Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 24490 del 11/12/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 24490 Anno 2013
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Danisi Matteo, nato a Nocera Superiore il 21/09/1964

avverso la sentenza della Corte di appello di Salerno emessa il 23/09/2011

visti g li atti, la sentenza impu g nata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consi g liere Dott. Paolo Micheli ;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore g enerale Dott.
Mario Fraticelli, che ha concluso chiedendo il ri g etto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 07/12/2006, il G.i.p. del Tribunale di Nocera Inferiore
assolveva Matteo Danisi dall’imputazione a lui ascritta ex art. 9, comma 2, della
legg e n. 1423 del 1956: al prevenuto, sottoposto alla misura di prevenzione
della sorve g lianza speciale con obbli go di sogg iorno in un determinato comune,
si contestava di essersi accompa g nato in più occasioni a pre g iudicati, nel periodo

Data Udienza: 11/12/2012

compreso tra l’aprile e il novembre del 2005, ma il G.i.p. – rilevando che la
prescrizione prevista dall’art. 5 della citata legge n. 1423 si riferiva all’obbligo di
non associarsi a persone che avessero subito condanne e che non fossero
sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza – riteneva che non vi fosse
stata violazione del precetto normativa, non essendo dimostrato che i soggetti
con i quali il Danisi era stato sorpreso fossero contemporaneamente gravati da
pregresse condanne e destinatari di misure di sicurezza o prevenzione.

la Sezione Prima di questa Corte annullava la pronuncia, affermando il principio
secondo cui la congiunzione “e” contenuta nella lettera dell’art. 5 non valesse a
contemplare il divieto di frequentazione abituale di persone pregiudicate ed al
contempo sottoposte ad una delle predette misure, volendo invece quella norma
«riferirsi alla nozione di pericolosità sociale che qualifica la materia delle misure
di prevenzione, e quindi tipizzare le categorie di persone cui è ‘interdetta la
frequentazione ai soggetti sottoposti alla misura di prevenzione della
sorveglianza speciale, che possono essere i pregiudicati, le persone sottoposte a
misure di prevenzione e le persone sottoposte a misure di sicurezza, e cioè le
categorie che, sia pure in base a diversi presupposti, sono connotate nel nostro
ordinamento giuridico dal comune denominatore della pericolosità sociale».
Oltre alla necessità di intendere in via alternativa l’elencazione delle categorie di
soggetti appena ricordati, questa Corte segnalava poi che il medesimo art. 5
prescrive altresì al soggetto sottoposto a sorveglianza speciale, in via più
generale, di non dare ragioni di sospetto, con la conseguente ravvisabilità della
violazione nel caso concreto per essere stato il Danisi colto in compagnia di
pregiudicati per ben 28 volte.

3. Il difensore del Danisi ricorre oggi avverso la sentenza della Corte di
appello di Salerno del 23/09/2011, che – giudicando l’imputato in sede di rinvio
– risulta aver condannato l’imputato alla pena di mesi 8 di reclusione.
3.1 Con un primo motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza
impugnata, dal momento che la condanna anzidetta risulta essere stata disposta
senza che il Pubblico Ministero avesse rassegnato le doverose conclusioni; rileva
infatti la difesa che, stando al verbale di udienza, il P.g. si limitò a riportarsi ai
motivi di appello del proprio ufficio, richiamo che tuttavia avrebbe dovuto
intendersi irrituale e non conferente, date le peculiarità del processo e in difetto
di qualsivoglia quantificazione di richieste sanzionatorie.
3.2 Con il secondo motivo, la difesa rappresenta violazione ed erronea
interpretazione dell’art. 9 della legge n. 1423 del 1956 (in relazione alle

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2. Su ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno,

modifiche introdotte con il d.l. n. 144 del 2005) e dell’art. 10 della legge n. 251
del 2005. Essendo stato, con l’anzidetta novella, sanzionato come delitto un
comportamento sino ad allora previsto quale contravvenzione, il difensore aveva
infatti sollecitato la declaratoria di prescrizione delle presunte condotte criminose
risalenti ad epoca antecedente al 02/08/2005, secondo i più favorevoli termini
stabiliti dall’art. 157 cod. pen. nel testo previgente la c.d. legge “ex Cirielli”: la
Corte di appello ha invece ritenuto che, essendo la condotta tipica venuta a
cessare in data successiva, è a quella data che occorre avere riguardo per

Nel ricorso, pur esprimendosi condivisione in astratto alla tesi secondo cui il
reato contestato si perfeziona all’esito di una abitualità o serialità di
comportamenti, si menziona un precedente giurisprudenziale di legittimità che
ha espresso il principio contrario, distinguendo l’epoca di commissione fra più
condotte ascritte al medesimo soggetto onde pervenire a parziali declaratorie di
estinzione dei reati addebitati.
3.3 Con il terzo motivo, il ricorrente si duole infine del trattamento
sanzionatorio e della adottata dosimetria della pena, adducendo che all’imputato
sarebbero state ingiustamente negate le circostanze attenuanti generiche in
ragione di precedenti penali oramai risalenti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Quanto al tema della mancata presentazione di conclusioni da parte del
P.g. territoriale, deve prendersi atto che – come risulta sia dal verbale di udienza
che dall’intestazione della sentenza impugnata – il Pubblico Ministero si limitò a
“riportarsi ai motivi di appello del proprio ufficio”. Motivi che, a rigore, non vi
erano, dal momento che la celebrazione di quel processo conseguiva ad un
precedente annullamento di una pronuncia del G.i.p. del Tribunale di Nocera
Inferiore avverso la quale un appello non c’era mai stato; è però pacifico che lo
stesso ufficio requirente, avendo impugnato per saltum quella iniziale sentenza,
avesse manifestato la determinazione di perseguire l’imputato sul presupposto
della rilevanza penale della condotta addebitatagli, esclusa invece dal giudice di
prime cure.
C’erano dunque state delle conclusioni del P.M. in primo grado (che, laddove
disattese, ben avrebbero potuto intendersi implicitamente richiamate dalla
successiva impugnazione) ma non motivi di appello in senso proprio.

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intendere consumato il reato (a quel punto, delitto e non più contravvenzione).

E’ comunque innegabile che, attraverso la pur laconica espressione riportata
a verbale, il P.g. ebbe a concludere, o quanto meno dimostrò di essere stato
messo in condizione di requirere: deve così intendersi soddisfatto quel requisito
minimo di validità della partecipazione del P.M. al processo, indicato dalla
giurisprudenza richiamata dall’odierno ricorrente, giurisprudenza che per lo più si
sofferma sull’an piuttosto che sul quomodo di detta partecipazione.
Scorrendo infatti le pronunce di legittimità menzionate dalla difesa, si rileva
che è soltanto con la più datata che si afferma il principio secondo cui «la

preceduta dalle conclusioni del P.M., quando il medesimo – essendo presente in
giudizio – sia stato posto in condizioni di requirere, configura una nullità
suscettibile di sanatoria ai sensi degli artt. 187 e 471 cod. proc. pen. se non fatta
valere prontamente dalla parte interessata» (Cass., Sez. VI, n. 7321 del
17/12/1985, Giordani, Rv 173379). E’ peraltro discutibile ritenere, pur volendo
esprimere adesione all’orientamento appena accennato, che “parte interessata” a
dedurre un vizio siffatto sia l’imputato, nei cui riguardi il contenuto delle richieste
del P.M. rimane concretamente indifferente: esistono casi peculiari di vincolo del
giudice sulla base delle istanze dell’accusa (ad esempio, nella scelta della misura
da applicare a seguito di richieste ex art. 291 cod. proc. pen., dove il giudice
procedente non potrebbe disporre una forma di restrizione più gravosa rispetto a
quella eventualmente sollecitata dal P.M.), ma ciò non riguarda certo la fase del
dibattimento e la discussione finale, in cui – e sulla decisività di tale
osservazione si tornerà fra breve – può senz’altro intervenire una condanna
anche in presenza di una richiesta di assoluzione da parte dell’organo
dell’accusa.
Le pronunce successive si limitano a ribadire la sufficienza di una
partecipazione effettivamente garantita, senza che rilevino le forme in cui questa
sia stata manifestata: così, si afferma che «non è configurabile alcuna nullità
allorché le conclusioni del P.M. siano specifiche, anche se lo stesso non le abbia
illustrata con apposita requisitoria, ma si sia limitato a dettarle a verbale»
(Cass., Sez. V, n. 9070 del 13/01/1989, Santonocito, Rv 181707); e che «non

dà luogo alla nullità generale per difetto di partecipazione al procedimento del
Pubblico Ministero l’essersi quest’ultimo limitato, in esito al giudizio, a
rassegnare le proprie conclusioni solo in rito e non anche nel merito, in quanto il
dovere di partecipazione deve essere valutato in ordine all’an e non al quomodo»
(Cass., Sez. III, n. 5498 del 02/12/2008, Isola, Rv 242482).
I richiami giurisprudenziali offerti dalla difesa, in definitiva, non dicono nulla
di più rispetto alla ovvia ed immanente esigenza che al P.M., nella fisiologia del
processo penale, sia consentito di avanzare le proprie richieste; e ciò è accaduto

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circostanza che la sentenza dibattimentale sia pronunciata senza essere

anche nella fattispecie concreta, peraltro con il P.g. a riportarsi a motivi di
impugnazione (seppure avrebbero dovuto definirsi motivi di ricorso, e

non di

appello) sostanzialmente già accolti, anche se non si erano tradotti in specifiche
istanze sanzionatorie ma che di certo dovevano leggersi come ragioni di
doglianza verso una prima sentenza liberatoria. Del resto, come già segnalato,
la richiesta di condanna del P.M. non può intendersi titolo legittimante la
successiva sentenza, ove sfavorevole all’imputato: per aversi una pronuncia, sia
di condanna che di assoluzione, è necessario e sufficiente che il P.M. abbia avuto

abbia fatto.
1.2 In ordine alla prescrizione, la sentenza invocata dal ricorrente – per
quanto relativa alla sua stessa persona – riguarda una questione peculiare e non
sovrapponibile alla presente fattispecie: in quel caso all’imputato si addebitava di
aver frequentato pregiudicati (condotta che presuppone connotati di ripetizione
ed abitualità) tra il giugno 2004 e l’aprile 2005, quindi di non avere osservato la
prescrizione della permanenza in casa in ore notturne (condotta che può
certamente essere unisussistente) nel successivo mese di luglio. Perciò, in
quella occasione si assumevano comunque realizzati, prima delle modifiche
normative sulla natura delittuosa o contravvenzionale degli addebiti, tutti gli
episodi da valutare in chiave complessiva, quale

unicum

risultante da

comportamenti ripetuti, ed era dunque agevole pervenire ad una declaratoria di
estinzione del reato (da considerare giocoforza una semplice contravvenzione,
non essendovi state altre frequentazioni di pregiudicati dopo la trasformazione di
quella condotta in delitto): peraltro, deve osservarsi che anche la dedotta
violazione dell’obbligo di permanenza notturna nel domicilio risultava essersi
verificata prima del 02/08/2005, data di entrata in vigore della novella in
argomento.
1.3 Inammissibile è, infine, il terzo motivo di ricorso.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno infatti puntualizzato che le statuizioni
relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una
valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di
legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e
siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per
giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a
realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (v. Cass., Sez. U,
25/02/2010 n. 10713, Contaldo). Ed è altresì costantemente affermato che la
graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale
la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati
negli artt. 132 e 133 cod. pen.., sicché è inammissibile la censura che, nel

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modo di concludere, ed è comunque irrilevante verificare se ed in che termini lo

giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità del
trattamento sanzionatorio (v.,

ex plurimis,

Cass., Sez. III, n. 1182 del

17/10/2007, Cilia).

2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna dell’imputato al pagamento
delle spese del presente giudizio di legittimità.

Rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso 1’11/12/2012.

P. Q. M.

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