Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 24966 del 22/04/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 24966 Anno 2015
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Pesce Grazia, nata a San Michele Salentino (Br) il 25/5/1972

avverso l’ordinanza pronunciata dal Tribunale del riesame di Lecce in data
7/11/2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Sante Spinaci, che ha chiesto il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 7/11/2014, il Tribunale del riesame di Lecce, su
impugnazione del pubblico ministero, riformava l’ordinanza emessa dal Giudice
per le indagini preliminari presso il Tribunale di Brindisi il 13/10/2014 e, per
l’effetto, applicava a Grazia Pesce la misura interdittiva del divieto di esercitare
imprese od uffici direttivi di persone giuridiche ed imprese; la stessa risultava
indagata per i reati di cui agli artt. 5 e 10, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74, per aver

Data Udienza: 22/04/2015

omesso dichiarazioni dei redditi e per aver occultato scritture contabili e
documenti di cui è obbligatoria la conservazione.
2. Propone ricorso per cassazione la Pesce, personalmente, deducendo – con
un unico, complesso motivo – la mancanza, contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione; il Tribunale del riesame avrebbe applicato la misura
in assenza dei presupposti di legge, atteso che, nel caso di specie, difetterebbero
sia il fumus boni iuris che le esigenze cautelari. Quanto al primo, l’ordinanza non
avrebbe considerato che la gran parte della documentazione era stata, in realtà,

avrebbe comunque impedito la ricostruzione del volume di affari (peraltro,
eseguita dalla Guardia di Finanza in modo errato, senza tener conto dei costi), sì
da escludere il delitto di cui al citato art. 10, invero individuabile solo a fronte di
una impossibilità assoluta o, quantomeno, parziale. Di seguito, la Pesce afferma
che difetterebbero le esigenze cautelari, sia per la regolare tenuta della
contabilità in epoca recente, sia per il carattere individuale della propria attività
economica, destinata a cessare qualora non seguita direttamente dalla stessa
ricorrente.

CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Occorre premettere che costituisce indirizzo ermeneutico più volte affermato
da questa Corte quello per cui, in tema di impugnazione delle misure cautelari
personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la
violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della
motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di
diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei
fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate
dal giudice di merito (Sez. 6, n. 11194 dell’8/3/2012, Lupo, Rv. 252178; Sez. 5,
n. 46124 dell’8/10/2008, Pagliaro, Rv. 241997); del pari, alla Corte suprema
spetta solo il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio
di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato
adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità
del quadro indiziario a carico dell’indagato, nonché di controllare la congruenza
della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai
canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle
risultanze probatorie (per tutte, Sez. 4, n. 26992 del 29/5/2013, Tiana, Rv.
255460).

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offerta in visione alla Guardia di Finanza. Ancora, l’assenza di poche fatture non

Ciò premesso, ritiene la Corte che il Tribunale del riesame di Lecce abbia
fatto buon governo di questi principi, redigendo una motivazione adeguata, priva
di contraddizioni e sostenuta da solido argomento logico-giuridico.
Innanzitutto, l’ordinanza ha individuato il fumus delle condotte contestate
(artt. 5 e 10, d. Igs. n. 74 del 2000), delle quali ha richiamato gli elementi
indiziari: la Pesce, invero, non aveva presentato le previste dichiarazioni dei
redditi con riguardo al 2012 (così, peraltro, risultando evasore totale) ed aveva
occultato molteplici documenti ed altre scritture contabili di cui è obbligatoria la

un ammontare complessivo di circa 1,4 milioni di euro). Da ciò derivando che la
ricostruzione del volume di affari era risultata possibile soltanto attraverso
controlli incrociati e questionari inviati ad altre imprese (che avevano
intrattenuto rapporti commerciali con la ditta individuale della Pesce); quel che,
per costante indirizzo di questa Corte, non esclude affatto il delitto di cui all’art.
10 cit., atteso che l’impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d’affari
derivante dalla distruzione o dall’occultamento di documenti contabili non deve
essere intesa in senso assoluto e sussiste anche quando è necessario procedere
all’acquisizione presso terzi della documentazione mancante (per tutte, Sez. 3, n.
36624 del 18/7/2012, Pratesi, Rv. 253365).
Con riguardo, poi, alle esigenze cautelari, il pericolo di reiterazione di
condotte analoghe è stato individuato dal Tribunale ancora con motivazione
adeguata e priva di vizi logici. In particolare, l’ordinanza ha evidenziato 1) che le
violazioni erano state reiterate, a far data dal 2011; 2) che la Pesce risulta
indagata in altra vicenda giudiziaria, sempre concernente reati tributari; 3) che
la circostanza dedotta dalla difesa – in ragione della quale la ricorrente, oggi,
farebbe curare la contabilità da un professionista – non assicura la dovuta
garanzia, atteso che quest’ultimo «si limita a ricevere la documentazione fiscale
che gli è prodotta dall’imprenditore, sicché la scelta delle scritture o della
documentazione da consegnare al professionista è tutta rimessa alla
discrezionalità ed all’onestà dell’imprenditore».
Orbene, a fronte di questa motivazione, il ricorso innanzitutto sollecita alla
Corte una valutazione in fatto delle medesime risultanze investigative già
esaminate dal primo e secondo Giudice di merito (in particolare, qualità e
quantità delle fatture, esibite e non, nonché delle scritture contabili; esame dei
costi di gestione), invocandone una valutazione diversa e più favorevole; quel
che, come indicato in premessa, non è consentito in questa sede. Ancora, il
ricorso afferma che il delitto di cui all’art. 10 cit. sarebbe escluso ogniqualvolta
sia comunque possibile accertare il volume di affari, anche in esito a complesse e
lunghe indagini; quel che, però, contrasta con il pacifico indirizzo di legittimità

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conservazione (in particolare, fatture relative agli anni 2011, 2012 e 2013, per

sopra richiamato. Quanto, infine, alle esigenze cautelari, la Pesce, per un verso,
riprende le medesime considerazioni già mosse nel primo gravame circa
l’incarico conferito ad un professionista, ma oblitera del tutto le affermazioni
contenuto sul punto nell’ordinanza; per altro verso, espone considerazioni
extragiuridiche (l’esito infausto dell’attività, qualora non seguita direttamente
dall’indagata) che, come tali, non possono esser certo considerate quale una
censura all’ordinanza del Tribunale di Lecce.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della

fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 22 aprile 2015

Il onsigliere estensore

Il Presidente

sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella

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