Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 24775 del 17/04/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 24775 Anno 2013
Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO
Relatore: ROMIS VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
FERRARO ANIELLO N. IL 02/01/1965
nei confronti di:
MINISTERO ECONOMIA E FINANZE
avverso l’ordinanza n. 112/2009 CORTE APPELLO di NAPOLI, del
25/11/2010
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZQ ROMIS;
lette seetite le conclusioni del PG Dott. C,-1 4r-Li t..0
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Uditi difensor Avv.;

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Data Udienza: 17/04/2013

RITENUTO IN FATTO

Ferrara Aniello veniva tratto in arresto in esecuzione di ordinanza cautelare del GIP del
Tribunale di Napoli in data 1 luglio 2003 per i reati di cui agli artt. 74 e 73 e del d.P.R. n.
309/90 (ivi compreso l’episodio relativo all’arresto in flagranza del 28 marzo 2002, per il
quale procedeva altra autorità); il Tribunale del riesame in data 16 luglio 2003 annullava
Corte di Cassazione rigettava il ricorso del P.M.; il GUP del Tribunale di Napoli, all’esito di
giudizio abbreviato, con sentenza del 15 ottobre 2007, divenuta irrevocabile il 27 gennaio
2008, assolveva il Ferrara per non aver commesso il fatto (nell’ordinanza impugnata ad un
certo punto si legge che l’assoluzione era stata pronunciata dal Tribunale di Avellino, ma si
tratta di un errore perché si trattava del GUP del Tribunale di Napoli): nella sentenza di
assoluzione, il giudicante osservava che a carico del Ferrara nessun altro significativo
elemento probatorio era emerso oltre quello dell’arresto del 28 marzo 2002 (e si dava atto
che per tale episodio aveva proceduto altra Autorità).
Con domanda presentata alla Corte di Appello di Napoli il Ferrara chiedeva quindi l’equa
riparazione per la detenzione subita, a suo avviso ingiustamente, dal 1° al 16 luglio 2003.
La Corte d’Appello adita, provvedendo con l’ordinanza indicata in epigrafe, rigettava la
domanda. In particolare la Corte territoriale, dopo aver riportato taluni brani della sentenza
assolutoria, riteneva ravvisabili nella condotta del Ferrara – analogamente a quanto
osservato dalla stessa Corte, nella medesima composizione collegiale, nel rigettare la
domanda di equa riparazione avanzata dal Ferrara per la detenzione dal 28 al 30 marzo
2002 con riferimento all’episodio culminato con l’arresto in flagranza (cfr. ordinanza della
Corte d’Appello di Napoli in pari data, oggetto di altro ricorso del Ferrara R.G.

n.

19148/2012 – deciso da questa stessa Sezione in data odierna) – gli estremi della colpa
grave, ostativa al diritto all’equa riparazione sulla scorta delle seguenti specifiche
circostanze fattuali che, ad avviso della Corte medesima, unitamente a quanto desumibile
dalla sentenza di assoluzione, avevano legittimato l’intervento dell’Autorità nei confronti del
Ferraro con l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare: 1) il Ferrara era alla guida di
un’auto e non si era fermato al segnale di “Alt” impostogli dalla Polizia, dandosi alla fuga e
costringendo quindi gli Agenti ad un inseguimento; 2) durante la fuga, il passeggero accanto
al Ferrara – poi identificato per Ferrara Attillo – aveva gettato dal finestrino un involucro;
3) gli Agenti, all’esito dell’inseguimento, avevano recuperato l’involucro, al cui interno erano
stati rinvenuti 5 grammi di cocaina e 5 grammi di eroina, ed avevano arrestato i due.
Avverso detto provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione il Ferrara, con atto di
impugnazione sottoscritto dal difensore, deducendo vizio motivazionale in ordine alla
ritenuta sussistenza della colpa grave, sostenendo che la Corte territoriale sarebbe incorsa
in errore di impostazione e prospettiva nel valutare le risultanze processuali ai fini che in

l’ordinanza cautelare per motivi formali, con conseguente scarcerazione del Ferrara, e la

questa sede interessano, in particolare attribuendo rilievo a condotte che non potrebbero
considerarsi in contrasto con le ordinarie norme di prudenza; il ricorrente ha in particolare
precisato che: a) già al momento dell’arresto in flagranza del 28 marzo 2002 – episodio
rimasto estraneo alla sentenza di assoluzione “de qua”, avendo in proposito proceduto altra
Autorità, e ritenuto dal giudice della cognizione quale unico elemento probatorio a carico del
Ferraro – gli investigatori avevano elementi sufficienti per ritenere che la droga rinvenuta
nella disponibilità del Ferrare) fosse destinata all’uso personale dello stesso, potendo ciò
ascoltate dalla Polizia Giudiziaria, dal cui contenuto sarebbe stato possibile desumere che il
Ferraro aveva avuto contatti e colloqui telefonici finalizzati a prendere accordi con la
persona che avrebbe dovuto fornirgli lo stupefacente per il suo personale fabbisogno, come
poi riconosciuto dal Tribunale di Napoli con la sentenza di assoluzione relativa a tale
specifico episodio (sentenza dalla quale è scaturito l’altro procedimento di equa riparazione
di cui questa Sezione si è occupata, come dianzi accennato, in data odierna); b) il Ferraro
aveva riferito nell’interrogatorio di garanzia ex art. 294 c.p.p. che la droga rinvenuta nella
sua disponibilità era destinata al suo uso personale; c) il Ferraro sarebbe rimasto estraneo a
qualsiasi contesto associativo; d) l’ordinanza cautelare per il reato associativo sarebbe stata
quindi emessa illegittimamente.
Si è costituito il Ministero dell’Economia e delle Finanze – tramite l’Avvocatura Generale
dello Stato – depositando memoria finalizzata a contrastare la pretesa del ricorrente,
anche con il richiamo di precedenti di questa Corte.
E’ pervenuta poi memoria del difensore del Ferraro con ulteriori argomentazioni a
sostegno del proposto gravame.
Con la sua requisitoria scritta, il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto il
rigetto del ricorso.
Il ricorrente con atto pervenuto il 2/2/2013 ha manifestato rinuncia ad eventuale pubblica
trattazione, nonostante la pendenza di questione di costituzionalità a riguardo del rito,
sollevata dalle S.U. di questa Corte con ordinanza del 18/10/2012.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere rigettato per le ragioni di seguito indicate.
Secondo i principi elaborati ed affermati nell’ambito della giurisprudenza di questa Suprema
Corte, nei procedimenti per la riparazione per l’ingiusta detenzione, in forza della norma di
cui all’art. 646, secondo capoverso, c.p.p. – da ritenersi applicabile per il richiamo
contenuto nel terzo comma dell’art. 315 c.p.p. – la cognizione della Corte di Cassazione
deve intendersi limitata alla sola legittimità del provvedimento impugnato, ovviamente
anche sotto l’aspetto della congruità e logicità della motivazione, e non al merito. E, per
quel che concerne la verifica dei presupposti e delle condizioni richieste perchè sussista in
concreto il diritto all’equa riparazione – in particolare, l’assenza del dolo o della colpa grave
dell’interessato nella produzione dell’evento restrittivo della libertà personale – le Sezioni

desumersi dalle conversazioni telefoniche, oggetto di attività di intercettazione in corso ed

Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza N. 43 del 13/12/1995-9/2/1996, hanno
enunciato il principio di diritto secondo cui la Corte territoriale deve procedere ad autonoma
valutazione delle risultanze processuali rispetto al giudice penale. Ed in epoca ancor più
recente, le stesse Sezioni Unite (SU 26.6.2002, De Benedictis, RV 222263) hanno
ulteriormente precisato quanto segue: “in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il
giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con
dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi
eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti,
fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è
incensurabile in sede di legittimità (Nell’occasione, la Corte ha affermato che il giudice deve
fondare la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni,
esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita della libertà
personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza, che quest’ultimo abbia avuto,
dell’inizio dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale
condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato,
ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua
configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad
effetto)”.
Nella fattispecie in esame, la Corte d’Appello di Napoli, per quanto si evince dall’impugnata
ordinanza, ha motivato il proprio convincimento attraverso un adeguato percorso
argomentativo con le considerazioni sopra sinteticamente ricordate; orbene appare
all’evidenza che trattasi di un “Iter” motivazionale assolutamente incensurabile in quanto
caratterizzato da argomentazioni pienamente rispondenti a criteri di logicità ed adeguatezza,
nonchè in sintonia con i principi enunciati da questa Corte in tema di dolo e colpa grave
quali condizioni ostative al diritto all’equa riparazione: si ha colpa grave allorquando il
soggetto sia venuto meno all’osservanza di un dovere obiettivo di diligenza, con possibilità
di prevedere che, non rispettando una regola precauzionale, venendo meno all’osservanza
del dovere di diligenza, si sarebbe verificato l’evento “detenzione” (cfr., fra le tante: Sez. 4,
n. 3912/96 – cc. 29/11/95 – RV. 204286; Sez. 4, n. 596/96, RV. 204624); la sinergia, sulla
custodia cautelare, del comportamento dell’istante può riguardare “sia il momento genetico

che Quello del permanere della misura restrittiva” ( così, “ex plurimis”, Sez. 4, n. 963/92,
RV. 191834).
Giova evidenziare, ancora, che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 43 del
1995 già sopra ricordata, hanno sottolineato che: a) “deve intendersi dolosa non solo la
condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini
fattuali, sia esso conflIggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta
consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il
parametro dell’«id quod plerumque accidit» secondo le regole di esperienza
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probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino

comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso
Intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in
pericolo”; b) “poichè inoltre, anche ai fini che qui interessano, la nozione di colpa è data
dall’art. 43 cod. pen., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla
riparazione quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per
evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi,
regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma
provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso”.
Il giudice dell’equa riparazione non è venuto meno al compito attribuitogli di apprezzare, in
modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori a sua disposizione e di fornire
adeguata e congrua motivazione del convincimento conseguito: ed invero, non soltanto ha
valutato gli elementi probatori che aveva a disposizione, ma ha altresì individuato la
condotta gravemente colposa del richiedente, che aveva caratterizzato le fasi antecedenti il
provvedimento restrittivo della libertà personale.
L’ordinanza impugnata non può certo ritenersi – come sostenuto dal ricorrente – affetta da
vizio di motivazione.
Le argomentazioni intese a dimostrare la sussistenza della colpa grave fanno leva su
circostanze significative, peraltro confermate dal Tribunale pur nella sentenza di
assoluzione: a) “in primis”, la condotta del Ferraro in occasione dell’episodio del 28 marzo
2002 culminato con l’arresto, e cioè l’inottemperanza al segnale di “Alt”, la fuga, il tentativo
di disfarsi di un involucro contenente droga; b) il rinvenimento all’interno di tale involucro di
due diverse qualità di droga, 5 grammi di eroina e 5 grammi di cocaina; c) i ripetuti contatti
telefonici durante quella giornata, comunque rivelatori di dimestichezza con ambienti di
trafficanti; d) il linguaggio criptico usato nel corso delle telefonate. Orbene, appare di tutta
evidenza che siffatte circostanze erano certamente idonee ad indurre ad ipotizzare, nella
fase iniziale delle indagini, anche il reato associativo.
Le doglianze del ricorrente, dunque, non colgono nel segno, posto che la Corte territoriale
ha motivato il proprio convincimento, circa la ritenuta sussistenza di una condotta
dell’istante caratterizzata dalla colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto all’equa
riparazione, facendo riferimento a situazioni evidenziate (e quindi ammesse) dal giudice
della cognizione con espressioni di significativa valenza negativa pur nella globale
valutazione di un quadro probatorio conclusivamente ritenuto inidoneo a legittimare una
sentenza di condanna.
La Corte distrettuale, facendo leva anche su taluni passaggi della sentenza di assoluzione,
ha disconosciuto il diritto all’equa riparazione e, di conseguenza, rigettato l’istanza,
dimostrando che il richiedente aveva tenuto una condotta gravemente colposa, che aveva
avuto un’effettiva e concreta incidenza rispetto alla custodia cautelare subita. Si trattava,
invero, di condotta consapevole e volontaria – caratterizzata anche dalla frequentazione di

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prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un

soggetti inseriti nel traffico di droga – che, valutata con il parametro dell’id quod plerumque

accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, erano tali da creare una
situazione di allarme e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria.
Mette conto sottolineare infine che secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa
Corte la colpa grave che osta alla riparazione ben può essere ravvisata nel comportamento
del tossicodipendente che si attivi al fine di procurarsi le sostanze dalle quali dipende, in
presenza di elementi ulteriori che lascino ragionevolmente ritenere che si tratti di attività

Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Sussistono giusti motivi per ritenere compensate tra le parti le spese di lite relative a questo
grado di giudizio, tenuto conto che la memoria di costituzione dell’Avvocatura Generale dello
Stato risulta caratterizzata prevalentemente dal richiamo a precedenti della giurisprudenza
di legittimità, e che nella fase di merito dinanzi alla Corte territoriale l’Avvocatura dello
Stato, come risulta dall’impugnata ordinanza, con la memoria di costituzione non si era
opposta alla liquidazione dell’indennizzo e si era limitata a chiedere solo la determinazione
del quantum a norma di legge e secondo equità.

P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 17 aprile 2013
Il ConsJliere estensore

Il Presidente

finalizzata non solo al consumo personale, ma anche allo spaccio.

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