Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 24760 del 14/11/2012


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 24760 Anno 2013
Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO
Relatore: CIAMPI FRANCESCO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da :
1) FALBO ANTONIO N. IL 28.12.1956
2) ROMANO LORIS N. 2.11.1953
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO DI FIRENZE del 3 ottobre 2011
sentita la relazione fatta dal Consigliere dott. FRANCESCO MARIA CIAMPI;
sentite le conclusioni del PG in persona del dott. Oscar Cedrangolo che ha concluso per la
declaratoria di inammissibilità dei ricorsi

RITENUTO IN FATTO
1.

2.

3.

Con sentenza data 3 ottobre 2011 la Corte d’Appello di Firenze, in parziale riforma
della sentenza emessa in data 12 ottobre 2010 dal GIP presso il Tribunale di
Pistoia, appellata nell’Interesse degli imputati Falbo Antonio e Romano Loris
rideterminava la pena nei confronti del Falbo in anni 4, mesi 2 di reclusione ed C
20.000,00 di multa, confermando nel resto la impugnata sentenza. Gli odierni
ricorrenti erano stati tratti a giudizio unitamente ad altri coimputati per rispondere
di plurime violazioni dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990.
Avverso tale decisione propone ricorso Falbo Antonio a mezzo dei propri difensori
censurando la gravata sentenza per inosservanza o erronea applicazione della
legge penale in relazione al diniego dell’accesso del Falbo al beneficio del
patteggiamento allargato
Propone altresì ricorso a mezzo del proprio difensore Romano Loris lamentando la
violazione dell’art. 606 lett. e) c.p.p. in relazione all’art. 62 bis e 133 c.p.

CONSIDERATO IN DIRITTO
4

I ricorsi sono infondati e vanno pertanto rigettati.
Quanto al ricorso del Falbo, osserva la Corte: il Falbo impugna l’ordinanza emessa
in data 22 settembre 2010, con cui era stata rigettata la richiesta formulata ex
art. 444 c.p.p. e relativa alla applicazione della pena finale di anni tre di reclusione
ed C 13.000,50 di multa. Nell’adottare la decisione il giudice aveva rilevato non
essere stata contestata al Falbo la recidiva reiterata, invitando il PM alla relativa

Data Udienza: 14/11/2012

contestazione. Il diverso giudice che aveva poi definito il giudizio abbreviato
aveva ritenuto di escludere la recidiva, successivamente contestata.
In sede di appello il Falbo aveva già dedotto l’illegittimità del rigetto, dovendosi
intendere che, per essere ostativa all’accesso al cd. patteggiamento allargato, la
recidiva debba essere oltre che accertata nei suoi presupposti, anche ritenuta dal
giudice ed applicata in relazione ai reati per i quali era stata contestata.
Sul punto la Corte territoriale ha evidenziato come i rilievi svolti in appello ed i
richiami alla pronuncia delle SS.UU. n. 35738 del 2010 fossero inconferenti nei
caso di specie ove la richiesta di patteggiamento non era stata accolta, “dopo aver
riscontrato la mancata contestazione dell’aggravante oggettivamente esistente”.
Con l’odierno ricorso il Falbo sembra ignorare tale passaggio motivazionale della
impugnata decisione, reiterando le doglianze in riferimento alla questione della
recidiva quale condizione ostativa all’accesso al patteggiamento ed alla
Interpretazione fornita al riguardo dalla Corte di Cassazione con la sentenza delle
SS.UU. sopra ricordata. Non può che ribadirsi che,come esplicitamente richiede il
co. 2^ dell’art. 444 c.p.p., è demandato al giudice la verifica, tra l’altro, della
correttezza della qualificazione giuridica del fatto, procedendo ex officio a tale
verifica, in termini non meramente formali (limitata cioè alla correttezza solo
estrinseca dell’imputazione), ma anche sostanziale e specifica, vale a dire alla
fattispecie concreta, quale emerge dagli atti, sicché, quando ragionevolmente va
disegnata una diversa qualificazione giuridica del fatto,anche in virtù del riscontro
di un’aggravante non contestata, il giudice, non potendo modificare l’imputazione
d’ufficio in tali termini, stante la natura di procedimento speciale in tema di c.d.
“patteggiamento”, deve respingere la richiesta e procedere con rito ordinario.
Quanto alle doglianze del Romano in ordine al trattamento sanzionatorio ed alla
mancata concessione delle attenuanti generiche, osserva la Corte : per quel che
concerne invece il diniego delle circostanze attenuanti generiche, e’ sufficiente
che il giudice di merito prenda in esame, tra gli elementi indicati dall’articolo
133 c.p., quello (o quelli) che ritiene prevalente e atto a consigliare o meno la
concessione del beneficio; e il relativo apprezzamento discrezionale, laddove
supportato da una motivazione idonea a far emergere in misura sufficiente il
pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità
effettiva del reato ed alla personalità dei reo, non è censurabile in sede di
legittimità se congruamente motivato. Ciò vale, a fortiori, anche per il giudice
d’appello, il quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive
dell’appellante, non è tenuto ad un’analitica valutazione di tutti gli elementi,
favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni
particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e
decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi
e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (v., tra le tante,
Sezione II, 18 giugno 2011, Sermone e altri, RV 249163): il giudice si è attenuto
a tale principio valorizzando negativamente, tra i criteri valutativi tratteggiati
dall’articolo 133 c.p., quello dei precedenti sulla cui base è stata valutata la
capacità a delinquere del Romano, considerato, in modo qui incensurabile come
assorbente ai fini del diniego.
Del resto, non va dimenticato che, secondo principio condivisibile, in tema di
circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa
previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso
più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione
di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che
di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto
adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar
luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di giustificarne
sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata
meritevolezza che necessita, essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di
apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati
ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio;
trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla

P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso nella camera di consiglio del 14 novembre 2012
IL CONSIGLIERE ESTENSORE

IL PRESIDENTE

5.

sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta
all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a
sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta
necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la
richiesta stessa si fonda. In questa prospettiva, è stato ribadito che anche uno
solo degli elementi indicati nell’articolo 133 c.p., attinente alla personalità del
colpevole o alla entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso, può essere
sufficiente per negare o concedere le attenuanti generiche, derivandone così che,
esemplificando, queste ben possono essere negate anche soltanto in base ai
precedenti penali dell’imputato [come, a ben vedere, nel caso di specie] (Sez. II,
10 luglio 2009, Squillace e altro, RV 245241)
Analoghe considerazioni possono essere formulate rispetto al motivo di gravame
concernente la determinazione della pena. Infatti, la valutazione dei vari elementi
rilevanti ai fini della dosimetria della pena rientra nei poteri discrezionali del
giudice il cui esercizio se effettuato nel rispetto dei parametri valutativi di cui
all’articolo 133 c.p. è censurabile in cessazione solo quando sia frutto di mero
arbitrio o di ragionamento illogico, che qui deve senz’altro escludersi, essendo del
resto il giudice pervenuto a tale determinazione sulla base di condivisibili e
motivati elementi.
Al rigetto dei ricorsi consegue ex art. 6116 c.p.p. la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese processuali

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