Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 24336 del 13/05/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 24336 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Donniacuo Vincenzo, nato a Montoro Superiore il
5.4.1957;
avverso la sentenza emessa il 30 marzo 2012 dal tribunale di Avellino;
udita nella pubblica udienza del 13 maggio 2014 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Aldo Policastro, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe il giudice del tribunale di Avellino dichiarò
Donniacuo Vincenzo colpevole del reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), d.
lgs. 3 aprile 2006, n. 152, per avere dato fuoco ad un rilevante cumulo di rifiuti
speciali di varia natura (plastica, bottiglie di plastica vuote, bottiglie, barattoli,
buste di plastica, scarpe vecchie ed altro) delle dimensioni di 4 mc, così operando un illecito smaltimento di rifiuti speciali, e lo condannò alla pena di € 2.000
di ammenda.
L’imputato, a mezzo dell’avv. Giovannangelo de Giovanni, propone ricorso per cassazione deducendo violazione ed erronea applicazione dell’art. 192
cod. proc. pen. in relazione all’art. 530; insussistenza della prova indiziaria.
In particolare osserva che non vi erano indizi precisi e concordanti idonei a
giustificare una condanna. Inoltre lamenta insufficienza e contraddittorietà della
prova.
Osserva che i rifiuti sono stati erroneamente classificati, trattandosi in realtà di rifiuti urbani e non di rifiuti speciali, della cui presenza non vi è alcuna
prova. Del resto i verbalizzanti li avevano classificati come spazzatura. Non è
emersa in dibattimento la quantità dei rifiuti, che certamente non raggiunge

Data Udienza: 13/05/2014

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quella indicata nel capo di imputazione.
Lamenta omessa e contraddittoria motivazione in ordine all’accertamento
della condotta, in quanto risulta che l’imputato in realtà si era recato sul posto
per spegnere l’incendio, insieme all’altro teste. Apoditticamente la sentenza sostiene che i due si erano recati in luogo da un apprezzabile lasso di tempo, mentre risulta che essi intervennero quasi contemporaneamente ai carabinieri. Non
vi è prova che egli avesse commesso il fatto.
Motivi della decisione
Ritiene il Collegio che il ricorso si risolve in una censura in punto di fatto
della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, e sia comunque manifestamente infondato. Ed
invero, il giudice ha fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sulle
ragioni per le quali ha ritenuto che l’imputato stesse effettivamente compiendo
la ritenuta attività di incendiare i rifiuti raccolti in prossimità dell’abitazione già
concessa in godimento al cittadino rumeno.
Quanto alla natura dei rifiuti, effettivamente, sulla base di quanto risulta
dalla sentenza impugnata, deve ritenersi che probabilmente si trattasse di rifiuti
urbani, ma la circostanza è irrilevante perché il ricorrente non contesta che la
condotta contestata e ritenuta è stata esattamente qualificata come attività di
smaltimento, e l’art. 256 d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in relazione a tale attività,
non differenzia tra rifiuti urbani e rifiuti speciali.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.
In applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare
in € 1.000,00.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 13
maggio 2014.

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