Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 24017 del 29/04/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 24017 Anno 2014
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: PISTORELLI LUCA

SENTENZA

sul ricorso presentato da:
Palmieri Davide, nato a Milano, il 23/9/1963;

avverso la sentenza del 31/1/2013 della Corte d’appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Mario
Fraticelli, che ha concluso per l’annullamento con rinvio del ricorso;
uditi per le parti civili l’avv. Franco Gandolfi e l’Avv. Maurizio Bono, che hanno concluso
chiedendo l’inammissibilità e comunque il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza del 31 gennaio 2013 la Corte d’appello di Milano, in riforma della
pronunzia assolutoria di primo grado appellata dal Pubblico Ministero e dalle parti civili,

Data Udienza: 29/04/2014

condannava alla pena di giustizia e al risarcimento del danno Palmieri Davide per il
reato di cui all’art. 486 c.p. commesso in danno di Unito Antonio, Raho Alessandro,
Raho Diego e Boni Anna Maria. La vicenda concerneva la presunta redazione da parte
dell’avv. Palmieri, al fine di ottenere successivamente il pagamento della parcella per
l’opera prestata, di una bozza di ricorso al giudice amministrativo nell’interesse delle
sunnominate persone offese utilizzando abusivamente una procura ad litem rilasciata
“in bianco” dalle medesime al momento del conferimento all’imputato di mandato

amministrative necessarie per aggiungere al cognome dei figli della Boni quello
dell’Unito e per l’adozione dei primi da parte di quest’ultimo.
2. Avverso la sentenza ricorre personalmente l’imputato articolando sei motivi.
2.1 Con il primo deduce vizi motivazionali del provvedimento impugnato, lamentando
che la Corte distrettuale avrebbe omesso di considerare come la lettera del 16 luglio
2003 – con la quale l’Unito avrebbe comunicato al Palmieri la sua intenzione di
abbandonare la pratica relativa alla modifica del cognome dei figli della convivente e
che quest’ultimo ha sempre negato essergli mai stata consegnata – non era stata
menzionata, nonostante la sua fondamentale valenza per le persone offese,
nell’esposto proposto dalle medesime contro l’imputato al consiglio dell’ordine degli
avvocati di Monza. Circostanza questa che sarebbe idonea a dimostrare logicamente
come la missiva sia stata invero strumentalmente redatta solo in epoca più recente, al
solo fine di resistere alle pretese economiche del ricorrente, e non possa dunque essere
stata consegnata all’imputato all’epoca, circostanza per l’appunto sempre negata dallo
stesso. Non di meno l’artificiosità della menzionata missiva emergerebbe altresì dal
tenore della corrispondenza successiva alla sua presunta data intervenuta tra il Palmieri
e l’Unito, dalla quale, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, si
evincerebbe che fu il primo a decidere di abbandonare la pratica sulla modifica del
cognome. Non di meno i giudici dell’appello avrebbero ingiustificatamente ignorato le
argomentazioni attraverso cui il Tribunale civile di Monza – nel decidere il primo grado
del giudizio sul mancato pagamento degli onorari professionali del Palmieri – ha negato
essersi raggiunta la prova della consegna della lettera a quest’ultimo. Ancora illogica
sarebbe la motivazione della sentenza impugnata nella misura in cui avrebbe
acriticamente recepito le dichiarazioni dell’Unito in ordine all’attribuzione all’imputato
della richiesta di spedirgli via fax il ritaglio di giornale contenente la notizia di un
provvedimento del Consiglio di Stato su un caso analogo a quello oggetto della più
volte citata “pratica cognome”.
2.2 Ulteriori vizi della motivazione vengono dedotti con il secondo motivo, nel quale si
evidenzia come il ragionamento probatorio svolto in sentenza si fonderebbe su
premesse illogiche e comunque errate. Sotto il primo profilo il ricorrente evidenzia che

professionale finalizzato al promovimento delle procedure giurisdizionali ed

la Corte distrettuale avrebbe sostanzialmente dedotto il difetto del mandato dalla
ritenuta insussistenza dei presupposti per presentare il ricorso cui si riferiva,
trasformando in tal senso la valutazione sulle scelte professionali del Palmieri nella
prova del fatto costituente reato mediante un evidente salto logico. Quanto poi alla
presunta insussistenza dei presupposti per presentare il suddetto ricorso, i giudici
milanesi avrebbero erroneamente ritenuto che l’istanza proposta in precedenza ai sensi
dell’ordinamento sullo stato civile fosse stata archiviata ed altrettanto erroneamente

dell’eventuale silenzio-rigetto intervenuto sulla medesima, ignorando che trattandosi di
istanza concernente un diritto personalissimo, di per sé non soggetto a prescrizione o
decadenza alcuna, in assenza di un provvedimento formale il ricorso sarebbe stato
sempre proponibile.
2.3 Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la falsa applicazione dell’art. 2957 c.c.,
evocato dalla sentenza per escludere la buona fede dell’imputato – il quale avrebbe
dunque agito per ottenere il pagamento di prestazioni professionali il cui relativo diritto
di liquidazione già si era prescritto – facendo però in tal modo confusione tra
prescrizione presuntiva e prescrizione estintiva e dimenticando che entrambe non
possono essere rilevate d’ufficio, ma devono essere eccepite dalla parte interessata.
2.4 Con il quarto motivo viene denunciata la violazione da parte della Corte distrettuale
della regola di giudizio dettata dal primo comma dell’art. 533 c.p.p., mentre con il
quinto il ricorrente censura la mancata ammissione nel primo grado di giudizio della
sentenza n. 780/2011 del Tribunale di Monza, resa in una delle cause civili instauratesi
tra il Palmieri e l’Unito e dalla quale si evincerebbe come – contrariamente a quanto
affermato dai giudici d’appello – l’imputato non abbia mai negato di aver ricevuto
l’assegno menzionato nella già citata lettera del 16 luglio 2003, ma soltanto la
consegna di quest’ultima. Con il sesto ed ultimo motivo, infine, viene contestata la
credibilità dell’Unito sulla base di atti provenienti da altri procedimenti ed allegati al
ricorso, nonché dell’esame suppletivo del medesimo svolto nel corso del dibattimento di
primo grado.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1.11 ricorso è infondato e per certi versi anche inammissibile.
1.1 La Corte distrettuale ha affermato la penale responsabilità dell’imputato sulla base
di una analitica disamina della sequenza logica e cronologica della corrispondenza
intervenuta tra l’imputato e l’Unito, nonché delle dichiarazioni di quest’ultimo. In
particolare i giudici d’appello, procedendo ad un rigoroso vaglio critico
dell’interpretazione del compendio probatorio svolta nella pronunzia di primo grado,
hanno evidenziato non solo come i risultati dell’analisi di cui si è detto conforti la

avrebbero ritenuto scaduti i termini per l’impugnazione in sede giurisdizionale

versione della persona offesa – e cioè che nessun mandato era stato rilasciato al
Palmieri per proporre ricorso al T.A.R. – ma altresì come questa trovi logica conferma
anche in alcuni ulteriori fatti accertati nel dibattimento di primo grado e cioè che
inspiegabilmente il ricorso, dopo essere stato predisposto, non venne mai presentato (o
come ha ritenuto necessario precisare il ricorrente: non venne mai notificato alla
pubblica amministrazione e iscritto a ruolo), senza che sia stata peraltro acquisita
prova dell’intenzione dei clienti del Palmieri di rinunciarvi; che lo stato della procedura

non rendere nemmeno prospettabile l’eventualità di rivolgersi utilmente al giudice
amministrativo, tanto da far apparire come illogica anche solo l’idea di proporre il
ricorso; che nel primo atto di citazione presentato per il mancato pagamento delle sue
spettanze l’imputato non menzionò la parcella relativa alla bozze del ricorso al T.A.R.,
oggetto di una seconda azione proposta solo tre mesi dopo.
1.2 La linea argomentativa così sviluppata dalla Corte milanese risulta immune da
qualsiasi caduta di consequenzialità logica, evidenziabile dal testo del provvedimento,
mentre, in larga misura, il tentativo del ricorrente di prospettare una diversa
ricostruzione del fatto si risolve, per l’appunto, nella prospettazione di una lettura
soggettivamente orientata del materiale probatorio alternativa a quella fatta
motivatamente propria dal giudice di merito nel tentativo di sollecitare quello di
legittimità ad una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione o all’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei medesimi, che invece gli sono precluse ai sensi della lett. e) dell’art.
606 c.p.p.

2. Il ricorso ha in particolare molto insistito sul fatto che la tesi accusatoria si sarebbe
fondata sulla missiva del 16 luglio 2003 e sulla sua capacità di dimostrare che l’Unito
aveva revocato il mandato conferito al Plamieri per la c.d. “pratica cognome”. Poiché la
prova della sua consegna e della sua stessa esistenza alla data indicata non sarebbe
stata raggiunta in maniera inequivocabile e poiché lo stesso significato attribuito al suo
contenuto non corrisponderebbe a quello effettivamente ricavabile dal suo testo, la
tenuta del ragionamento probatorio seguito dalla Corte distrettuale in adesione alla
suddetta tesi sarebbe irrimediabilmente compromessa.
2.1 In proposito va osservato come la presunta illogicità della mancata menzione della
lettera nell’esposto inviato dalla persona offesa al Consiglio dell’Ordine di Monza non
prova – come invece pretenderebbe il ricorrente – che la stessa all’epoca non fosse
nemmeno stata scritta, mentre le doglianze che riguardano l’interpretazione della
missiva equivalgono sostanzialmente alla deduzione del vizio di travisamento di una
prova, che, per poter effettivamente essere apprezzata da questa Corte, avrebbe
dovuto essere sostenuta attraverso l’allegazione del contenuto integrale del documento

avviata per il mutamento del cognome dei figli della convivente dell’Unito era tale da

al fine di consentire di comprendere il contesto complessivo da cui sono estate
estrapolate le frasi incriminate. Ed infatti la sentenza dimostra di aver interpretato le
stesse alla luce del tenore complessivo della missiva e dunque il ricorrente non poteva
esimersi dall’onere di completa indicazione del suo contenuto, il cui difetto rende
irrimediabilmente generico il ricorso sul punto.
2.2 Che il Palmieri – come pure sostenuto nel ricorso – abbia “sospeso” la pratica in
attesa del pagamento delle sue spettanze e che per tale ragione non abbia presentato il

preteso dal ricorrente, nella lettera del 3 aprile 2003 in cui viene richiesto all’Unito
semplicemente se è intenzionato a sostenere i costi dell’ulteriore corso della pratica per
come si evince dallo stesso ricorso.
2.3 Quanto poi alla mancata valutazione del contenuto della sentenza del Tribunale
Civile di Monza la doglianza è manifestamente infondata, atteso che l’utilizzabilità della
sentenza pronunziata in altri procedimenti è limitato alla prova dei fatti in esse
accertati e non della valutazione che degli stessi ha compiuto il giudice che l’ha
pronunciata e comunque riguarda esclusivamente le sentenze irrevocabili pronunziate
in altro procedimento penale e non anche quelle pronunziate in un procedimento civile,
attese le evidenti e sostanziali asimmetrie in ordine alla valutazione della prova che
caratterizzano i due diversi ordinamenti processuali (Sez. 5, n. 14042 del 4 marzo
2013, Simona ed altri, Rv. 254981). In tal senso è appena il caso di evidenziare come
ciò di cui il ricorrente avrebbe inteso servirsi a fini di prova è proprio la valutazione
compiuta nell’occasione dal Tribunale, nel mentre la sentenza invocata non è né
penale, né definitiva.
2.4 Per le stesse ragioni è altresì manifestamente infondato anche il quinto motivo con
cui si lamenta la mancata acquisizione nel primo grado di giudizio della sentenza n.
780/2011 del Tribunale civile di Monza, la cui produzione a fini probatori era
inammissibile.
2.6 Sull’esatto significato del termine “abbandonata” contenuta nella missiva del 27
marzo 2007, quella prospettata dal ricorso è invece una mera interpretazione
soggettiva che non tiene conto di come la sentenza abbia logicamente giustificato
quello criticato dal fatto che l’Unito avesse contestualmente richiesto la restituzione del
fascicolo, circostanza sulla quale il ricorrente sorvola, non confrontandosi in tal senso
con l’effettivo contenuto del discorso giustificativo e rivelando così l’aspecificità della
censura.
2.7 Quanto, infine, alla vicenda relativa all’invio via fax del ritaglio di giornale
contenente la notizia della sentenza del Consiglio di Stato, la Corte distrettuale in
maniera non manifestamente illogica ha ritenuto che la stessa non possa costituire la
prova, nemmeno indiretta, dell’avvenuto rilascio di un nuovo mandato, né è
intrinsecamente illogica la versione del fatto fornita in proposito dall’Unito (e cioè che

ricorso è invece obiezione totalmente assertiva e che non trova fondamento, come

fu lo stesso Palmieri a sollecitargli l’invio) e valorizzata in sentenza, come
apoditticamente sostenuto dal ricorrente.

3. In realtà l’intera impostazione del primo motivo di ricorso rivela la sua intrinseca
genericità e latente contraddittorietà nella misura in cui il ricorrente ha omesso di
correlarsi con l’effettivo percorso argomentativo seguito dai giudici d’appello e con il
fatto che la sentenza impugnata, in definitiva, non considera decisiva la prova

luglio 2003.
3.1 Ed infatti la Corte distrettuale – che pure ha dimostrato di credere sul punto alle
dichiarazioni dell’Unito (e come si è visto non senza ragione) – ha fondato, come si è
visto, la sua decisione su ben altre premesse probatorie, partendo proprio dalla tesi
propugnata dal Palmieri nei suoi atti di citazione e secondo cui, anche qualora la lettera
fosse stata realmente consegnata, invero la stessa non avrebbe assunto rilievo
dirimente, giacchè l’incarico per procedere dinanzi al giudice amministrativo avrebbe
avuto il suo fondamento non già nell’originario mandato conferito nel 1998, bensì nel
rilascio di una nuova e specifica procura ad litem nell’autunno del 2004.
3.2 Di questo “nuovo” incarico i giudici d’appello non hanno trovato prova alcuna – se
si eccettuano le indimostrate affermazioni dell’imputato – potendo invece valorizzare le
dichiarazioni negative rese sul punto dalle persone offese ed i riscontri di carattere
logico alle medesime di cui si è detto in precedenza. Interpretazione questa coerente
non solo all’evidenza disponibile, ma altresì al contenuto dell’imputazione, con la quale
non è stato contestato al Palmieri di aver semplicemente ecceduto nel suo mandato
professionale, ma di aver riempito una vecchia procura rilasciata in bianco,
comportamento la cui penale rilevanza prescinde dalla revoca o meno del mandato
originario.
3.3 Dunque il ricorso, per l’ennesima volta, rivela un difetto di correlazione con
l’effettivo contenuto della motivazione della sentenza, la quale aveva spostato il fulcro
della dimostrazione dalla presunta revoca del mandato nel luglio del 2003 all’assoluta
insussistenza dei presupposti per redigere il ricorso quale riscontro all’inesistenza di un
nuovo mandato a tal fine rilasciato.

4. Infondate sono anche le censure svolte con il secondo motivo con cui viene
contestata la tenuta delle premesse fattuali e giuridiche del ragionamento svolto dalla
Corte distrettuale a conferma della attendibilità della versione fornita dalle persone
offese sul ricorso al T.A.R.
4.1 In proposito la sentenza impugnata ha evidenziato come il prefetto avesse imposto
nel termine perentorio di novanta giorni – con decorso dal 20 marzo 2003 l’integrazione della documentazione presentata a sostegno dell’istanza finalizzata ad

dell’esistenza originaria o della effettiva consegna all’imputato della missiva del 16

aggiungere al cognome dei Raho quello dell’Unito. Termine che l’autorità
amministrativa aveva espressamente imposto a pena di “improcedibilità” della stessa
istanza, come correttamente dedotto dalla lettera inviata dal Palmieri al suo assistito il
3 aprile 2003 (circostanza questa non contestata ed anzi ribadita dal ricorrente).
4.2 Non è dubbio – né il ricorrente lo nega – che tale documentazione non venne
tempestivamente consegnata e che conseguentemente l’istanza fosse divenuta
improcedibile, come ritenuto dalla Corte distrettuale, sebbene attraverso l’improprio

l’essenza dell’effetto prodottosi più che per qualificare formalmente il comportamento
dell’amministrazione (talchè le obiezioni sollevate sul punto dal ricorrente risultano del
tutto irrilevanti ai fini della valutazione della tenuta dell’apparato giustificativo della
sentenza).
4.3 A questo punto i giudici d’appello hanno tratto la conclusione che fosse
manifestamente illogico anche solo ipotizzare la possibilità di un ricorso giurisdizionale
nell’autunno del 2004, perfino qualora si fosse voluto qualificare il comportamento della
pubblica amministrazione come silenzio-diniego. Conclusione questa che appare
corretta nelle sue premesse giuridiche e che resiste alle obiezioni svolte dal ricorrente.
Ed infatti va premesso che in realtà alcun silenzio-diniego si era formato, vuoi perché
nella materia oggetto dell’istanza espressamente non è prevista l’operatività
dell’istituto come invece necessario ai sensi dell’art. 20 I. n.241/1990 (nel testo vigente
all’epoca dei fatti), vuoi perché, come illustrato, in realtà l’istanza era divenuta
improcedibile per la mancata integrazione della documentazione richiesta dalla
prefettura. Situazione quest’ultima alla quale l’interessato poteva reagire interloquendo
con l’amministrazione, ma per la quale non aveva certo accesso al rimedio
giurisdizionale asseritamente concordato con il Palmieri, tanto che il ricorso predisposto
da quest’ultimo era espressamente rivolto ad impugnare proprio il silenzio-diniego.
4.4 Non di meno, anche a prescindere dall’oggetto dell’impugnazione e alle possibilità
che questa venisse accolta nel merito, correttamente la sentenza ha ritenuto che, nel
momento in cui l’imputato ha sostenuto gli sarebbe stato rilasciato il “nuovo” e
specifico mandato, fossero abbondantemente e irrimediabilmente trascorsi i termini per
la sua proposizione, talchè è impensabile che il legale avesse effettivamente
prospettato tale soluzione ai suoi clienti, a meno di non ipotizzare che egli avesse
voluto frodarli al fine di lucrare il compenso per il suo invero inutile operato. Anche
questa conclusione appare del tutto logica e coerente all’evidenza disponibile, né viene
contraddetta dall’obiezione del ricorrente per cui in tal modo si sarebbe
surrettiziamente dedotta la prova del fatto criminale imputato dall’irrilevante
valutazione della validità tecnica della strategia con cui il Palmieri ha eseguito il suo
mandato professionale. Obiezione che invero dimentica come la valutazione sulle scelte

riferimento all’istituto dell’archiviazione, evocato all’evidenza al fine di cogliere

del legale costituisce mero riscontro logico delle dichiarazioni delle persone offese e non
prova diretta del fatto contestato.
4.5 La tenuta argomentativa della sentenza non viene compromessa nemmeno
dall’ulteriore censura del ricorrente per cui in realtà i termini per l’esperimento del
rimedio giurisdizionale non sarebbero invero già spirati al momento del rilascio della
fantomatica

procura ad litem,

in quanto il ricorso verteva in tema di diritti

personalissimi e dunque imperscrittibili. Sul punto basti evidenziare come il ricorso

del tutto distinte ed autonome, giacchè anche la tutela giurisdizionale del diritto
imprescrittibile deve essere attivata, a pena di inammissibilità, nei tempi imposti dalla
legge.

5. Alla luce di quanto osservato sino ad ora è dunque agevole rilevare l’infondatezza
anche del quarto motivo di ricorso, atteso che la dedotta violazione del canone
dell’oltre ogni ragionevole dubbio poggia su premesse la cui erroneità o manifesta
infondatezza già è stata evidenziata.
Quanto invece alla questione (eccepita con il terzo motivo) della già intervenuta
prescrizione del diritto al pagamento delle sue prestazioni professionali al momento in
cui il Palmieri agì nei confronti delle persone offese, deve concordarsi con il ricorrente
circa l’inappropriata evocazione in sentenza degli artt. 2956 e 2957 c.c., senza che si
sia tenuto conto delle differenze intercorrenti tra presunzione presuntiva e presunzione
estintiva e comunque del fatto che alcuna delle due sia stata eccepita nel procedimento
civile dalla parte convenuta. Ciò non toglie che la doglianza sia però inammissibile,
atteso che il ricorso non è stato in grado di spiegare la decisività dell’argomentazione
nell’economia del discorso giustificativo elaborato dalla Corte distrettuale e dunque per
quale ragione la sua erroneità ne sovvertirebbe la tenuta, mentre appare evidente
come il riferimento alla presunta prescrizione delle pretese sia stato effettuato
meramente ad colorandum posto che il ragionamento probatorio svolto dai giudici
d’appello fino a quel punto era di per sé sufficiente a sostenere le conclusioni assunte.
6. Infine del tutto inammissibile è il sesto ed ultimo motivo del ricorso, con il quale
sostanzialmente si chiede di valutare per la prima volta in sede di legittimità prove
dichiarative asseritamente provenienti da altri procedimenti (se si eccettua
l’interrogatorio dell’imputato) e non già acquisite nei gradi di merito e pervero solo
sommariamente indicate nell’atto di impugnazione, ma non allegate nella loro
integralità allo stesso.
7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e l’imputato condannato al pagamento
delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili

confonda l’imprescrittibilità del diritto con il rispetto dei termini processuali, categorie

che liquida, per l’Unito in euro 1.500,00 e per le altre in complessivi euro 2.000,00,
oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché

euro 1.500,00 e per le altre parti civili in complessivi euro 2.000,00, oltre accessori
come per legge.
Così deciso il 29/4/2014

al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili nel grado, che liquida per l’Unito in

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