Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 24545 del 16/05/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 24545 Anno 2014
Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: MARINELLI FELICETTA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MINCIONE GIOVANNI N. IL 11/10/1937
avverso l’ordinanza n. 257/2011 CORTE APPELLO di NAPOLI, del
08/11/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FELICETTA
MARINELLI;
lettel,seRtite-le conclusioni del PG Dott. L(.56 reeàco.A.
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Data Udienza: 16/05/2014

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La Corte di Appello di Napoli, con ordinanza resa
all’udienza camerale del giorno 8.11.2012 rigettava
l’istanza di riparazione presentata nell’interesse
di Mincione Giovanni per ingiusta detenzione in
regime di custodia in carcere dal 5/12/95 al
18/12/96 e dal 19.12.96 al 10.06.97 in regime di
arresti domiciliari perché sospettato del reato di
cui all’art.416 bis, reato da cui era stato dapprima
condannato con sentenza del 15.09.2005 della Corte di
Assise di Santa Maria Capua Vetere, a cui aveva fatto
seguito la sentenza della Corte di Assise di Napoli
dell’11.10.2010, irrevocabile dal 25.02.2011, che
aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti
del Mincione per vincolo di precedente giudicato,
essendo stato egli assolto in relazione al medesimo
fatto con sentenza del Tribunale sanmaritano del
21.11.2000, confermata con sentenza della Corte di
appello di Napoli del 5.07.2004, irrevocabile dal
21.10.2005.
La Corte di appello di Napoli aveva respinto
l’istanza di riconoscimento della riparazione per
ingiusta detenzione, in quanto aveva ritenuto la
sussistenza della colpa grave. In particolare aveva
ritenuto colposa la condotta tenuta da Mincione
Giovanni, presidente del Consorzio di calcestruzzo
CEDIC, operante nel territorio casertano, il quale
aveva intrattenuto rapporti con soggetti attivamente
inseriti nella locale organizzazione mafiosa detta
dei casalesi per la trattazione di questioni
economiche relative all’attività imprenditoriale
dallo stesso svolta, aveva mentito al G.I.P. su
alcune circostanze rilevanti, aveva emesso fatture
gonfiate per garantire il pagamento delle tangenti
alla camorra da parte dei singoli consorziati.
Mincione Giovanni, a mezzo del suo difensore,
proponeva quindi ricorso per cassazione avverso
l’ordinanza della Corte di appello di Napoli e
concludeva chiedendone l’annullamento.
Il ricorrente censurava l’ordinanza impugnata per
violazione ed erronea applicazione degli articoli 314
e 315 cod.proc.pen. e per manifesta illogicità della
e)
606 comma l lett.
ex art.
motivazione
cod.proc.pen., in particolare nella parte in cui la
Corte di appello rimproverava in termini di colpa
grave condotte insuscettibili a suo avviso di essere
riguardate alla stregua di macroscopica negligenza e
trascuratezza. Pertanto, ad avviso del ricorrente,
non sussisterebbe la colpa grave, impeditiva del
riconoscimento del diritto all’equa riparazione.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze a mezzo

Ritenuto in fatto

P/

dell’Avvocatura Generale dello Stato presentava
tempestiva memoria e concludeva chiedendo di voler
dichiarare inammissibile il proposto ricorso ovvero
di rigettarlo.

Il ricorso è infondato.
Osserva la Corte che il diritto a equa riparazione
per l’ingiusta detenzione, regolato dagli artt. 314
e ss. c.p.p., trova fondamento nella condizione
soggettiva della persona sottoposta a detenzione
immeritata e in tal senso ingiusta. Il quadro
sistematico di riferimento è un quadro di diritto
civile ma non è quello dell’art. 2043 c.c. che
appresta sanzioni contro chi produce per dolo o colpa
un danno ingiusto ad altri. Il principio regolatore è
piuttosto quello della riparazione legata ad eventi
che producono il sorgere, quali conseguenze di
principi di solidarietà e di giustizia distributiva,
di responsabilità da atto lecito ( la distinzione
tra responsabilità per danno ingiusto ex art. 2043
c.c. e responsabilità per atto lecito è ben chiarita
da Cass. SS.UU. civ. 11/6/2003 n. 9341). E’ ben
fermo, in materia, l’assetto delle regole
generalissime che disciplinano l’onere della prova
civile ex art. 2697 c.c. posto che il procedimento
relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione,
quantunque si riferisca ad un rapporto
comporti
e
di diritto pubblico
obbligatorio
il
rafforzamento
dei
poteri
officiosi
del
perciò
tuttavia ispirato ai principi del
e’
giudice,
processo civile, con la conseguenza che l’istante
della
ha l’onere di provare i fatti costitutivi
domanda, la custodia cautelare subita e la
successiva assoluzione ( Corte Cass. Sez. 4 sent. n.
23630 02/04/2004 – 20/05/2004 ). Peraltro il
sorgere del diritto è condizionato alla esistenza di
una condotta del richiedente che al tempo del
processo in nulla abbia dato causa o concorso a dare
causa a quella ingiusta detenzione. L’operazione
intesa a cogliere tali condizioni deve scandagliare
solo l’eventuale efficienza causale delle condotte
dell’imputato che possano aver indotto, anche nel
concorso dell’altrui errore, secondo una valutazione
il giudice a
ragionevole e non congetturale
(Cass. SSUU
stabilire la misura della detenzione
13/12/95 n. 43, Sez IV 10/3/2000 n. 1705).

Considerato in diritto

Il giudice, pertanto, deve fondare la sua decisione
su fatti concreti e precisi e non su mere
supposizioni, esaminando la condotta del richiedente,
sia prima e sia dopo la perdita della libertà
personale, indipendentemente dall’eventuale
conoscenza che quest’ultimo abbia avuto dell’attività
di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex
ante, non se tale condotta integri estremi di reato,
ma solo se sia stato il presupposto che ha
ingenerato, ancorchè in presenza di errore
dell’autorità procedente, la falsa apparenza della
sua configurazione come illecito penale, dando luogo
alla detenzione con rapporto di causa ad effetto
(cfr. Cass. Sezioni Unite, Sent. n.34559/2002; Cass.,
Sez.4, Sent. n.17552 del 2009)
Tanto premesso si osserva che la Corte di Appello di
Napoli, con motivazione adeguata, ha enucleato,con
congrua verifica degli accertati elementi di
riferimento, la condotta del richiedente ostativa
all’accoglimento dell’istanza di equa riparazione. In
primo luogo ha posto in rilievo il comportamento del
Mincione che aveva consentito l’ingresso nel
consorzio tra le imprese di calcestruzzo da lui
gestito di società appartenenti, anche se intestate a
prestanomi, ad esponenti di livello elevato
dell’associazione camorristica, denominata clan dei
casalesi. Ritiene la Corte territoriale, con
motivazione logica, che il ricorrente fosse
consapevole di tale appartenenza camorristica, avendo
avuto egli stesso fin da subito forti dubbi tanto da
recarsi in prefettura per avere delucidazioni. Veniva
altresì rilevato dalla Corte territoriale che tale
condotta era posta in essere per rafforzare il
consorzio stesso sul piano imprenditoriale, così come
lo stesso Mincione aveva sostenuto nel corso del
procedimento. Né rileva il fatto che tale condotta
non è stata ritenuta sufficiente ad integrare il
reato di associazione camorristica, ben potendo la
stessa essere valutata ai fini del riconoscimento o
meno dell’indennizzo per ingiusta detenzione.
Questo essendo il quadro accusatorio, il motivo
proposto dall’odierno ricorrente non può essere
accolto.
il
definisce
che
impugnato,
provvedimento
Il
procedimento per la riparazione dell’ingiusta
detenzione, supera quindi il vaglio di questa Corte
che è limitato alla correttezza del procedimento
logico giuridico con cui il Giudice è pervenuto ad
accertare o negare i presupposti per l’ottenimento
del beneficio indicato. Resta invece nelle esclusive
attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a
motivare adeguatamente e logicamente il suo

Pi

convincimento,
la
valutazione
sull’esistenza
e
gravità della colpa e sull’esistenza del dolo.
Il
legislatore
non
ha
infatti
riconosciuto
incondizionatamente il diritto all’equa riparazione,
ma l’ha esplicitamente escluso allorquando il
comportamento dell’indagato,
come appunto nella
fattispecie de qua, abbia indotto in errore il
giudice circa l’esistenza dei gravi indizi di
colpevolezza a suo carico.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato e il
ricorrente deve essere condannato al pagamento delle
spese processuali nonché alla rifusione delle spese
di questo giudizio in favore del Ministero resistente
che si liquidano in complessivi euro 1.000,00.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali nonchè alla
rifusione delle spese del grado in favore del
Ministero dell’Economia che liquida in euro 1.000,00.
Così deciso in Roma il 16.05.2014

a

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