Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 24338 del 13/05/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 24338 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Calvia Antonio, nato ad Alghero il 31.8.1968;
avverso la sentenza emessa il 3 ottobre 2013 dalla corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari;
udita nella pubblica udienza del 13 maggio 2014 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Aldo Policastro, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, confermò la sentenza emessa il 10.2.2012 dal Gup del tribunale di
Sassari, che aveva condannato Calvia Antonio alla pena di mesi due di reclusione ed € 300 di multa, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 2,
comma 1 bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito nella legge 11 novembre
1983, n. 638, per avere omesso il versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti dal novembre 2005 al maggio 2007, mentre dichiarò prescritti i reati relativi al periodo da gennaio 2005 a ottobre 2005.
Osservò la corte d’appello che la notifica dell’avviso di violazione era avvenuta regolarmente in quanto effettuata all’indirizzo del prevenuto e sottoscritta da persona sicuramente convivente, mentre sarebbe stato onere dell’imputato
fornire la prova della non regolarità della notifica; e che comunque il termine
del pagamento era decorso anche dalla notifica del decreto di citazione a giudizio.
L’imputato, a mezzo dell’avv. Giuseppe Masala, propone ricorso per cassazione deducendo:

Data Udienza: 13/05/2014

1) erronea applicazione della legge penale in riferimento alle norme sulla
causa di non punibilità di cui all’art. 2 comma 1 bis D.L. 12.09.1983. Deduce
che non esistono i presupposti di procedibilità dell’azione penale, per carenza
della contestazione dell’illecito da parte dell’INPS, non essendo stata fornita la
prova dall’accusa che l’INPS abbia notificato al Calvia Antonio l’avvenuto accertamento della violazione del mancato versamento dei contributi previdenziali
dovuti all’ ente. Nella specie l’accusa ha prodotto solo due documenti. Il primo è
la fotocopia del frontespizio di una busta di una raccomandata dal cui esame
non è dato conoscere: 1) il contenuto della raccomandata; 2) il destinatario della
stessa, in quanto la busta è priva di qualsivoglia nominativo; 3) la data in cui sarebbe stata consegnata, essendo solo presente un timbro “al mittente per compiuta giacenza”, accompagnato da altro timbro, assolutamente illeggibile. I giudici hanno ritenuto che la notifica sia accertata dalla denunzia dell’Inps. Sennonché non risulta da quali documenti la dichiarazione resa dal Direttore
dell’INPS possa essere confermata. Anche l’avviso di ricevimento prodotto parzialmente non fa capire a quale plico si riferisce e comunque la firma apposta
dal ricevente non è quella dell’imputato, sicché si ignora chi sia il ricevente. Inoltre, non vi è alcuna corrispondenza tra l’avviso e il frontespizio della busta e
non vi è nemmeno un collegamento temporale tra i due invii.
Osserva che la corte d’appello ha errato nel ritenere che l’imputato dopo il
decreto di citazione a giudizio ben avrebbe potuto provvedere al pagamento di
quanto dovuto all’Ente previdenziale, in quanto le Sezioni Unite hanno affermato che “il decreto di citazione a giudizio è equivalente alla notifica dell’avviso di accertamento solo se, al pari di qualsiasi altro atto processuale indirizzato
all’imputato, contiene gli elementi essenziali del predetto avviso”. Nella specie
non è stata rispettata nessuna delle condizioni stabilite dalle Sezioni Unite.
2) inosservanza di norme processuali, in riferimento all’onere della prova
connesso alla presunzione di innocenza dell’imputato. Osserva che i giudici si
sono fondati anche sulla considerazione che l’imputato ha chiesto il giudizio
abbreviato non condizionato, senza considerare che non avrebbe potuto farsi alcuna richiesta di giudizio abbreviato condizionato, poiché l’allegazione di una
prova contraria a quelle portate dall’accusa si configurava e si configura come
una probatio diabolica, non essendo l’imputato a conoscenza né della persona
accettante il plico, né dell’effettivo documento spedito dall’INPS. Nella specie,
in sostanza, i giudici hanno seguito le regole del processo inquisitorio e non di
quello accusatorio, violando anche l’art. 27 Cost. e l’art. 6 n. 2 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo: la presunzione di non colpevolezza importa
che a giustificare una sentenza di condanna non sia la mancanza di prove di innocenza, ma la presenza di pertinenti e concludenti prove a carico. Lamenta che
l’inversione dell’onere della prova si è verificata nel momento in cui viene artificiosamente costruita, senza collegamenti univoci, una inesistente unità tra i documenti prodotti dall’INPS, i quali invece di per sé soli non bastano a provare la
responsabilità penale del prevenuto. Nella specie, i documenti prodotti non
hanno quella univoca capacità di attestare un unico fatto, un’unica conseguenza,
ovvero, l’avvenuta completa e corretta comunicazione al Calvia, ergo, essi non
possono assurgere a prova logica e compiuta ma devono limitarsi ad attestarsi a

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semplice indizi non collegati, inidonei a dimostrare l’avvenuta notifica o comunicazione di quanto affermato dell’avviso.
Motivi della decisione
Il ricorso — con il quale in sostanza si contesta esclusivamente la mancata
regolare comunicazione all’imputato dell’avviso di accertamento della violazione contestata – si risolve in una censura in punto di fatto della decisione impugnata ed è comunque manifestamente infondato, in quanto la corte d’appello ha
fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sulle ragioni per le quali ha
ritenuto che la detta comunicazione sia stata invece regolarmente effettuata ed
abbia comunque raggiunto il suo scopo.
La censura relativa alla circostanza che il capo di imputazione non conteneva gli elementi essenziali dell’avviso di accertamento è irrilevante, appunto
perché la corte d’appello ha accertato che l’avviso era stato regolarmente comunicato. Entrambi i giudici del merito, invero, hanno osservato che l’Inps ha prodotto la copia dell’avviso di accertamento inviata nel luogo di residenza
dell’imputato e recante la firma per esteso del ricevente, anche se non leggibile,
nonché l’attestazione del pubblico ufficiale incaricato alla consegna. La corte
d’appello ha congruamente rilevato che pertanto l’avviso doveva ritenersi regolarmente consegnato a persona sicuramente convivente con il prevenuto nella
sua stessa residenza. L’eccezione secondo cui non vi sarebbe la prova di quale
fosse il contenuto della busta proveniente dall’Inps consegnata nell’indirizzo
dell’imputato appare pretestuosa, dal momento che non è stato nemmeno allegato quale sarebbe la diversa comunicazione proveniente dall’Inps e ricevuta in
quel giorno.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.
In applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare
in € 1.000,00.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 13
maggio 2014.

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