Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 24330 del 13/05/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 24330 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: RAMACCI LUCA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MARANO IDA N. IL 26/08/1970
avverso la sentenza n. 1126/2010 TRIBUNALE di ROSSANO, del
04/06/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 13/05/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUCA RAMACCI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. A,
che ha concluso per Q’

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 13/05/2014

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Rossano, con sentenza del 4.6.2012 ha affermato la penale
responsabilità di Ida MARANO, che ha condannato alla pena dell’ammenda, per
i reati di cui agli artt. 133 e 256 d.lgs. 152\06, perché, quale titolare di una
lavanderia industriale, effettuava l’attività di raccolta di rifiuti eterogenei

apriva uno scarico di acque reflue industriali senza la prescritta autorizzazione (in
Corigliano Calabro, il 30.7.2009).
Avverso tale pronuncia la predetta ha proposto appello, convertito in ricorso
per cassazione, tramite il proprio difensore di fiducia, Avv. Marisa CARAVETTA.

2. Con un primo motivo di impugnazione rileva la nullità della sentenza per
la mancata notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini e del decreto di
citazione a giudizio al difensore di fiducia, nominato, nel corso delle indagini
preliminari, nel verbale di elezione di domicilio.

3. Con un secondo motivo di impugnazione osserva che l’affermazione di
penale responsabilità sarebbe fondata esclusivamente su meri indizi, che la
regolarità dello scarico sarebbe stata accertata dalle autorità competenti al
controllo e che l’autorizzazione all’apertura dello scarico era stata richiesta in
data antecedente a quella della verifica.
Quanto ai rifiuti, afferma che gli stessi sarebbero stati collocati nella corte
dei locali della lavanderia in attesa di essere ritirati dalla ditta incaricata per lo
smaltimento.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento dell’impugnazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente rilevare che l’atto di impugnazione risulta redatto e
sottoscritto dall’Avv. Marisa CARAVETTA, la quale non risulta iscritta nell’albo
speciale della Corte di Cassazione.
Come è noto, alla regola secondo cui il ricorso per cassazione è
inammissibile qualora i motivi siano sottoscritti da avvocato non iscritto nello
speciale albo dei professionisti abilitati al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni

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(materiale ferroso e taniche esauste di detersivi prodotti per il lavaggio) ed

superiori non è prevista alcuna deroga, neppure nel caso di appello convertito in
ricorso, poiché altrimenti verrebbero elusi, in favore di chi abbia erroneamente
qualificato il ricorso, obblighi sanzionati per chi abbia proposto l’esatto mezzo di
impugnazione (Sez. V n. 23697, 29 maggio 2003; Sez. III n. 2233, 10 ottobre
1998 ed altre prec. conf.).
Nel caso di specie, tuttavia, l’appello reca in calce l’atto di nomina del
suddetto avvocato sottoscritto personalmente dall’imputata, cosicché, sulla base
di quanto già affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte proprio in relazione ad

perché proposto contro un provvedimento inappellabile, qualificato come ricorso
per cassazione, l’impugnazione può ritenersi presentata personalmente
dall’imputato, in quanto l’atto di nomina in esso contenuto ha un implicito, ma
evidente valore di condivisione della dichiarazione e dei motivi di ricorso, che
quindi devono giuridicamente ritenersi fatti propri dall’imputato, il quale se ne
assume la paternità (v. SS.UU. n. 47803, 23 dicembre 2008. Conf. Sez. III n.
28961, 18 luglio 2012).

5. Deve poi ricordarsi che l’istituto della conversione della impugnazione
previsto dall’art.568, comma 5, cod. proc. pen., ispirato al principio di
conservazione degli atti, determina unicamente l’automatico trasferimento del
procedimento dinanzi al giudice competente in ordine alla impugnazione secondo
le norme processuali e non comporta una deroga alle regole proprie del giudizio
di impugnazione correttamente qualificato. Pertanto, l’atto convertito deve avere
i requisiti di sostanza e forma stabiliti ai fini della impugnazione che avrebbe
dovuto essere proposta (Sez. I n. 2846, 9 luglio 1999. V. anche ex pl. Sez. III n.
26905, 16 giugno 2004; Sez. IV n. 5291, 10 febbraio 2004).
Da ciò consegue che non possono prendersi in considerazione, in questa
sede di legittimità, le questioni concernenti la ricostruzione dei fatti prospettata
nell’atto di impugnazione, né può procedersi ad una loro diversa lettura o
all’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di valutazione.

6. Date tali premesse, deve osservarsi, con riferimento al primo motivo di
ricorso, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la omessa notifica
dell’avviso di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen. determina la nullità del decreto di
citazione a giudizio che è, tuttavia, di natura relativa e, pertanto, deve essere
eccepita, a pena di decadenza, entro il termine di cui all’art. 491 cod. proc. pen.,
subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle
parti (Sez. Il n. 35420, 1 ottobre 2010; Sez. III n. 25223, 20 giugno 2008; Sez. VI
n. 23246, 27 maggio 2003) ovvero, secondo altro indirizzo, maggioritario, fino

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una fattispecie relativa ad atto di impugnazione impropriamente definito appello,

alla deliberazione della sentenza di primo grado (Sez. VI, n. 1043, 9 gennaio
2013; Sez. I n. 47529, 22 dicembre 2008; Sez. V n. 43763, 21 novembre 2008;
Sez. Il n. 13477, 31 marzo 2008; Sez. V n. 29931, 12 settembre 2006; Sez. VI n.
44960, 07 dicembre 2005; Sez. VI n. 34955, 26 ottobre 2003; Sez. I n. 30270, 18
luglio 2003; Sez. III n. 2116, 17 gennaio 2003).
L’eccezione risulta pertanto tardiva, in quanto la questione è stata sollevata
soltanto con l’atto di impugnazione.

riguardo alla violazione della disciplina sui rifiuti, la ricorrente sembra ipotizzare
la sussistenza, nel caso in esame, di una ipotesi di deposito temporaneo.
Tale assunto, tuttavia, non appare condivisibile, in quanto, avuto riguardo
alla disciplina vigente all’epoca dei fatti, l’art. 183, lettera m) n. 3) d.lgs. 152\06
prevedeva, tra le condizioni per il deposito temporaneo, la cui sussistenza deve
essere contestuale, la effettuazione del deposito per

categorie omogenee di

rifiuti, circostanza pacificamente non verificatasi nella fattispecie, in quanto,
come risulta dallo stesso capo di imputazione, i rifiuti erano depositati alla rinfusa
(si utilizza infatti, nell’imputazione, la dizione «rifiuti eterogenei»).
Va altresì escluso, in considerazione delle obiettive condizioni di detenzione
dei rifiuti, l’ipotesi del deposito preliminare in vista di successive operazioni di
smaltimento che risulta, peraltro, non dimostrata ed, anzi, smentita dalle stesse
affermazioni contenute in ricorso, ove si sostiene che la presenza dei rifiuti era
giustificata dal fatto che sarebbero stati poi prelevati dalla ditta incaricata dello
smaltimento (pag. 6 dell’impugnazione) sebbene in precedenza (pag. 4),
nell’elencare la documentazione che comproverebbe la liceità della condotta
dell’imputata, non si fa alcun riferimento ad alcun soggetto, debitamente
autorizzato, incaricato dello smaltimento dei rifiuti, in quanto l’unico richiamo
riguarda una ditta (RARO) adibita a solo «recupero degli imballaggi vuoti», tra i
quali non avrebbero potuto certo annoverarsi il «materiale ferroso» descritto
nell’imputazione.
Va comunque rilevato che, in ogni caso, invocando l’imputata l’applicazione
di un regime derogatorio alla disciplina generali sui rifiuti, avrebbe avuto l’onere
di provare la sussistenza dei presupposti dei presupposti di legge, come più volte
ricordato dalla giurisprudenza di questa Corte (v. ad es. Sez. III n.17453, 10
maggio 2012; Sez. III n. 16727, 29 aprile 2011; Sez. III n. 41836, 7 novembre
2008 in tema di sottoprodotti; Sez. III n. 15680, 23 aprile 2010; Sez. III n. 21587,
17 marzo 2004;. Sez. III n. 30647, 15 giugno 2004 in tema di deposito
temporaneo e, con riferimento alle terre e rocce da scavo, Sez. III n. 9794, 8
marzo 2007; Sez. III n. 37280, 1 ottobre 2008; Sez. III n. 35138, 10 settembre

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7. Per ciò che concerne il secondo motivo di ricorso, deve rilevarsi che,

2009).
Alla luce di quanto sopra evidenziato, appare dunque evidente la
sussistenza, nella fattispecie in esame, di una ipotesi di deposito incontrollato di
rifiuti, sanzionato dall’art. 256, comma 2 d.lgs. 152\06.

8. Per ciò che concerne, invece, la violazione della disciplina sulle acque, va
invece osservato, in primo luogo, che la natura industriale dei reflui scaricati non
è posta in discussione.

natura industriale dei reflui prodotti da insediamenti svolgenti attività di
lavanderia industriale.
In particolare, vigente la legge 319\76, si è affermato che il criterio distintivo
tra insediamenti civili e insediamenti produttivi andava ricercato in concreto sulla
base dell’assimilabilità o meno dei rispettivi scarichi, per tipo e qualità dei reflui,
a quelli provenienti da insediamenti abitativi (SS.UU. n. 11594, 16 novembre
1987; Sez. III n. 175, 13 gennaio 1988; Sez. III n. 9428, 24 settembre 1988).
Il concetto è stato ribadito anche con riferimento al d.lgs. 152\2006,
escludendo l’assimilabilità di tale tipologia di reflui a quelli domestici (Sez. III n.
45341, 6 dicembre 2011), giungendo ad opposte conclusioni solo in un caso,
concernente, però, un’ipotesi di scarico proveniente da una «tintoria» che
effettuava l’attività di lavanderia in umido mediante una comune lavatrice dello
stesso tipo di quelle normalmente in uso nelle abitazioni (Sez. III n. 12470, 3
aprile 2012).
E’ evidente, dunque, che, con riferimento all’attività di lavanderia, una
eventuale assimilabilità potrebbe verificarsi ricorrendo i presupposti di cui all’art.
101, comma 7, lett. e), quindi in caso di scarichi aventi caratteristiche qualitative
equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale
Un’ulteriore possibilità è offerta dal d.P.R. 19 ottobre 2011 n. 227
«Regolamento per la semplificazione di adempimenti amministrativi in materia
ambientale gravanti sulle imprese, a norma dell’art. 49, comma 4 quater, del
decreto legge 31 maggio 2010 n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge
30 luglio 2010 n. 122», applicabile alle piccole e medie imprese in assenza di
specifica disciplina regionale.
Il decreto stabilisce, infatti, fermo restando quanto previsto dall’articolo 101
e dall’allegato 5 alla Parte terza del d.lgs. 152\06, l’assimilazione alle acque
reflue domestiche: a) delle acque che prima di ogni trattamento depurativo
presentano le caratteristiche qualitative e quantitative di cui alla tabella 1
dell’allegato A al decreto medesimo; b) delle acque reflue provenienti da
insediamenti in cui si svolgono attività di produzione di beni e prestazione di

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Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ritenuto la

servizi i cui scarichi terminali provengono esclusivamente da servizi igienici,
cucine e mense; c) delle acque reflue provenienti dalle categorie di attività
elencate nella tabella 2 dell’allegato A, con le limitazioni indicate nella stessa
tabella.
La disposizione richiamata (che prescinde, seppure in parte, dall’ordinario
criterio di assimilazione basato sulle caratteristiche qualitative del refluo ed è
stata aspramente criticata dalla dottrina, ipotizzandone l’illegittimità del
provvedimento – che non necessita di verifica in questa occasione – ed

operare, con riferimento alle attività di lavanderia, soltanto nel caso di
mancanza di specifica disciplina regionale e presentando le caratteristiche
qualitative e quantitative di cui di cui alla tabella 1 dell’allegato A ovvero,
essendo contemplata tale attività anche nella tabella 2 dell’allegato A al decreto
al punto 10, solo nel caso di lavanderie e stirerie con impiego di lavatrici ad
acqua analoghe a quelle di uso domestico e che effettivamente trattino non più
di 100 kg di biancheria al giorno.
Nessuna di tali circostanze è stata evidentemente riscontrata dal giudice di
merito né, tanto meno, sul punto si è pronunciata la difesa nell’atto di
impugnazione.

9. Va poi chiarito che, nel caso in esame, a nulla rileva la regolarità dello
scarico, avendo la contestazione ad oggetto un’ipotesi di scarico in assenza di
autorizzazione, per la sussistenza del quale si prescinde dal superamento dei
limiti tabellari, la cui sussistenza comporterebbe, in presenza di determinati
presupposti, il configurarsi di altra fattispecie contravvenzionale.
L’articolo 124 del d.lgs. 152\06, disciplinando i criteri generali, prevede la
necessaria preventiva autorizzazione per tutti gli scarichi, mentre l’articolo 137,
comma 1 stabilisce, per l’apertura o effettuazione di nuovi scarichi di acque
reflue industriali in assenza di autorizzazione, ovvero mantenimento di detti
scarichi con autorizzazione sospesa o revocata, la sanzione dell’arresto o
ammenda.
Nella fattispecie, risulta, per stessa ammissione dell’imputata, che
l’autorizzazione allo scarico è stata rilasciata il 27.11.2009, quindi
successivamente alla data dell’accertamento (30.7.2009).

10. Va conclusivamente affermato che l’attivazione di uno scarico,
proveniente da lavanderia, di acque reflue qualificabili come industriali
in mancanza dei presupposti per l’assimilabilità a quelle domestiche,
effettuato in assenza della preventiva autorizzazione, configura la

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evidenziando la palese disparità di trattamento dallo stesso creata) potrebbe

contravvenzione di cui all’art. 137, comma 1 d.lgs. 152106.

11. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni
indicate in dispositivo.

P.Q.M.

procedimento.
Così deciso in data 13.5.2014

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del

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