Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 24356 del 04/06/2014


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Penale Ord. Sez. 3 Num. 24356 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: MARINI LUIGI

ORDINANZA
sul ricorso proposto da

CLARK Stephen, nato a il // in qualità di legale rappresentante del “J.P. Getty
Trust”
avverso l’ordinanza del 28/2-3/5/2012 del Giudice delle indagini preliminari del
Tribunale di Pesaro che, quale giudice chiamato a decidere ex art.667, comma 4,
cod. proc. pen. sulla opposizione mossa all’ordinanza emessa il 10/2/2010 dallo
stesso Ufficio quale giudice dell’esecuzione, ha respinto la richiesta di revoca
della confisca della statua bronzea denominata “L’atleta vittorioso” attribuibile
all’artista greco Lisippo e attualmente collocata in California (USA) presso il Getty
Museum;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione sVóita dal consigliere Luigi Marini;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale, Sante Spinaci, che ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso;

RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 3 maggio 2012 (ud.28 febbraio 2012) il Giudice delle
indagini preliminari del Tribunale di Pesaro, quale giudice chiamato a decidere ex
art.667, comma 4, cod. proc. pen. sulla opposizione mossa all’ordinanza emessa

Data Udienza: 04/06/2014

il 10 febbraio 2010 dallo stesso Ufficio quale giudice dell’esecuzione, ha respinto
la richiesta di revoca della confisca della statua bronzea denominata “L’atleta
vittorioso” attribuibile all’artista greco Lisippo e attualmente collocata in
California (USA) presso il Getty Museum.
Il Giudice delle indagini preliminari ha emesso l’ordinanza qui impugnata al
termine dell’udienza tenuta il 28 febbraio 2012 con le forme dell’art.127 cod.
proc. pen. alla presenza delle parti interessate provvedendo in conformità della
decisione con cui questa Corte aveva qualificato come atto di opposizione in fase

indagini preliminari in data 10 febbraio 2010 sopra richiamata.
2. I fatti che hanno condotto alla emanazione del provvedimento impugnato
sono dettagliatamente riportati nel provvedimento stesso, nella precedente
ordinanza del 10 febbraio 2010, nell’atto di ricorso e nello scritto, qualificato
“controricorso”, che l’Avvocatura generale dello Stato nell’interesse del Ministero
per i beni e le attività culturali ha depositato in data 30/7/2012 presso il
Tribunale di Roma e che è pervenuto al Tribunale di Pesaro in data 6/8/2012.
3. Questo autorizza la Corte a una più sintetica esposizione della vicenda nei
termini che seguono:
..7 la statua in bronzo fu agganciata in acqua con le reti da alcuni pescatori a
bordo di due motopescherecci (comandati dai sigg. Pirani e Ferri) nell’estate
del 1964 e quindi portata a terra presso il porto di Fano senza essere
denunciata alle autorità competenti e i nascosta presso l’abitazione del sig.
Felici, amico di Ferri, in Carrara di Fano;
,/ ceduta ai sigg. Barbetti, antiquari, la statua fu trasferita a Gubbio e nascosta
presso l’abitazione di un sacerdote, Giovanni Nagni, fino al mese di maggio
1965; nel frattempo, infatti, nel mese di aprile 1965 era pervenuta ai
Carabinieri la notizia di un viaggio dei sigg. Barbetti in Germania per vendere
una statua di valore ed erano state poco dopo eseguite inutilmente attività di
perquisizione domiciliare in danno dei presunti possessori;
/ le indagini in corso ad opera della Procura della Repubblica presso il Tribunale
di Perugia ipotizzavano a carico dei sigg. Pietro Fabio e Giacomo Barbetti e
del sacerdote Giovanni Nagni il reato di ricettazione in relazione al reato ex
art.67 della legge n.1089 del 1939;
.7 il procedimento instaurato si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati ad
opera del Tribunale di Perugia e con la successiva condanna ad opera della
Corte di appello di Perugia, sull’impugnazione del Pubblico ministero, per i
reati di ricettazione (sigg. Barbetti) e favoreggiamento (sig. Nagni).
Sull’impugnazione della parti private la Corte di Cassazione annullò la

2

esecutiva il ricorso proposto dal sig. Clark avverso l’ordinanza del Giudice delle

sentenza con rinvio alla Corte di appello di Roma che, con sentenza
dell’8/11/1970, definitivamente assolse gli imputati per assenza di prove del
reato ex art.67 della legge n.1089 del 1939, reato presupposto dell’ipotesi di
ricettazione. Secondo i giudici dell’appello difettavano le prove circa la
materialità dei fatti (natura del reperto e luogo di rinvenimento);

nel frattempo, nel periodo maggio-giugno 1965 la statua era stata ceduta ad
altra persona, verosimilmente di Milano e se ne persero le tracce;
secondo le dichiarazioni in atti, la statua fu vista nel 1972 in Monaco di
Baviera presso l’antiquario Heinz Herzer e nel 1973 i Carabinieri ebbero in
Monaco diretta conferma della circostanza, ma non poterono né visionare la
statua né acquisirne una immagine;

sulla base di tali elementi la Pretura di Gubbio iscrisse nel registro notizie di
reato un nuovo procedimento rubricato sotto il reato di esportazione
clandestina di opere d’arte e quindi dette corso ad attività rogatoriale che le
autorità di Monaco di Baviera non accolsero in quanto il reato ipotizzato non
era incluso fra quelli che potevano dare origine ad estradizione; con la
conseguenza che le medesime autorità germaniche nel corso del 1974
disposero l’archiviazione del procedimento avviato e restituirono il sig. Heinz
Herzer nella piena disponibilità dell’opera;

nel frattempo i Carabinieri avevano acquisito le dichiarazioni di un
commerciante di Imola, Renato Merli, che nel 1964 aveva visionato la statua
presso coloro che l’avevano rinvenuta in mare ed era stato a conoscenza
della successiva vendita ai sigg. Barbetti. Acquisita da Merli una fotografia
della statua ancora coperta delle concrezioni marine, ricevute da lui le
indicazioni sui soggetti coinvolti e sentiti i comandanti dei due
motopescherecci, i Carabinieri ebbero notizia da questi che la statua era stata
rinvenuta poco a largo di Pedaso (Ascoli Piceno);

sulla base delle nuove attività rogatoriali ordinate, l’autorità giudiziaria di
Gubbio ricevette informazioni sul fatto che la statua era stata ceduta nel
1974 dal sig. Heinz Henzer alla società “Artemis” di Lussemburgo tramite la
filiale di questa, “David Carritt Ltd”, di Londra;
sulla base di ulteriori indagini svolte presso il Paul Getty Museum, ove la
statua era nel frattempo pervenuta, nel marzo del 1978 i Carabinieri
informarono l’autorità giudiziari di Gubbio che la statua aveva fatto ingresso
in territorio statunitense tramite il porto di Boston con bolletta datata
15/8/1977 spedita dalla società Artemis; la statua era rimasta per un breve
periodo al Museo delle Belle Arti di Boston, quindi trasferita al Museo di
Denver (Colorado) e finalmente al Paul Getty Museum di Malibù;

3

v la sostanza di tali notizie fu confermata alle autorità britanniche dal sig.
David Carritt che, dopo avere precisato di non essere in possesso di alcuna
documentazione, riferì che dopo l’acquisto della statua questa fu inviata da
Artemis per il restauro al Museo delle Antichità Classiche di Monaco, dove
rimase circa due anni, e quindi riportata a Londra a seguito dell’avvio di
trattative col sig. Paul Getty fino a che il Getty Museum provvide all’acquisto
e nell’agosto 1977 fece arrivare la statua in Usa attraverso il porto di Boston;
v dopo che le autorità inglesi (non avendo la Gran Bretagna aderito alla

legali) avevano rigettato le ulteriori istanze rogatoriali, il Pretore di Gubbio
con provvedimento del 25 novembre 1978 dispose non luogo a procedere in
ordine ai fatti di illecita esportazione del reperto artistico per essere rimasti
ignoti gli autori del reato;
v sulla base di nuove informazioni nel corso dell’anno 2007 la Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Pesaro dette corso a un nuovo procedimento
(n.2042/07 R.G.N.R.) in cui si ipotizzavano a carico dei sigg. Pirani e Ferri e
dei sigg. Pietro, Fabio e Giacomo Barbetti i reati previsti dall’art.110 cod.
pen., in relazione all’art.66 della legge n.1089 del 1939 (come da ultimo
modificato dall’art.174 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n.42), art. 483 cod. pen. o
artt.482, 476 cod. pen. e, a carico dei soli Pirani e Ferri, i reati previsti dagli
artt.510, 511 e 1146 Codice Navigazione, artt.46-68 della legge n.1089 del
1930 e art.97 e seguenti della legge n.1424 del 1940;
v sempre nel corso del 2007 il Pubblico ministero nel richiedere l’archiviazione
del procedimento, risultando i reati estinti e prescrizione, ha chiesto al
Giudice delle indagini preliminari la confisca della statua in relazione al
disposto dell’art.66 della legge n.1089 del 1939 e delle norme in tema di
contrabbando;
v con decreto in data 19 novembre 2007 il Giudice delle indagini preliminari del
Tribunale di Pesaro ha disposto l’archiviazione del procedimento per essere
tutti i reati coperti da prescrizione; in tale contesto ha respinto la richiesta di
confisca della statua in quanto gli attuali possessori della stessa, e cioè i
responsabili del Getty Museum, debbono essere considerati estranei al reato
ex art.66, citato;
v avverso tale ultima pronuncia il Pubblico ministero ha proposto incidente di
esecuzione ex artt.676 e 667, comma 4, e 666 cod. proc. pen. e il Giudice
delle indagini preliminari, integrato il contraddittorio fra le parti interessate,
ha ordinato con provvedimento del 10 febbraio 2010 la confisca della statua
“ovunque essa si trovi”;
4

Convenzione Unesco del 1970) e quelle statunitensi (ritenuti carenti i requisiti

v l’ordine di confisca, come si è detto in premessa, è stato impugnato dal sig.
Stephen Clark mediante ricorso avanti la Corte Suprema di Cassazione, che
con la sentenza del 18 gennaio 2011 ha qualificato il ricorso come
opposizione ex art.667, comma 4, cod. proc. pen. e disposto la trasmissione
al Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Pesaro;
V questi, integrato il contradditorio, ha acquisito la documentazione prodotta e
sentito lo stesso sig. Clark, e quindi all’udienza del 28 febbraio 2012 ha
riservato la decisione; l’ordinanza che dispone la confisca del bene è stata

s/ va ricordato che sia prima sia successivamente agli avvenimenti che
condussero al decreto di archiviazione del 19 novembre 2007 i Carabinieri
hanno proseguito nell’attività di ricostruzione dei fatti relativi al rinvenimento
e alla esportazione della statua e con informativa del 27 novembre 2007
hanno riferito che, sulla base di articoli di stampa e di una intervista
televisiva resa da Thomas Hoving nel 1979, avevano provveduto ad
assumere informazioni presso lo stesso Hoving, all’epoca direttore del
Metropolitan Museum di New York, e dall’arch. Stephen George Garrett, vice
direttore del Getty Museum. Dalle relative dichiarazioni i Carabinieri hanno in
tal modo ricostruito i termini essenziali della trattativa e le perplessità circa la
regolarità della esportazione della statua dall’Italia che avevano trattenuto
dall’immediato acquisto Paul Getty Sr. (deceduto poco prima che la Getty
Foundation perfezionasse l’acquisto per circa 3,9 milioni di Dollari
statunitensi); i Carabinieri hanno altresì fornito informazioni circa i termini
della missiva scritta dallo stesso Hoving a David Carritt di Artemis il 23
giugno 1973 e della successiva missiva del 26 giugno 1973 da Hoving scritta
a Paul Getty anche con riguardo all’incarico che il Metropolitan Museum
aveva affidato a un legale affinché acquisisse presso le autorità italiana i
provvedimenti di autorizzazione ritenuti necessari per perfezionare l’acquisto
(le due missive sono state acquisite e tradotte nell’ambito della procedura
esecutiva oggi in esame);
J sempre nella medesima informativa i Carabinieri danno atto che secondo il
sig. Hoving le resistenze del sig. Heinz Herzer a dare risposta positiva alle
proposte di acquisto nascevano dalla sua impossibilità di fornire la
documentazione relativa alla provenienza della statua;
V ulteriore documentazione sulla trattativa e sulla posizione dei responsabili
del “The J.P. Getty Trust” che deliberarono l’acquisto dopo la morte di Paul
Getty Sr. (posizione che, anche sulla base dei pareri espressi nel tempo dai
due legali della Artemis incaricati di verificare le modalità di esportazione,

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depositato in data 3 maggio 2012;

assume la regolare provenienza della Statua e l’assenza di pretese da parte
dello Stato italiano) è stata prodotta in atti dalla Difesa del ricorrente e
ulteriori elementi sono stati acquisiti dal Giudice all’udienza camerale del
21/12/2009 mediante l’assunzione delle dichiarazioni di Stephen W. Clark,
legale rappresentante del Trust citato (si vedano pag.13 e 14 dell’ordinanza
impugnata).
4. Sulla base delle premesse in fatto così sintetizzate, l’ordinanza del 3
maggio 2012 ha respinto l’opposizione avanzata dal sig. Clark mediante una

il riconoscimento della prescrizione del reato di contrabbando non fa venir
meno l’obbligo per il giudice di disporre la confisca del bene oggetto di reato
(Sez. Un., n.38834 del 10/7/2008; Sez.3, n.28508 del 13/7/2009), tanto è
vero che nel decreto di archiviazione emesso dal Giudice delle indagini
preliminari del Tribunale di Pesaro il 13 novembre 2007 si legge che la
richiesta di confisca viene rigettata in base alla “estraneità al reato” (reato ex
art.66, citato) del detentore del bene;

nella ipotesi che il provvedimento di merito non accerti la insussistenza del
fatto o l’estraneità della persona allo stesso, il giudice conserva poteri di
accertamento in ordine agli elementi di fatto che presiedono alla decisione
sulla confisca; muovendo dalla motivazione di Sez. Un., n.38834 del
10/7/2008 e dall’ivi affermato potere di accertamento del giudice ai fini di
confisca (sul punto richiamando i principi fissati da Corte Cost. / sentenza n.85
del 2006 e sentenze n. 29 del 1961 e 46 del 1964) deve convenirsi con
Sez.1, n.2453 del 4/12/2008 che al giudice non può essere negato il potere
di acquisire i necessari elementi di conoscenza;

tale potere, che il giudice dell’esecuzione deve esercitare nei limiti della
procedura e dell’accertamento cui mira, è stato puntualmente esercitato in
concreto dal Giudice delle indagini preliminari sia nel contesto della procedura

serie di passaggi argomentativi che è possibile sintetizzare come segue:

conclusasi con l’ordinanza del febbraio 2010 sia nel contesto della presente
procedura di opposizione (si veda l’ordinanza 28 novembre 2011);

sussiste (pag.17 della motivazione) la giurisdizione dell’autorità giudiziaria
italiana ex art.6 cod. pen., come correttamente affermato dal Giudice delle
indagini preliminari con l’ordinanza del 12 giugno 2009, posto che la statua
fu rinvenuta verosimilmente al di fuori delle acque territoriali, importata
clandestinamente e quindi illegalmente esportata, così che i reati ipotizzati ai
capi b), c), e d) risultano commessi in Italia così come una parte della
condotta di illecita esportazione;

6

),

non rileva rispetto ai “terzi”, quali gli acquirenti statunitensi, che il contratto
di acquisto sia stato perfezionato all’estero, posto che la presenza della
statua all’estero costituisce elemento integrante il reato contestato e che la
valutazione della titolarità del bene deve essere compiuta con riguardo al
momento della commissione del reato e non a un momento successivo;

la confiscabilità del bene discende dal testo dell’art.66 della legge n.1089 del
1939, che opera un rinvio alla disciplina in tema di contrabbando, e trova
conferma nel testo dei successivi art.123 del d.lgs. n.490 del 1999 e art.174

queste appartengano a persona estranea al reato”;

i principi interpretativi invocati dalla difesa (come da Sez.2, n.1809 e n.1386
del 2009) concernono le diverse ipotesi ex artt.67 e 68 della legge n.1089 del
1939, mentre in relazione al reato che qui interessa va richiamata la
ordinanza di Sez.3, n.49438 del 23/12/2009, che ribadisce l’applicabilità della
confisca anche in ipotesi di proscioglimento che non escludano la materialità
dei fatti e in ipotesi di estinzione del reato per prescrizione;

nessun dubbio sussiste sulla natura del bene oggetto di esportazione,
trattandosi di bene per legge appartenente allo Stato (art.826 cod. civ.) e
non suscettibile di proprietà in capo al privato se non nei limitati casi previsti,
così non operando gli istituti civilistici ex artt.1153 o 1161 cod. civ. (sul
punto si vedano Sez.1, civile, n.2995 del 10/2/2006 e con riferimento al
reato ex art.176 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n.42, Sez.3, n.41070 del
11/11/2011 e Sez.4, n.12618 del 5/4/2005); principi che operano con
riguardo ai beni archeologici che fanno parte del patrimonio indisponibile
dello Stato (Sez. Un. civili, n.898 del 6/4/1966; Sez.1, civile, n.4260 del
7/4/1992);

quanto ai diritti del possessore o titolare del bene illegalmente esportato, la
sentenza della Corte costituzionale n.2 del 14/1/1987 e la successiva legge
n.88 del 1988 hanno fissato la regola di tutela che esclude la confiscabilità
nella ipotesi che la persona “non sia l’autore del reato o non ne abbia tratto
in alcun modo profitto”. L’interpretazione del concetto di “terzo estraneo al
reato” è stata fissata con la sentenza di Sez.3, n.22030 del 12/2/2003,
Pludwinski con riferimento ai limiti ex art.127 del d.lgs. n.490 del 1999 (ora
art.178 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n.42), operando una lettura restrittiva
dei limiti comportanti una deroga alla regola di obbligatorietà della confisca,
così che per i beni intrinsecamente non commerciabili la proprietà non è
acquisibile da privati neppure in ipotesi di acquisto in “buona fede”;

7

del d.lgs. n.42 del 2004, che prevedono “la confisca delle cose, salvo che

V in ogni caso, nella condotta dei titolari del Getty Museum non può ravvisarsi
alcuna buona fede, essendo emerso con chiarezza che l’acquisto è stato
effettuato nonostante i dubbi sulla liceità dell’esportazione manifestati dal
sig. Paul Getty Sr., nonostante l’assenza di valida documentazione,
nonostante si sia omesso di interessare le autorità italiane al fine di verificare
l’esistenza di autorizzazioni, mai prodotte dal venditore (sul punto si veda
pag.15 dell’ordinanza 10 febbraio 2010 e l’ampia disamina dell’ordinanza 3
maggio 2012 alle pagine 29 e ss.);

pregiudiziale sollecitata dalla difesa.
5. Avverso tale decisione gli avv. Emanuele Rimini e Alfredo Gaito
nell’interesse del sig. Stephen Clark, quale legale rappresentante del J.P. Getty
Trust, hanno depositato in data 30 maggio 2012 atto di ricorso col quale, dopo
una”premessa ricostruttiva necessaria” (pagg.2-5) in sintesi lamentano:
a.

errata applicazione di legge ex art.606, lett.b) cod. proc. pen. a causa
dell’illegittimità della procedura svoltasi, nonostante l’espressa richiesta di
celebrazione in pubblica udienza, con rito camerale, così incorrendo il giudice
nella violazione dei principi fissati dalla Corte EDU, tra l’altro, con le sentenze
13/11/2007, Bocellari e Rizza c/ Italia e 13/7/2012, Lorenzetti c/ Italia;

b.

errata applicazione di legge ex art.606, lett.b) cod. proc. pen. per avere il
giudice omesso di pronunciare la propria decisione “subito” dopo la
discussione dell’ultimo difensore, così violando l’art.424 in relazione
all’art.525 cod. proc. pen.;

c.

errata applicazione di legge ex art.606, lett.b) cod. proc. pen. con riguardo al
mancato riconoscimento di una preclusione processuale invocata anche in
sede di memoria per avere il Giudice delle indagini preliminari con l’ordinanza
del febbraio 2010 accolto la richiesta di confisca avanzata dal Pubblico
ministero in sede esecutiva dopo che il giudice del merito aveva respinto
analoga richiesta; tale ultima decisione avrebbe dovuto impedire al giudice
dell’esecuzione di tornare a pronunciare sul punto. Il principio fissato da
Sezioni Unite con la sentenza n.5307/2008, ud. 20/12/2007, Battistella, con
riferimento all’art.240, comma 2, cod. pen. non può non operare anche per le
altre ipotesi di confisca obbligatoria e comporta che il giudice dell’esecuzione
possa ordinare la misura ablativa solo nella ipotesi che il giudice del merito (e
tale va qualificato il giudice dell’archiviazione) abbia omesso di pronunciare.
Nel caso in esame, avendo il Pubblico ministero omesso di impugnare il
provvedimento di archiviazione nella parte in cui rigettava motivatamente la

8

.7 non sussitono quindi ragioni per prospettare alla Corte EDU la questione

richiesta di confisca del bene, si è in presenza di provvedimento non più
impugnabile e non modificabile in sede esecutiva;
d.

errata applicazione di legge ex art.606, lett.b) cod. proc. pen. con riguardo
alla mancata ammissione e assunzione di prove richieste dalla difesa
(memoria 13/7/2011) e non accolte dal Giudice delle indagini preliminari
(ordinanza 28/11/2011) in violazione dell’art.111, comma 4, Costituzione e
dell’art.6 CEDU e dei principi in tema di riforma della decisione in senso
sfavorevole alla parte privata (Corte EDU, sentenza 5/7/2011, Dan c/

del Pubblico ministero e dell’Avvocatura generale dello Stato sono stati
assunti in procedimenti diversi e comunque in sedi cui la difesa del ricorrente
non ha potuto partecipare né interloquire;
e.

errata applicazione di legge ex art.606, lett.b) cod. proc. pen. per avere il
giudice omesso di avanzare la questione pregiudiziale richiesta dalla difesa
(memoria del 28/2/2012) in ordine alla possibilità di disporre la confisca nei
confronti del terzo a fronte di una ipotesi di reato prospettata dal Pubblico
ministero ma non verificata nel contraddittorio;

f.

errata applicazione di legge ex art.606, lett.b) cod. proc. pen. per avere il
Giudice delle indagini preliminari esteso il contraddittorio a parti estranee al
procedimento penale, e cioè alla associazione “Le Cento Città” e alla
Avvocatura dello Stato, che sono portatori di interessi non tutelabili in sede
esecutiva;

g.

errata applicazione di legge ex art.606, lett.b) cod. proc. pen. e vizio di
motivazione ai sensi dell’art.606, lett.e) cod. proc. pen. con riferimento alla
sussistenza di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana e con riferimento
alla competenza dell’autorità giudiziaria di Pesaro: il rinvenimento in acque
internazionali rendeva il possesso legittimo in capo a chi lo operò e sollevò
non un profilo di appartenenza del bene al patrimonio indisponibile dello
Stato (che avrebbe operato se il rinvenimento fosse avvenuto nel sottosuolo
o su fondali di acque territoriali italiane), bensì un profilo di comunicazione
del rinvenimento alle autorità italiane ai fini previsti dall’art.42 della legge
n.1089 del 1938. Il diverso approccio a questi profili da parte dell’ordinanza
del 10/2/2010 (che ipotizzò il rinvenimento in acque territoriali italiane) e
dell’ordinanza del 3/5/2012 (che sembra accogliere l’ipotesi opposta) e
l’assoluta carenza di motivazione della seconda ordinanza in ordine ai rilievi
formulati dalla difesa sulla natura del bene e la sua commerciabilità
comportano un vizio radicale del provvedimento impugnato

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(si vedano le

Moldavia). Si osservi, poi, che gli elementi di prova introdotti con memorie

pagine 24-30 anche con riferimento alla acquisizione del bene al Getty
Museum a seguito di usucapione ventennale);
h.

vizio di motivazione ai sensi dell’art.606, lett.e) cod. proc. pen. con
riferimento all’elemento della legittimità dell’acquisto anche sotto il profilo
soggettivo, posto che la motivazione nella sostanza rinvia alle
argomentazioni contenute nella ordinanza del febbraio 2010 e non esamina
l’ampia allegazione della difesa del ricorrente concernente la legittimità della
procedure di acquisto dai titolari tedeschi della statua, anche alla luce della

all’avente diritto a dimostrazione della sua piena commerciabilità e alla luce
della circostanza che l’acquisto da parte del museo avvenne quattro anni
dopo il provvedimento di archiviazione e restituzione emesso dalle autorità di
Monaco senza che nel frattempo le autorità italiane avessero intrapreso
azioni formali di rivendicazione di diritti sul bene;
i.

errata applicazione di legge ex art.606, lett.b) cod. proc. pen. e questione di
legittimità costituzionale in relazione alla disciplina in tema di confisca, e ciò
sottoplurimi profili:
1) la decisione di disporre la confisca in sede esecutiva dopo che in sede di
merito l’autorità giudiziaria ha pronunciato assoluzione per alcuni imputati
e ordinato l’archiviazione del procedimento aperto nei confronti di altri
rappresenta una decisione che viola gli standard minimi del processo
equo. Richiamata la sentenza 20/1/2009 della Corte EDU nella causa Sud
Fondi c/ Italia e richiamata la qualificazione della confisca come “pena”
anche per le ipotesi che il diritto interno le attribuisca natura
amministrativa (sul punto si veda anche Sez. Un., n.19/1/2012,
Volkswagen Leasing Gbmh); richiamati, altresì, l’art.1 del Protocollo n.1
alla Convenzione e l’art.6 della Convenzione, il ricorrente evidenzia come
in assenza dell’esercizio dell’azione penale difettino in radice i presupposti
che autorizzano la confisca del bene: il provvedimento di archiviazione
rappresenta una decisione di rinuncia all’accertamento (Corte Cost., sent.
n.88 del 1991 e n.319 del 1993), inibisce il formarsi del contraddittorio
fra le parti e risulta incompatibile con la confisca anche nell’ipotesi
prevista dall’art.240, comma 2, cod. pen. (Sez. Un. 15/10/2008, De Maio;
Sez.3 19/5/2009, Costanza; 6/10/2010, Grova e altri). Del resto, che per
i beni archeologici non possa parlarsi di cose intrinsecamente illecite e
non possa ipotizzarsi l’applicazione dell’art.240, comma 2, cod. pen. è
principio costantemente affermato dalla giurisprudenza (Sez.2,
24/4/2009, Cicchetti e altri; 7/4/2009, Crescenzi);

10

decisione delle autorità giudiziarie di Germania che restituirono il bene

2) vizio di motivazione con riferimento alla condizione del Getty Museum con
soggetto estraneo al reato (art.174, comma 3, del d.lgs. 22 gennaio
2004, n.42) e alla mancanza dell’elemento della buona fede. Ora, se può
accogliersi il concetto di estraneità fissato da Sez.3, 12/42003,
Pludwinski (si veda anche Corte Cost., n.2 del 1987), non vi è dubbio che
nessun collegamento e nessun vantaggio il Getty Museum ha tratto dai
reati asseritamente commessi in Italia e in sede di esportazione, altri
essendo i beneficiari di tali condotte, così che il successivo acquisto non

motivazione resa dal Giudice delle indagini preliminari nel respingere la
richiesta di confisca avanzata dal Pubblico ministero in sede di
archiviazione;
3) vizio di motivazione con riferimento al concetto di “appartenenza” come
affrontato dal Giudice delle indagini preliminari, posto che il requisito della
“buona fede” non è richiesto dalla legge e che risulta errata la
motivazione dell’ordinanza allorché afferma che in assenza di tale
requisito non può aversi legittima titolarità di un bene che il giudice
qualifica come “assolutamente non commerciabile”. Tale impostazione
erra nell’escludere che un bene “inalienabile” possa appartenere al privato
acquirente: il concetto di “appartenenza” si lega alla situazione di fatto e
non alle forme di acquisizione. Quanto al requisito della “buona fede”, il
ricorrente non ignora l’approdo cui le Sezioni Unite sono giunte con la
sentenza Bacherotti (n.9 del 28/4/1999) e l’esigenza ivi affermata che il
possessore del bene non abbia alcun collegamento con i fatti di reato o,
se tale collegamento sussiste, possa far valere un “affidamento
incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che rende
scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza”;
4) sussistenza, ove tale impostazione non venga accolto, di un contrasto
delle disposizioni contenute negli artt.676 cod. proc. pen. e 174 del d.lgs.
22 gennaio 2004, n.42 con quelle contenute negli artt.3, 25, 27, 42, 111
e 117 Cost. in relazione all’art.7 CEDU e all’art.1 del Protocollo n.1, citato.
6.

Con atto depositato in data 30/7/2012 l’Avvocatura generale dello Stato

nell’interesse del Ministero per i beni e le attività culturali ha presentato
“controricorso”, con il quale, contestate le censure in rito avanzate dal ricorrente,
ha prospettato una questione di inammissibilità del ricorso e questioni di
infondatezza dei motivi processuali e sostanziali.
7. Le argomentazioni prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato sono
state oggetto di critica da parte del ricorrente mediante il deposito di “Note

11

può connotarsi di rimproverabilità, in tal senso deponendo la convincente

illustrative”; lo stesso ricorrente ha quindi depositato “Note di replica alla
requisitoria del P.G.” con le quali ha censurato gli argomenti prospettati dalla
Procura generale della Repubblica presso questa Corte con la richiesta di rigetto
del ricorso formulata in data 7/8/2013.
8. Il ricorso, assegnato per la trattazione nelle forme dell’art.611 cod. proc.
pen. alla udienza del 7/5/2014 è stato rinviato per la decisione alla odierna
udienza con ordinanza redatta a verbale.

1. La complessa vicenda processuale, che occupa nelle diverse forme un
arco temporale di oltre quaranta anni, viene all’attenzione di questo collegio per
valutare la assoggettabilità a confisca di un bene che, rinvenuto sui fondali
marini nell’estate del 1964 fu esportato in epoca anteriore al 1972 in territorio
2
tedesco con modalità che i giudici del merito e dell’esecuzione hanno ritenuto
chiaramente illecite e quindi oggetto di ulteriori trasferimenti fino all’odierna
destinazione presso il “Getty Museum” in territorio statunitense. ‘
2.

Le modalità di esportazione dal territorio italiano vanno considerate

illecite, secondo quei giudici, sia che il reperto archeologico sia stato rinvenuto e
tratto a bordo dei pescherecci in acque territoriali italiane (ipotesi fatta propria
negli iniziali giudizi) sia che, invece, ciò risulti avvenuto in acque internazionali e
il reperto sia stato successivamente introdotto in territorio italiano con modalità
contrarie alle disposizioni di legge vigenti (ipotesi ritenuta verosimile con il
provvedimento di archiviazione dell’anno 2007). E la consapevole illiceità della
condotta dei privati coinvolti nel rinvenimento, nell’occultamento e nella
esportazione clandestina della statua risulta accertata dalle decisioni successive
a quella della Corte di appello di Roma che con la sentenza dell’8 novembre 1970
ritenne non sufficienti le prove sulla natura effettiva del reperto e sulla
coincidenza fra il bene rinvenuto in mare e quello presente presso la sede di un
antiquario di Monaco di Baviera.
3. Ciò che oggi si chiede a questa Corte è di valutare la legittimità della
decisione con cui il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Pesaro,
quale giudice dell’esecuzione, ha ordinato la confisca della statua accogliendo la
domanda del Pubblico ministero che chiedeva di modificare la diversa decisione
adottata dal Giudice delle indagini preliminari in sede di decreto di archiviazione.
4. Il ricorso proposto dal sig. Clark in data 30 maggio 2012 si dirige avverso
l’ordinanza adottata – in sede di reclamo contro l’ordinanza del 15 gennaio 2010
– dal giudice dell’esecuzione in data del 28 febbraio 2012 e depositata in data del
3 maggio 2012, nonché nei confronti della precedente ordinanza depositata il 28

12

CONSIDERATO IN DIRITTO

novembre 2011 con la quale lo stesso giudice ha respinto le questioni preliminari
anche di nullità che erano state proposte dalla difesa in data 13 luglio 2011.
5. Prima di passare all’esame dei motivi di ricorso occorre rilevare che il
giudizio svoltosi in sede di esecuzione secondo le forme camerali previste dagli
artt.665 e seguenti cod. proc. pen. costituisce l’unica sede nelle quali le persone
e i soggetti interessati dalla destinazione del bene in sequestro hanno potuto
esporre le proprie ragioni. Infatti, è solo nel corso della procedura esecutiva che
l’Avvocatura generale dello Stato nella sua funzione di rappresentanza del

“IP. Getty Trust” hanno assunto la veste di parti del giudizio. E’ pacifico, poi,
che il sig. Clark è rimasto del tutto estraneo alla fase delle indagini preliminari
conclusasi con il provvedimento di archiviazione del 19 novembre 2007 emesso
nel procedimento penale avviato contro altri e nel cui ambito il giudice respinse
la richiesta del Pubblico ministero in ordine alla confisca del bene.
6.

Il ricorso proposto nell’interesse del sig. Clark, le memorie presentate

dall’Avvocatura dello Stato e le conclusioni del Procuratore generale propongono
alcune questioni processuali che devono essere affrontate in via preliminare.
6.1. La prima questione riguarda la ritualità del ricorso Clark che si assume
essere stato proposto in proprio e non quale legale rappresentante della società
statunitense detentrice della statua in oggetto. La Corte ritiene che la questione
sollevata dall’Avvocatura dello Stato non meriti accoglimento. Il ricorso proposto
dall’odierno ricorrente avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione del 15
gennaio 2010, fu ritenuto legittimamente presentato da parte di questa Corte
allorché con sentenza del 18 gennaio 2011, n.6558/11 qualificò l’impugnazione
quale opposizione ai sensi dell’art.667, comma 4, cod. proc. pen. e dispose
restituirsi gli atti al Tribunale di Pesaro per il giudizio che si è concluso col
provvedimento oggetto del presente giudizio. Osserva, poi, che il ricorso
presentato dagli avv.ti Rimini e Gaito, muniti di procura speciale, in data 30
maggio 2012 è stato proposto “nell’interesse del sig. Stephen Clark, legale
rappresentante del J.P. Getty Trust” e che il tema ha formato oggetto di
convincenti decisioni del giudice dell’esecuzione.
6.2. Le difese del ricorrente hanno eccepito la non ritualità della
partecipazione al giudizio esecutivo dell’Avvocatura dello Stato, che il giudice
avrebbe erroneamente ammesso. Il tema si lega alla natura dell’accertamento
che il giudice dell’esecuzione è chiamato a effettuare allorché vengono in gioco
provvedimenti che incidono su diritti che in sede di accertamento hanno trovato
una soluzione che deve essere ripensata o corretta. Soccorre sul punto la
ricostruzione operata da questa Corte con la sentenza n. 28508 del 2009 (Sez.3,

13

Ministero competente e il sig. Clark nella sua veste di legale rappresentante del

ud.4/6/2009, Vedani) che ha ritenuto che l’incidente di esecuzione e il giudizio di
opposizione ex artt.676 e 667, comma 4, cod. proc. pen. siano la sede che
garantisce il contraddittorio fra le parti e, dunque, “sedi processuali adeguate – a

fronte della “fluidità” e della provvisorietà che caratterizzano i provvedimenti di
archiviazione – per contestare

at possibilità di disporre la confisca obbligatoria,

essendo possibile in tale sede dare prova dell’inesistenza del nesso materiale fra
la cosa di cui è stata disposta la confisca e il reato ovvero della estraneità al
reato medesimo, nei limiti previsti dalla legge, del soggetto cui la cosa

ove può essere operato ogni accertamento resosi necessario per valutare la
domanda introdotta con l’incidente di esecuzione va esaminata alla luce dei
principi che questa Corte ha fissato con riferimento all’ampiezza
dell’accertamento che il giudice può compiere allorché deve valutare l’eventualità
di confisca in presenza di una sentenza di proscioglimento o di un provvedimento
di archiviazione. Con sentenza n.2453/2009, udienza del 4/12/2008, Squillante e
altro, la Sez.1 ha statuito che, “considerata l’evoluzione della legislazione in

materia e la sempre più ampia utilizzazione dell’istituto della confisca al fine di
contrastare i più diffusi fenomeni di criminalità, si può affermare che, in caso di
estinzione del reato, il riconoscimento al giudice di poteri di accertamento al fine
dell’applicazione della confisca medesima non possono dirsi necessariamente
legati alla facilità dell’accertamento medesimo” e può quindi riguardare anche le
cose “che sono considerate (criminose) per il loro collegamento con uno specifico

fatto criminoso”.
Così fissata l’estensione della procedura di esecuzione e del relativo
accertamento, non vi è dubbio che in caso di deliberazione in tema di confisca di
cose non appartenenti all’autore o presunto autore dell’illecito il giudice debba
consentire la partecipazione di tutti i soggetti interessati a lui noti. Depone in tal
senso la previsione del comma 1 dell’art.127 cod. proc. pen., disposizione che
fissa le regole generali del procedimento camerale e che risponde in modo
perfetto alle esigenze dell’accertamento cui è chiamato il giudice dell’esecuzione
che deve trattare ex art.676 cod. proc. pen. materia diversa dall’esecuzione della
sentenza nei confronti del condannato. L’art.127, comma 1, citato prevede che il
giudice dia avviso dell’udienza “alle parti, alle altre persone interessate e ai
difensori”; tutti costoro hanno quindi diritto alla comunicazione o notificazione
del provvedimento e possono proporre ricorso per cassazione.
Sulla base dei principi che precedono appare incontestabile che il
rappresentante del Ministero competente avesse diritto di essere considerato
parte o soggetto interessato. La questione posta dal Pubblico ministero con
l’incidente di esecuzione, infatti, mira a confiscare un bene che si sa essere in
possesso del detentore estero e che viene rivendicato dallo Stato in quanto bene
14

appartiene”. La circostanza che la procedura di esecuzione costituisca la sede

indisponibile o, comunque, in quanto bene illegalmente esportato e meritevole di
essere reintegrato nel patrimonio statale. Ed è proprio la complessiva disciplina
in tema di esportazione e commercio di opere d’arte o di valore archeologico che
individua nel competente Ministero l’autorità che può agire anche in sede
internazionale per la restituzione dell’opera.
6.3. La terza questione, sollevata dalla difesa del ricorrente, riguarda la
esistenza di una preclusione processuale che deriverebbe dalla decisione
adottata in tema di confisca da parte del provvedimento di archiviazione. La

operato dal giudice in sede di archiviazione è per sua natura adottato allo stato
degli atti, non definito ma suscettibile di cedere a fronte di motivata istanza di
riapertura delle indagini. Va riltvato, poi, che eventuali vizi o problematicità del
contenuto della decisione di archiviazione come quelli che hanno condotto alla
decisione qui impugnata non sono correggibili con lo strumento del ricorso al
giudice di legittimità, bensì con richiesta inoltrata dalla parte legittimata al
giudice dell’esecuzione. Il provvedimento di archiviazione, infatti, è ricorribile in
cassazione esclusivamente nei casi di abnormità del contenuto (per tutte si veda
la sentenza della Sez.2, n.29936 del 4/7/2013, P.O. in proc. Loffredo) oppure di
nullità procedurale ai sensi dell’art.127, comma 5, cod. proc. pen. (per tutte si
veda la sentenza Sez.6, n.30775 del 28/5/2007, P.O. in proc.Grimaldi).
L’insieme delle considerazioni che precedono impediscono di condividere
l’assunto del ricorrente e portano ad affermare che nessuna preclusione
processuale esiste rispetto alla domanda che il pubblico ministero ha formulato al
giudice dell’esecuzione con riguardo alla correzione del presunto errore
commesso in tema di confisca dal giudice delle indagini preliminari.
6.4. L’ultima e decisiva questione preliminare concerne la ritualità della
procedura camerale seguita ai sensi degli artt.666 e ss. e 127 cod. proc. pen. Il
ricorrente lamenta l’esistenza di un contrasto della disciplina domestica con i
principi del processo equo e segnatamente con il diritto della persona a
sollecitare e, ove possibile, ottenere la pubblicità dell’udienza avanti il giudice
(art.6, paragrafo 1, della Convenzione Edu). Il ricorrente censura pertanto la
decisione del giudice dell’esecuzione di non accogliere la richiesta avanzata in tal
senso e di non ritenere sussistente la compressione del diritto della parte privata
che pure la difesa aveva chiesto fosse riconosciuta. La Corte ritiene che la
questione prospettata dal ricorrente sia fondata.
7. Il rispetto dell’art.6, par.1, della Convenzione Edu.

15

questione è infondata. Va rilevato, sotto un primo profilo, che l’accertamento

L’art.6, par.1, della Convenzione citata recita:

“Ogni persona ha diritto a

che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine
ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale … La sentenza deve essere
resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla
stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della
morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società
democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita
privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal

interesse della giustizia”.
Il tema proposto dal ricorrente non riguarda la pubblicità dell’udienza
intesa come possibilità per le parti di essere sentite personalmente (la
procedura ex art.127 cod. proc. pen. è, infatti, rispettosa del principio della
“oralità” della causa nel senso più volte fissato dalla Corte Edu, ad esempio con
la sentenza della Grande Camera del 26 novembre 2006 nella causa iussila
contro Finlandia, punti 40-44); riguarda, invece, la previsione che limita la
partecipazione e la presenza alle sole parti senza che sia consentito l’accesso del
pubblico e degli organi di informazione. E’ questo un tema che sia la Corte Edu
sia la Corte costituzionale hanno avuto modo di affrontare in precedenti occasioni
e che può essere oggi affrontato, sulla scia di tali decisioni, nei soli aspetti
essenziali.
Questo collegio può così prendere le mosse dalle chiare affermazioni
contenute nella recente sentenza della Corte costituzionale, n.135 del 2014, che
al punto 8 ha concluso: “Gli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma
1, cod. proc. pen. vanno dichiarati, pertanto, costituzionalmente illegittimi, nella
parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per
l’applicazione delle misure di sicurezza si svolga, davanti al magistrato di
sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nelle forme dell’udienza pubblica.”
Tale conclusione è stata raggiunta al termine di una ricognizione, a cui si può
fare rinvio, della giurisprudenza con cui la Corte Edu ha dato applicazione al
citato art.6, par.1, nonché delle pronunce che la stessa Consulta ha già adottato
sul tema.
A questi riferimenti non può non essere aggiunto il rinvio alla recente
decisione che la Corte Edu ha assunto nella causa Grande Stevens e altri contro
Italia (Sez. Seconda, sentenza del 4 marzo 2014). Nell’esaminare i molteplici
profili di doglianza contenuti nel ricorso, la Corte ha esaminato anche la
questione della oralità e pubblicità delle udienze in relazione all’art.6, paragrafo
1, della Convenzione citata, affermando i principi che qui si riportano:

16

tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità può pregiudicare gli

119. Tuttavia, è vero che l’obbligo di tenere un’udienza pubblica non è assoluto
(hdkansson e Sturesson c. Svezia, 21 febbraio 1990, § 66, serie A n. 171-A) e
che l’articolo 6 non esige necessariamente lo svolgimento di una udienza in tutte
le procedure, soprattutto nelle cause che non sollevano questioni di credibilità o
non suscitano controversie su fatti che rendono necessario un confronto orale, e
nell’ambito delle quali i giudici possono pronunciarsi in maniera equa e
ragionevole sulla base delle conclusioni scritte delle parti e degli altri documenti
contenuti nel fascicolo (si vedano, ad esempio, Deiry c. Svezia, n. 28394/95, §

novembre 2003; Jussila, sopra citata, § 41; e Suhadolc c. Slovenia (dec.), n.
57655/08, 17 maggio 2011, dove la Corte ha ritenuto che la mancanza di
udienza orale e pubblica non creasse alcuna violazione dell’articolo 6 della
Convenzione in una causa per eccesso di velocità e di guida in stato di ebbrezza
nella quale gli elementi a carico dell’accusato erano stati ottenuti grazie ad alcuni
apparecchi tecnici).
“120.

Anche se le esigenze del processo equo sono più rigorose in materia

penale, la Corte non esclude che, nell’ambito di alcune procedure penali, i giudici
aditi possano, in ragione della natura delle questioni che si pongono, sentirsi
esonerati dal tenere un’udienza. Se bisogna tenere presente che i procedimenti
penali, che hanno ad oggetto la determinazione della responsabilità penale e
l’imposizione di misure a carattere repressivo e dissuasivo, assumono una certa
gravità, va da sé che alcuni di essi non comportano alcun carattere infamante
per le persone che ne sono oggetto e che le «accuse in materia penale» non
hanno tutte lo stesso peso (Jussila, sopra citata, § 43).
“121. È opportuno anche precisare che l’importanza considerevole che la posta in
gioco del procedimento in questione può avere per la situazione personale di un
ricorrente non è decisiva per stabilire se sia necessario tenere una udienza
(Pirinen c. Finlandia (dec.), n. 32447/02, 16 maggio 2006). Resta comunque il
fatto che il rigetto della richiesta di tenere una udienza può giustificarsi soltanto
in rare occasioni (Miller c. Svezia, n. 55853/00, § 29, 8 febbraio 2005, e Jussila,
sopra citata, § 42).
“122.

Per quanto riguarda la presente causa, secondo la Corte era necessaria

una udienza pubblica, orale e accessibile ai ricorrenti. A tale proposito, la Corte
osserva che vi era una controversia sui fatti, soprattutto per ciò che riguardava
lo stato di avanzamento delle negoziazioni con la Merrill Lynch International Ltd,
e che, al di là della loro gravità da un punto di vista economico, le sanzioni in cui
rischiavano di incorrere alcuni dei ricorrenti avevano, come notato prima
(paragrafi 74, 97 e 98 supra), un carattere infamante, potendo arrecare
pregiudizio all’onorabilità professionale e al credito delle persone interessate.
17

37, 12 novembre 2002; Pursiheimo c. Finlandia (dec.), n. 57795/00, 25

123. Per quanto sopra esposto, la Corte reputa che il procedimento dinanzi alla
CONS08 non soddisfacesse tutte le esigenze dell’articolo 6 della Convenzione,
soprattutto per quanto riguarda la parità delle armi tra accusa e difesa e il
mancato svolgimento di una udienza pubblica che permettesse un confronto
orale.”
Alla luce di quanto esposto merita evidenziare che un particolare rilievo
assumono nella ricognizione operata nel corso della motivazione della ‘citata
sentenza n.135 del 2014 gli argomenti con cui la Corte Edu (Sezione Seconda,

contrarie alla citata disposizione convenzionale le procedure non pubbliche che
l’ordinamento italiano prevede per la riparazione dell’ingiusta detenzione e, in
particolare, il fatto che il giudizio di merito in unico grado venga svolto davanti
alla Corte di appello secondo la procedura ex art.127 cod. proc. pen., giusto il
rinvio che l’art.315, comma 3, cod. proc. pen. opera all’art.646, comma 1, cod.
proc. pen.
Si legge a tal proposito al punto 5 della sentenza n.135/2014, citata:
“Anche in questo caso, la Corte di Strasburgo ha ritenuto essenziale che i singoli
coinvolti nella procedura fruiscano almeno della facoltà di richiedere la
trattazione in forma pubblica dell’udienza innanzi la corte d’appello (competente
nel merito in unico grado), non ravvisando alcuna circostanza eccezionale che
valga a giustificare una deroga generale e assoluta al principio di pubblicità dei
giudizi. Nell’ambito della procedura considerata, infatti, i giudici interni sono
chiamati essenzialmente a valutare se l’interessato abbia contribuito a provocare
la sua detenzione intenzionalmente o per colpa grave: sicché non si discute di
«questioni di natura tecnica che possono essere regolate in maniera
soddisfacente unicamente in base al fascicolo».”
Per comprendere le ragioni che rendono le citate decisioni rilevanti e,
addirittura, decisive nella soluzione della questione posta dal ricorrente Clark
appare utile riportare i passaggi essenziali della sentenza Lorenzetti che la Corte
costituzionale ha richiamato con giudizio adesivo:
“26. Il ricorrente sostiene che la mancanza di una udienza pubblica non era
giustificata nel caso di specie tanto più che la procedura in cassazione si svolge
ugualmente in camera di consiglio.
“27.

Il Governo spiega che una procedura con udienza pubblica porrebbe

problemi di sovraccarico di procedimenti e di tempi di attesa.
“28. Ricorda inoltre che si tratta di una procedura di natura civile e che le parti
hanno la facoltà di intervenire personalmente. Ad ogni modo, il Governo afferma

18

sentenza del 10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia) ha riconosciuto come

che la corte d’appello di Catania per prassi tratta le cause nel corso di una
udienza pubblica e che in concreto non vi è alcuna lesione del diritto alla
pubblicità della procedura.
“29. La Corte ricorda che la pubblicità del dibattimento costituisce un principio
fondamentale sancito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione. Tale pubblicità tutela
i singoli da una giustizia che sfugge al controllo del pubblico e rappresenta così
uno degli strumenti per contribuire al mantenimento della fiducia nei tribunali.
Attraverso la trasparenza che fornisce all’amministrazione della giustizia, essa

cui garanzia fa parte dei principi fondamentali di ogni società democratica (vedi,
in particolare, Diennet c. Francia, sentenza del 26 settembre 1995, serie A n
325-A, § 33, Gautrin e altri c. Francia, sentenza del 20 maggio 1998, § 42,
Recueil 1998-111, e Hurter c. Svizzera, no 53146/99, § 26, 15 dicembre 2005).
“30. L’articolo 6 § 1 tuttavia non impedisce che i giudici, viste le particolarità
della causa sottoposta al loro esame, decidano di derogare a questo principio: ai
sensi di questa disposizione, “(…) l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato
alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della
morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società
democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita
privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal
tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio
agli interessi della giustizia”; l’assenza del pubblico, totale o parziale, deve
essere rigorosamente dettata dalle circostanze della causa (mutatis mutandis,
Diennet, prima citata, § 34).
“31. Nel presente caso, la corte d’appello e la Corte di cassazione hanno trattato
le cause secondo la procedura in camera di consiglio, a porte chiuse, come è
espressamente previsto dalla legge interna e le parti non hanno avuto la
possibilità di chiedere e ottenere una udienza pubblica. A tale proposito la Corte
osserva che il Governo non ha invocato nessuna delle eccezioni previste
dall’articolo 6 § 1 (paragrafo 30 supra) e che queste eccezioni non sono
applicabili alla fattispecie.
“32. La Corte ricorda inoltre che una udienza pubblica può non essere necessaria
date le circostanze eccezionali della causa, soprattutto quando quest’ultima non
solleva questioni di fatto o di diritto che non possono essere risolte in base al
fascicolo e alle osservazioni presentate dalle parti (Schlumpf c. Svizzera, no
29002/06, § 64, 8 gennaio 2009; Deiry c. De via, no 28394/95, § 37, 12
novembre 2002, Lundevall c Svezia, no 38629/97, § 34, 12 novembre 2002,
Salomonsson c. Svezia, no 38978/97, § 34, 12 novembre 2002; vedi anche,
mutatis mutandis, Fredin c. Svezia (no 2), sentenza del 23 febbraio 1994, serie

19

contribuisce a raggiungere l’obiettivo dell’articolo 6 § 1, ossia il processo equo, la

A no 283-A, pp. 10-11, §§ 21 22, e Fischer c. Austria, sentenza del 26 aprile
1995, serie A no 312, pp. 20-21, § 44). Ciò avviene soprattutto quando si tratta
di situazioni che hanno ad oggetto questioni altamente tecniche (per esempio il
contenzioso in materia di sicurezza sociale, Schuler-Zgraggen c. Svizzera, 24
giugno 1993, § 58, serie A, e Dóry, prima citata, § 41). La Corte osserva che
questa giurisprudenza si riferisce essenzialmente allo svolgimento di una udienza
in quanto tale e riguarda soprattutto il diritto ad esprimersi innanzi al tribunale
previsto dall’articolo 6 § 1. Ritiene però che considerazioni analoghe possono

caso di specie, una udienza si è svolta in virtù del diritto nazionale, benché la
Convenzione non esiga il diritto ad esprimersi oralmente, questa udienza deve
per principio essere pubblica. Tuttavia, in tali casi, circostanze eccezionali – e
soprattutto il carattere altamente tecnico delle questioni da esaminare – possono
giustificare la mancanza di pubblicità, purché la specificità della materia non
esiga il controllo del pubblico.
“33. Nella fattispecie la Corte nota che, nell’ambito della procedura in causa, i
giudici interni devono valutare se l’interessato ha contribuito a provocare la sua
detenzione intenzionalmente o per colpa grave. Secondo la Corte non si tratta di
questioni di natura tecnica. Richiama la sua giurisprudenza in forza della quale
(Geig c. Turchia [GC], no 36590/97, CEDU 2002 V), quando si tratta di una
domanda di indennizzo per custodia cautelare “ingiusta”, nessuna circostanza
eccezionale giustifica l’esimersi dal tenere una udienza sotto il controllo del
pubblico, non trattandosi di questioni di natura tecnica che possono essere
regolate in maniera soddisfacente unicamente in base al fascicolo. Per le stesse
ragioni, in queste circostanze, si imponeva la pubblicità dell’udienza in mancanza
di circostanze particolari che giustificassero l’esclusione del pubblico.
“34.

Riassumendo, la Corte ritiene essenziale che i singoli coinvolti in una

procedura di riparazione per custodia cautelare “ingiusta” si vedano quanto
meno offrire la possibilità di richiedere una udienza pubblica innanzi alla corte
d’appello.
“35.

Nella fattispecie, il ricorrente non ha beneficiato di questa possibilità.

Pertanto vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.”
Evidenti appaiono a questo collegio le corrispondenze fra la situazione di
fatto e le valutazioni in diritto contenute nella sentenza a Lorenzetti e quelle che
concernono i provvedimenti giudiziali adottati nel presente procedimento. In
sintesi: a) il ricorso ha per oggetto una ordinanza emessa al termine di una
procedura camerale che interviene dopo un accertamento penale compiuto dal
giudice del merito (ancorchè contenuto nel nostro caso in provvedimento di

20

essere applicate per quanto riguarda l’esigenza di pubblicità. Quando, come nel

archiviazione) e concerne l’applicazione di una misura ulteriore rispetto a detto
accertamento; b) la misura applicata o applicabile incide su diritti della persona o
del soggetto giuridico destinatario della stessa (si tratta qui di diritto
contemplato all’articolo 1 dell’Annesso 1, citato); c) la procedura camerale
rappresenta il luogo in cui vengono esaminati e accertati i fatti che fondano la
decisione e, nel caso in esame, la cosa assume specifica e maggiore rilevanza
per essere il ricorrente rimasto estraneo all’accertamento del giudice di merito e
messo in condizione di difendersi soltanto in sede di procedura esecutiva che si

oggetto di reato o pertinente a reato) non presenta profili di complessità tecnica
che possano richiedere o giustificare una deroga alla regola della pubblicità.
Questi elementi appaiono da soli sufficienti per concludere che anche nel
caso in esame non si ravvedono ragioni per derogare alla regola della pubblicità
dell’udienza. Sussistono, peraltro, elementi ulteriori e peculiari che concorrono al
medesimo esito. Il riferimento è, da un lato, alla partecipazione di un organo del
Governo alla procedura di esecuzione quale parte necessaria e, dall’altro, alla
natura e alle caratteristiche del bene oggetto di confisca. L’ordine di confisca ha
per oggetto una statua di grande valore artistico e archeologico che il Pubblico
ministero e l’Avvocatura dello Stato sostengono far parte del patrimonio
indisponibile dello Stato e che lo stesso giudice dell’esecuzione ha giudicato
sottratta all’ordinario regime in tema di proprietà e di trasferibilità.
Va così concluso che, impregiudicata la compatibilità con l’art.6, par.1,
citato, della celebrazione di un rito camerale non pubblico avanti la Corte di
Cassazione (si vedano le sentenze della Corte costituzionale n.93 del 12 gennaio
2010 e n.80 del 25 gennaio 2011), le disposizioni contenute negli artt.666 e 676,
in relazione all’art.667, comma 4, cod. proc. pen. contrastano con la medesima
disposizione della Convenzione Edu nella parte in cui disciplinano la procedura di
incidente di esecuzione per l’applicazione della confisca.
Spetta adesso a questo giudice individuare quali ricadute tale conclusione
abbia sul procedimento in esame che quelle disposizioni del codice di procedura
penale ha seguito.
La Corte ritiene che le citate disposizioni del codice di rito non consentano
alcuna interpretazione adeguatrice. Esse, infatti, sono inequivoche nel
disciplinare la procedura avanti il giudice dell’esecuzione come rito camerale
caratterizzato da oralità ma non aperto al pubblico. Da ciò discende che
l’applicazione diretta dei principi convenzionali come interpretati dalla Corte Edu
comporterebbe una lettura di portata abrogatrice delle disposizioni interne, non
consentita dall’ordinamento. Occorre, allora, nel rispetto delle indicazioni che la

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svolge con rito camerale non pubblico; d) la materia trattata (confisca di cosa

Corte costituzionale ha fornito al giudicante a far data dalle sentenze n. 348 e
349 del 2007, investire quella stessa Corte del giudizio di legittimità delle
disposizioni interne con riguardo ai parametri forniti dagli artt.117, comma 1, e
111, comma 1, della Costituzione.
In conclusione, questa Corte ritiene che la questione relativa alla conformità
a Costituzione degli artt. 666, 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen., nella parte
in cui non consentono che la parte possa richiedere al giudice dell’esecuzione lo
svolgimento dell’udienza in forma pubblica, sia rilevante per la decisione del

A tale proposito si evidenzia che la richiesta di svolgimento dell’udienza in
forma pubblica ha formato oggetto di specifica istanza della difesa del sig. Clark
e di questione di illegittimità costituzionale delle norme di rito seguite dal giudice
dell’esecuzione, come si ricava dal verbale dell’udienza svoltasi in data 21
dicembre 2009 davanti al Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di
Pesaro e dall’ordinanza che lo stesso giudice ha adottato in pari data con la quale
ha respinto la questione propostagli. Va evidenziato, ancora, che la questione
della illegittimità della “procedura segreta a porte chiuse” ha formato oggetto di
specifico motivo di ricorso della difesa Clark nell’impugnazione proposta avverso
la prima ordinanza del giudice dell’esecuzione adottata nel 2010 e avverso la
precedente ordinanza interlocutoria del 21 dicembre 2009, sopra citata. Con il
che risulta rispettata nel caso in esame la condizione, fissata dalla Corte
costituzionale con la sentenza n.214 del 5 giugno 2013, che il ricorrente abbia
effettivamente mostrato interesse allo svolgimento dell’udienza in sede di merito
secondo la forma pubblica.
Sulla base delle considerazioni che precedono il presente procedimento deve
essere sospeso con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

P.Q.M.
La Corte, visto l’art.23 della legge 11 marzo 1953, n.87;
dichiara rilevante e non manifestamente infondata in relazione agli artt.111,
comma 1, e 117, comma 1 della Costituzione la questione relativa alla
conformità a Costituzione degli artt. 666, 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen.
nella parte in cui non consentono che la parte possa richiedere al giudice
dell’esecuzione lo svolgimento dell’udienza in forma pubblica;
sospende il giudizio in corso sino all’esito del giudizio incidentale di legittimità
costituzionale;
dispone che, a cura della Cancelleria, gli atti siano immediatamente trasmessi
alla Corte costituzionale, e che la presente ordinanza sia notificata alle parti in

22

ricorso proposto dal sig. Clark e non manifestamente infondata.

causa ed al Pubblico Ministero nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, e
che sia anche comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Così deciso il 4/6/2014

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