnata ordinanza sotto i seguenti profili:
a) erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione per aver il
tribunale disatteso la censura difensiva secondo cui la mancata registrazione
delle fatture di per sé non costituirebbe violazione in presenza dell’annotazione
delle fatture nel registro dei corrispettivi, sicchè nessuna evasione di imposta da
parte della ditta Chindamo si sarebbe verificata, essendo in regime di contabilità
semplificata (i giudici avrebbe errato nell’affermare che i titolari dei distributori di
carburante non registravano alcun danno economico né sotto il profilo reddituale
né a fini IVA dal momento che il debito di imposta, per gli esercenti in questo
settore, non è commisurato alle fatture emesse, che in molti casi non sono state
neppure registrate, bensì ai corrispettivi, complessivamente contabilizzati che
comprendono tutte le vendite di carburante effettuate; sostiene il ricorrente che
il debito di imposta non è commisurato alle fatture emesse ma ai corrispettivi, in
cui è compresa la vendita giornaliera di tutto il carburante, compreso quello
riportato in fattura, pertanto dall’omessa annotazione delle fatture non
deriverebbe alcuna evasione d’imposta e alla violazione conseguirebbe solo una
sanzione amministrativa; ciò sarebbe confermato dal disposto dell’art. 24,
comma secondo, d.P.R. n. 633 del 1972, sicchè il fatto di emettere fatture
ricomprese nelle vendite giornaliere riportate nei corrispettivi equivarrebbe a
registrare un danno economico e, pertanto, risulterebbe infondata l’accusa sul
punto, laddove si ritiene che il debito di imposta non è commisurato alle fatture
emesse);
b) costituirebbe un falso elemento indiziante a carico della ditta Chindamo l’aver
ritenuto esistenti presso le ditte Rachele serbatoi di gasolio utilizzati di
rifornimenti per i propri mezzi di trasporto (detta presenza o gli accertamenti
secondo cui le imprese della famiglia Rachele avrebbero acquistato notevoli
quantità di gasolio in nero sarebbe elemento del tutto neutro ai fini della
responsabilità del Chindamo);
c) la presunta simulazione degli accordi commerciali tra la ditta del Chindamo e
quelle facenti capo alla famiglia Rachele, da cui discenderebbe la ritenuta
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periculum in mora.

falsificazione delle fatture utilizzate dalle ditte facenti capo alla famiglia Rachele,
con la complicità dell’attuale ricorrente, sarebbe smentita da alcuni univoci
elementi non valorizzati dal tribunale e dal GIP (in particolare, si sostiene in
ricorso, che se davvero le due ditte fossero state in rapporti di affari negli anni
2007/2009, la ditta Rachele Francesco non avrebbe contabilizzato fatture per un
importo complessivo pari ad oltre 182.000,00 euro, sicchè la circostanza che le

superiori rispetto al valore complessivo delle fatture emesse dal Chindamo,
evidenzierebbe che le fatture emesse dalla Rachele per l’importo maggiore
sarebbero state emesse ad insaputa del Chindamo, utilizzando a modello la
fattura conosciuta, come dimostrato dal fatto che di tali fatture non sono stati
reperiti gli originali, donde l’inesistenza di qualsiasi accordo sottostante tra
Rachele e Chindamo);
d) mancherebbe qualsiasi riscontro in ordine alla sussistenza dei reati tributari,
atteso che se davvero vi fosse stato un accordo tra il ricorrente e le ditte dalla
famiglia Rachele per l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, gli importi
tra le fatture rilasciate dal Chindamo e quelle ritrovate avrebbero dovuto
coincidere (la motivazione dell’ordinanza impugnata sul punto, sarebbe
inesistente, in quanto sovrapponibile a quella del GIP contenuta nell’ordinanza
genetica, non rilevando il richiamo da parte del tribunale del riesame al principio
affermato dalle Sezioni Unite n. 7 del 1996, non avendo il tribunale assolto alla
funzione di garanzia attribuitagli dalla legge svolgendo un controllo formale ed
estemporaneo dell’ordinanza del GIP);
e) ancora, la circostanza di non aver reperito gli originali delle fatture sarebbe
segnale inequivoco della mancanza di disponibilità del documento originale e
della sicura contraffazione ad opera del beneficiario delle fatture emesse dal
Chindamo (e non dalle ditte facenti capo alla famiglia Rachele, come
erroneamente dedotto a pag. 9 del ricorso); in ogni caso la deduzione ulteriore
secondo cui la ditta Rachele facesse contrabbando di gasolio non costituirebbe
elemento tale da coinvolgere la ditta del Chindamo;
f) fittizia sarebbe, poi, la motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante
dell’art. 7, d.l. n. 152 del 1991, essendosi limitata l’ordinanza impugnata a
riprodurre i passaggi dell’ordinanza genetica o a diffondersi in analisi digressive
ed aspecifiche rispetto alla posizione del Chindamo; inoltre, con riferimento alla
pretesa contiguità del Chindamo alla famiglia Pesce, ai fini della configurabilità
dell’aggravante, vi sarebbe mancanza assoluta di motivazione, osservandosi in
fatto come il genero dell’indagato (Pesce Carmine) sarebbe avulso dal contesto
criminale cui si fa riferimento e, in diritto, che la giurisprudenza di legittimità per
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ditte facenti capo alla famiglia Rachele avessero contabilizzato fatture per importi

ritenere configurabile detta aggravante, ritiene che debbano essere individuati
elementi dimostrativi univocamente della voluta particolare strumentalità
dell’azione delittuosa;
g) si contesta, ancora, l’aver il tribunale disatteso l’eccezione difensiva circa
l’illegittimità del decreto di sequestro in quanto il punto vendita bar-tabacchi
annesso al distributore era stato dismesso dal Chindamo per raggiunti limiti di

di aver ottenuto in affitto dalla Esso con contratto del 17/5/2005 il distributore e
l’annesso complesso aziendale adibito a rivendita di bar-tabacchi; che con
scrittura privata del 21/7/2014 era intercorso tra le parti rinunzia del contratto di
cessione in uso gratuito e, in pari data si era proceduto alla riconsegna; che
successivamente alla riconsegna, non essendo state ancora evase le procedure
per il passaggio a Chindamo Luciana, subentrante, dell’impianto e del complesso
aziendale annesso, la Esso aveva concesso al ricorrente di proseguire l’attività
per il tempo necessario a consentire il perfezionamento delle pratiche
concessorie; che il 21/10/2014, la GdF sottoponeva a sequestro la ditta
individuale del Chindamo esercente l’attività di bar annesso alla stazione di
servizio, nonostante il ricorrente avesse fatto presente di non essere più nella
titolarità dell’impianto di distribuzione; che, peraltro, la Direzione Territoriale
dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli con lettera 13/9/2014, si era riservata
la decisione entro 150 gg. dalla data di presentazione dell’istanza di
assegnazione della gestione al nuovo subentrante); da quanto sopra, sostiene il
ricorrente, emergeva l’illegittimità del sequestro che non avrebbe potuto
attingere il genere monopoli-ricevitoria e bar, rispetto al quale il Chindamo aveva
già comunicato la rinuncia, ma il Collegio della cautela non avrebbe considerato
le allegazioni difensive sul punto;
h) da ultimo, con riferimento al reato di riciclaggio, si censura la mancanza di
motivazione dell’ordinanza impugnata quanto alla sussistenza del

fumus;

l’ordinanza non frinirebbe alcuna indicazione in ordine alla tipologia del delitto
presupposto, non essendo sufficiente a soddisfare l’onere motivazionale il
semplice riferimento alla presenza di biglietti con il nome del Pesce Salvatore
accostati alle copie delle fatture o agli assegni che la ditta Rachele rilasciava al
Chindamo, costituendo questo elemento neutro rispetto al reato contestato, in
assenza di riscontri; l’accusa avrebbe dovuto dimostrare la sostituzione dei titoli
di credito emessi dalle ditte facenti capo alla famiglia Rachele con il denaro
contante riferibile all’attività imprenditoriale del Chindamo in favore di Pesce
Salvatore, sicchè la motivazione sarebbe palesemente carente da un punto di
vista logico e contraddittoria rispetto agli atti processuali.
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età (nel ripercorrere i passaggi amministrativi della vicenda, il ricorrente ricorda

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.

4.

Occorre premettere che, nel caso in esame, le censure avverso il

cod. proc. pen. che, com’è noto prevede che «Contro le ordinanze emesse a
norma degli articoli 322-bis e 324, il pubblico ministero, l’imputato e il suo
difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che
avrebbe diritto alla loro restituzione possono proporre ricorso per cassazione per
violazione di legge».
L’art. 325, comma primo, cod. proc. pen., dunque, prevede che il ricorso in
cassazione avvenga per violazione di legge. In proposito, le Sezioni Unite di
questa Corte hanno affermato che nel concetto di violazione di legge non
possono essere ricompresi la mancanza o la manifesta illogicità della
motivazione, separatamente previste dall’art. 606, lett. e), quali motivi di ricorso
distinti e autonomi dalla inosservanza o erronea applicazione di legge (lett. e) o
dalla inosservanza di norme processuali (lett. c) (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004
– dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc.Bevilacqua, Rv. 226710). Pertanto, nella
nozione di violazione di legge per cui soltanto può essere proposto ricorso per
cassazione a norma dell’art. 325, comma primo, cod. proc. pen., rientrano sia gli
errores in iudicando o in procedendo sia quei vizi della motivazione così radicali
da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del
tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e
ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico
seguito dal giudice (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008 – dep. 26/06/2008,
Ivanov, Rv. 239692), ma non l’illogicità manifesta, che può denunciarsi in sede
di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di ricorso di cui
all’art. 606, 1° co., lett. e), cod. proc. pen. (v., tra le tante: Sez. 6, n. 7472 del
21/01/2009 – dep. 20/02/2009, P.M. in proc. Vespoli e altri, Rv. 242916).

5. Il controllo della Corte di Cassazione è, dunque, limitato ai soli profili della
violazione di legge. La verifica in ordine alle condizioni di legittimità della misura
cautelare è necessariamente sommaria e non comporta un accertamento sulla
fondatezza della pretesa punitiva e le eventuali difformità tra fattispecie legale e
caso concreto possono assumere rilievo solo se rilevabili ictu °cui/ (per tutte:
Sez. U, n. 6 del 27/03/1992 – dep. 07/11/1992, Midolini, Rv. 191327; Sez. U, n.
6

provvedimento impugnato sono esperibili nei ristretti limiti indicati dall’art. 325

7 del 23/02/2000 – dep. 04/05/2000, Mariano, Rv. 215840). La delibazione non
può estendersi neppure all’elemento psicologico del reato e alla ricostruzione in
concreto delle possibili e prevedibili modalità con le quali la condotta contestata
si sarebbe dovuta manifestare; in altri termini, quindi, non è possibile che il
controllo di cassazione si traduca in un controllo che investe, sia pure in maniera
incidentale, il merito dell’impugnazione.

esclusivamente la tesi accusatoria senza svolgere alcun’altra attività. Alla Corte
di Cassazione è, infatti, attribuito, il potere-dovere di espletare il controllo di
legalità, sia pure nell’ambito delle indicazioni di fatto offerte dal pubblico
ministero. L’accertamento della sussistenza del

fumus commissi delicti va

compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non
possono essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le
reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di
verificare se essi consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica.
Pertanto, il tribunale non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere
l’indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni
difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando l’integralità dei
presupposti che legittimano il sequestro (per tutti: Sez. U, n. 23 del 20/11/1996
– dep. 29/01/1997, Bassi e altri, Rv. 206657).
E, in tale contesto, la più recente giurisprudenza di legittimità, ha precisato che
in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, il
giudice, benché gli sia precluso l’accertamento del merito dell’azione penale ed il
sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, deve operare il controllo, non
meramente cartolare, sulla base fattuale nel singolo caso concreto, secondo il
parametro del “fumus” del reato ipotizzato, con riferimento anche all’eventuale
difetto dell’elemento soggettivo, purché di immediato rilievo (v. Corte cost., ord.
n. 153 del 2007; Sez. 6, n. 16153 del 06/02/2014 – dep. 11/04/2014, Di Salvo,
Rv. 259337).

6. Così definito il perimetro del sindacato di questa Corte in materia di
provvedimenti di cautela reale, è dunque evidente come, nel caso in esame, non
sia possibile da parte del Collegio esercitare il sindacato richiesto dal ricorrente
avverso l’impugnata ordinanza.
Ed infatti, le censure della difesa, più che prospettare un vizio di “violazione di
legge” inteso nei limiti indicati dalla giurisprudenza di legittimità, si risolvono in
una critica, oltremodo generica, al procedimento valutativo attraverso il quale il

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Ciò, peraltro, non significa che il giudice debba acriticamente recepire

tribunale del riesame ha ritenuto come – rebus sic stantibus – non sussistessero
elementi sufficienti per poter accogliere le doglianze difensive.

6.1. Ed invero, con riferimento ai profili di doglianza esposti supra al § 2.1.
(lettere b), c), d), e) e g) per come specificamente illustrati), si tratta,
all’evidenza di censure del tutto articolate in fatto, attraverso le quali il

fondamento dell’ordinanza impugnata e della richiamata ordinanza genetica,
tende a far rilevare pretesi errori commessi dal tribunale del riesame nella
ricostruzione fattuale e nella valutazione di detto compendio. Trattasi, com’è
noto, di operazione del tutto inibito in questa sede di legittimità, soprattutto in
relazione al provvedimento in esame, ricorribile nel limitato ambito cognitivo
imposto dall’art. 325 cod. proc. pen.; del resto, il contenuto delle doglianze
sarebbe stato del tutto inammissibile quand’anche l’ordinanza avesse potuto
essere ricorsa anche per vizio motivazionale, atteso che, per costante
giurisprudenza di questa Corte l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo
della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla
Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a
riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle
argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo
convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti,
dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva,
riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la
mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione
delle risultanze processuali (v. per tutte: Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997 – dep.
02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944).
Censurare per vizio di motivazione mancante, apparente o illogica e
contraddittoria un’ordinanza in materia cautelare reale, richiamando per
confutarne il contenuto argomenti che imporrebbero apprezzamenti fattuali a
questa Corte (quali la contestazione circa l’esistenza presso le imprese facenti
capo alla famiglia Rachele di serbatoi di gasolio utilizzati per i rifornimenti dei
mezzi di trasporto; la incongruenza relativa al divario tra l’importo delle fatture
portate in detrazione dalle ditte facenti capo alla famiglia Rachele e quelle
emesse dal Chindamo; l’inesistenza di un accordo tra indagato e famiglia
Rachele basato sul dato logico secondo cui, se l’accordo vi fosse davvero stato,
le fatture avrebbero avuto importi coincidenti nonché, ancora, valorizzando il
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ricorrente, attraverso una rilettura del compendio indiziario e probatorio posto a

mancato reperimento degli originali della fatture; la pretesa illegittimità del
sequestro dell’annesso bar-ricevitoria per non esserne più titolare il Chindamo,
od, ancora, la pretesa assenza di contiguità tra Chindarno e la famiglia Pesce
perché il genero era avulso dal contesto criminale), significa, in ultima analisi,
proporre al giudice di legittimità di esercitare un sindacato sul merito del
provvedimento impugnato che, lo si ribadisce, esula dall’ambito cognitivo di

censurare i fatti posti a fondamento del provvedimento, ma rimedio da esperirsi
unicamente ove esistano e siano configurabili vizi di legittimità, peraltro limitati
alla sola violazione di legge in questa sede cautelare reale.
I predetti motivi si appalesano, quindi, del tutto inesistenti, donde per gli stessi
può esprimersi un giudizio di assoluta inammissibilità (a tacer d’altro, con
riferimento all’unico in relazione al quale potrebbe prospettarsi un fumus di
serietà giuridica, quello relativo alla presunta illegittimità del sequestro per aver
colpito un bene non più nella titolarità dell’indagato, il motivo di ricorso sarebbe
inammissibile per difetto di interesse, in quanto il ricorrente muove la
presupposto che non ne sia più il proprietario, donde legittimato
all’impugnazione è solo il soggetto che tale titolarità rivesta; la prevalente
giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, ritiene infatti
inammissibile per difetto di interesse il ricorso per cassazione proposto
dall’indagato che deduca unicamente di non essere titolare del bene sottoposto a
sequestro preventivo; ai fini dell’impugnazione del provvedimento di sequestro
preventivo è, infatti, necessario che l’indagato prospetti una relazione con il bene
sequestrato che sostenga la sua pretesa alla cessazione del vincolo: da ultimo, v.
Sez. 5, n. 10205 del 18/01/2013 – dep. 04/03/2013, Loccisano, Rv. 255225; ad
ogni buon conto, ove peraltro si ritenesse sussistere l’interesse, il motivo
sarebbe manifestamente infondato atteso che, all’atto del sequestro, era
indubbio che il ricorrente fosse il gestore del compendio – come dal medesimo
confermato in ricorso, v. pag. 11, in cui questi chiarisce che alla data del
21/10/2014 stesse continuando a gestire la privativa nelle more del
perfezionamento del procedimento amministrativo in attesa dell’effettivo
subentro della Chindamo Lucia -, donde il ricorrente ne aveva la disponibilità
giuridica e di fatto, situazione di per sé idonea a giustificare l’apposizione del
vincolo cautelare).

7. Restano da esaminare i residui profili di doglianza, esposti al precedente §
2.1., con particolare riferimento alle lettere a), f) ed h).

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questa Corte, dimenticando che il ricorso per cassazione non è strumento per

7.1. Orbene, con riferimento al primo, con cui in sintesi si censura l’affermazione
del tribunale del riesame per aver ritenuto configurabile il delitto di frode fiscale
sub specie per l’emissione di fatture per operazioni inesistenti in favore delle
ditte facenti capo alla famiglia Rachele, aggravato ai sensi dell’art. 7, d.l. n. 152
del 1991, la lettura dell’ordinanza impugnata consente di ritenerlo del tutto privo
di pregio.

hanno ritenuto il fumus del reato per cui si procede, comprovanti l’inesistenza
delle operazioni sottese alle fatture emesse dal Chindamo in favore delle ditte
facenti capo alla famiglia Rachele, descrivendo anche, al fine di rafforzare il
quadro emergente dagli atti processuali, la ragnatela dei rapporti familiari
intercorrenti tra le due famiglie; l’ordinanza da atto del fatto che la ditta
individuale Rachele Francesco ha contabilizzato fatture un importo superiore ai
182.000,00 euro che, dalla verifica incrociata disposta presso la ditta del
Chindamo, è risultato notevolmente superiore al valore complessivo della fatture
emesse dal Chindamo medesimo; a comprova dell’inesistenza delle operazioni
fatturate i giudici del riesame hanno valorizzato una serie di elementi (mancata
istituzione registro vendite; mancata registrazione fatture; omessa annotazione
sul registro dei corrispettivi da parte dell’impresa Chindamo; tutti elementi che
hanno reso difficile la ricostruzione del volume degli affari della ditta del
ricorrente, sebbene in regime di contabilità semplificata) che denotano la
simulazione dei rapporti commerciali tra la ditta emittente e le ditte utilizzatrici
delle fatture (assenza di dettagli nella descrizione della vendita di carburante;
mancata esibizione e mancato rinvenimento presso gli uffici delle ditte
destinatarie del cosiddetti buoni di consegna la cui conservazione è obbligatoria
ex lege; l’esistenza presso le ditte facenti capo alla famiglia Rachele di serbatoi
di gasolio utilizzati per i rifornimenti dei propri mezzi di trasporto, essendo
risultato l’acquisto in quegli anni di notevoli quantità di gasolio “in nero”, donde
inverosimile è ritenere che si siano rivolte al Chindamo per acquistare a prezzo di
mercato il gasolio; la circostanza che diverse fatture contabilizzate dalla ditta
individuale Rachele fossero costituite da copie fotostatiche e non da documenti
originali; la contiguità del Chíndamo alla famiglia Pesce; le dichiarazioni del
Chindanno che ha limitato i rapporti economici con le ditte facenti capo alla
famiglia Rachele a quelli risultanti dalle fatture esibite dalla sua azienda).
A fronte di tale quadro indiziario di indubbia rilevanza sotto il profilo fattuale e
giuridico, il ricorrente svolge censure apparentemente sostenute da
argomentazioni in diritto, secondo cui la mancata registrazione delle fatture di
per sé non costituirebbe violazione in presenza dell’annotazione delle fatture nel
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I giudici del riesame, infatti, individuano una serie di elementi sulla cui base

registro dei corrispettivi, sicchè nessuna evasione di imposta da parte della ditta
Chindamo si sarebbe verificata, essendo in regime di contabilità semplificata,
sostenendo che il debito di imposta, per gli esercenti in questo settore, non è
commisurato alle fatture emesse, che in molti casi non sono state neppure
registrate, bensì ai corrispettivi, complessivamente contabilizzati che
comprendono tutte le vendite di carburante effettuate, con la conseguenza che

e alla violazione conseguirebbe solo una sanzione amministrativa, come
confermato dal disposto dell’art. 24, comma secondo, d.P.R. n. 633 del 1972.
La censura, come detto, è manifestamente infondata perché il ragionamento
giuridico del ricorrente riposa su un presupposto rimasto indimostrato (ed anzi,
confutato dalle stesse emergenze istruttorie), ossia che la mancata registrazione
delle fatture di per sé non costituirebbe violazione in presenza dell’annotazione
delle fatture nel registro dei corrispettivi, ciò per la semplice osservazione che come si evince dalla lettura dell’ordinanza impugnata – proprio l’omessa
annotazione sul registro dei corrispettivi da parte della ditta del Chindamo aveva
reso difficile la ricostruzione del volume degli affari da parte della ditta
medesima, nonostante in regime di contabilità semplificata.
Peraltro, si osserva, il tribunale del riesame confuta l’argomento difensivo,
proprio richiamando l’art. 21, comma quarto, del d.P.R. n. 633 del 1972. Sul
punto è sufficiente ricordare, per quanto concerne l’emissione della fattura, che,
secondo quanto stabilito dall’art. 6 DPR n. 633/72 la fattura deve essere emessa
al momento di effettuazione dell’operazione (tuttavia, se antecedentemente ad
uno di questi momenti venga pagato un corrispettivo o un acconto, questi
devono essere fatturati nel giorno del pagamento). Per quanto qui di interesse le
fatture di vendita, devono essere registrate entro 15 giorni dalla data di
emissione (salvi i casi particolari di fatturazione in cui rientra quello oggetto di
esame). Riguardo all’ordine della loro numerazione si evidenzia che le fatture
devono essere registrate seguendo l’ordine della loro numerazione tranne nel
caso in cui siano emesse fatture sia in formato cartaceo che in formato
elettronico: il tal caso le fatture devono essere registrate secondo due ordini
numerici differenti corrispondenti, chiaramente, alle due tipologie di emissione
delle fatture. In caso di fatturazione differita – come nel caso in esame – può
essere emessa una sola fattura relativa a tutte le cessioni effettuate nel corso del
mese fra le stesse parti, che deve contenere tutti gli estremi dei documenti di
trasporto emessi nei confronti del soggetto acquirente. L’ordinanza, sul punto,
motiva sottolineando che la ditta del Chindamo, non riportando nella fattura
differita alcuna indicazione della data in cui sono avvenute le cessioni di
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dall’omessa annotazione delle fatture non deriverebbe alcuna evasione d’imposta

carburante e non facendo riferimento ai buoni di consegna o documenti analoghi,
ha adottato una modalità di fatturazione non conforme a quanto previsto dal
predetto art. 21, comma quarto, d.P.R. n. 633 del 1972.

7.2. Quanto, poi, al secondo profilo di doglianza, secondo cui (v. supra § 2.1.,
lett. f), fittizia sarebbe la motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante

con cui si svolgono critiche rispetto all’utilizzo della motivazione per relationem
operata dal tribunale del riesame con rinvio alle argomentazioni di cui
all’ordinanza genetica (operazione del tutto lecita: v., tra le tante, Sez. 1, n. 191
del 12/01/2000 – dep. 04/03/2000, Schinco, Rv. 215364), od ancora, quelle
fattuali, basate sull’affermazione in fatto secondo cui il genero dell’indagato
(Pesce Carmine) sarebbe avulso dal contesto criminale cui si fa riferimento – è
sufficiente, al fine di evidenziarne l’infondatezza manifesta, rilevare come il
tribunale del riesame ritiene sussistere l’aggravante di aver agito per agevolare
la cosca Pesce in base al rilievo che l’azienda beneficiaria della frode, la ditta
Rachele, è riconducibile al Pesce e che le frodi venivano messe in piesi per
procurare liquidità alla stessa.
Tale, pur sintetico, apparato argonnentativo, è sufficiente a soddisfare l’onere
motivazionale richiesto ai fini della configurabilità del fumus di detta aggravante,
non rivestendo alcun pregio le censure difensive secondo le quali avrebbero
dovuto essere individuati elementi dimostrativi univocamente della voluta
particolare strumentalità dell’azione delittuosa.
Ed invero, osserva il Collegio, la circostanza aggravante di cui all’art. 7 D.L. n.
152 del 1991, convertito nella legge n. 203 del 1991 – integrata dalla finalità di
agevolare l’associazione di tipo mafioso – ha natura oggettiva (v., tra le tante:
Sez. 5, n. 10966 del 08/11/2012 – dep. 08/03/2013, Minniti, Rv. 255206).
È dunque sufficiente che il reo abbia agito al fine di agevolare l’attività
dell’associazione criminale, perché detta aggravante, di natura oggettiva, sia
configurabile a suo carico (ossia valutabile a carico del reo se da questi
conosciuta o ignorata per colpa o ritenuta inesistente per errore determinato da
colpa, ex art. 59, comma secondo, cod. pen.), non sussistendo – attesa l’ampia
formulazione dell’art.59, comma secondo, cod. pen., introdotto dalla legge 7
febbraio 1990 n. 19 – logica incompatibilità tra l’imputazione a titolo di dolo della
fattispecie criminosa base (l’art. 8, d. Igs. n. 74 del 2000) e quella, a titolo di
colpa, di un elemento accidentale come la circostanza in questione.
Deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto:

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dell’art. 7, d.l. n. 152 del 1991 – in disparte le censure puramente contestative

«In tema di reati tributari, al fine della configurabilità dell’aggravante del c.d.
metodo mafioso prevista dall’art. 7, d.l. n. 152 del 1991, conv. in legge n. 203
del 1991, è sufficiente che il reo abbia agito al fine di agevolare l’attività
dell’associazione criminale, in quanto, essendo avendo detta aggravante natura
oggettiva, la stessa è valutabile a suo carico se da questi conosciuta o ignorata
per colpa o ritenuta inesistente per errore determinato da colpa, non sussistendo

dalla legge 7 febbraio 1990 n. 19 – logica incompatibilità tra l’imputazione a
titolo di dolo della fattispecie criminosa base (nella specie, l’art. 8, d. Igs. n. 74
del 2000) e quella, a titolo di colpa, di un elemento accidentale come la
circostanza in questione».

7.3. Resta, infine, da esaminare il terzo ed ultimo profilo di doglianza (v. supra §
2.1., lett. h), con cui il ricorrente svolge censure riferibili alla valutazione di
sussistenza del fumus del reato di riciclaggio, in particolare poiché l’ordinanza
impugnata non fornirebbe alcuna indicazione in ordine alla tipologia del delitto
presupposto, non essendo sufficiente a soddisfare l’onere motivazionale il
semplice riferimento alla presenza di biglietti con il nome del Pesce Salvatore
accostati alle copie delle fatture o agli assegni che la ditta Rachele rilasciava al
Chindamo, costituendo questo elemento neutro rispetto al reato contestato, in
assenza di riscontri, ciò in quanto l’accusa avrebbe dovuto dimostrare la
sostituzione dei titoli di credito emessi dalle ditte facenti capo alla famiglia
Rachele con il denaro contante riferibile all’attività imprenditoriale del Chindamo
in favore di Pesce Salvatore.
Sul punto, il tribunale del riesame, dopo aver descritto le risultanze investigative,
osserva come risulti per tabulas che il Chindamo abbia riciclato assegni
formalmente emessi in suo favore dalla ditta Rachele, aventi causa in simulate
operazioni di vendita di gasolio, ma destinati al ramo della famiglia Pesce,
tramite il figlio (Salvatore) del capo (Rocco); ciò risulterebbe, secondo quanto
affermano i giudici del riesame, dalle fotocopie degli assegni rinvenuti in sede di
verifica presso la ditta Rachele Francesco, recanti la firma ed il nominativo di
Pesce salvatore, spillate direttamente alle fatture contabilizzate dall’apparente
acquirente Rachele Francesco; detta circostanza dimostrerebbe che gli assegni
non siano stati emessi realmente a titolo di pagamento di carburante al
beneficiario indicato, ma cambiati di fatto in favore della persona la cui firma o
nominativo è riportato sull’assegno, con l’unica finalità di impedire la sua
identificazione del reale beneficiario; nel confutare le doglianze difensive,
peraltro, i giudici del riesame (pag. 6) sottolineano come il confezionamento
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– attesa l’ampia formulazione dell’art.59, comma secondo, cod. pen., introdotto

della fatture rappresentava solo uno schermo per fornire una parvenza di legalità
a denaro illecito delle aziende mafiose Rachele e Franco, che poi refluiva, tramite
Pesce Salvatore, reale destinatario degli assegni, nelle casse dell’organizzazione
mafiosa.
A fronte di tale ricostruzione, coerente con le emergenze investigative, le
censure del ricorrente appaiono del tutto prive di pregio.

vista logico e contraddittorietà rispetto agli atti processuali – attesa la non
evocabilità in questa sede ex art. 325 cod. proc. pen. di detta categoria di vizi, la
critica difensiva – secondo cui il

fumus del reato di riciclaggio sarebbe

insussistente perché l’accusa avrebbe dovuto dimostrare la sostituzione dei titoli
di credito emessi dalle ditte facenti capo alla famiglia Rachele con il denaro
contante riferibile all’attività imprenditoriale del Chindamo in favore di Pesce
Salvatore -, si presenta meramente contestativa e, per di più, del tutto priva di
substrato giuridico, in quanto confliggente con la consolidata giurisprudenza di
legittimità sul punto.
Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che ai fini della
configurabilità del reato di riciclaggio non si richiede l’accertamento giudiziale del
delitto presupposto, né dei suoi autori, né dell’esatta tipologia di esso, essendo
sufficiente che sia raggiunta la prova logica della provenienza illecita delle utilità
oggetto delle operazioni compiute e ciò “a fortiori” nell’ambito del procedimento
cautelare in cui è sufficiente la “probatio minor” scaturente dalla valutazione di
gravità degli indizi acquisiti (v., tra le tante: Sez. 5, n. 36940 del 21/05/2008 dep. 26/09/2008, Magnera, Rv. 241581).
Da qui, dunque, la manifesta infondatezza del motivo.

8. Il ricorso dev’essere, pertanto, dichiarato inammissibile. Segue, a norma
dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della
Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di una somma che si stima
equo fissare, in euro 1000,00 (mille/00).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 03/06/2015

In disparte, ancora una volta la censura di carenza di motivazione da un punto di

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