Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 23956 del 04/03/2014
Penale Sent. Sez. 3 Num. 23956 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA
SENTENZA
sul ricorso proposto da
Barraco Carlo, nato il 3 novembre 1955
avverso la sentenza della Corte d’appello di palermo del 10 maggio 2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Angelo
Di Popolo, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Data Udienza: 04/03/2014
RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 10 maggio 2013, la Corte d’appello di Palermo ha
parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Marsala – sezione distaccata di
Castelvetrano, con la quale l’imputato era stato condannato, per il reato di cui agli
articoli 81, secondo comma, 110 cod. pen. e 40, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo n. 504 del 1995, perché, in qualità di amministratore di fatto di una ditta e
in concorso con altro soggetto giudicato separatamente, in esecuzione di un
soggetto ad accisa ad usi soggetti a imposta.
La Corte d’appello ha escluso la continuazione, ha rideterminato la pena in
diminuzione, ha concesso la sospensione condizionale della pena subordinata al
pagamento delle accise evase e delle sanzioni.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto personalmente ricorso per
cassazione, deducendo: 1) l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice e la
carenza di motivazione, perché non sarebbero state spiegate le ragioni del mancato
proscioglimento, in presenza del diniego dell’audizione della coimputata giudicata
separatamente ed essendosi considerate contro l’imputato le risultanze
dell’interrogatorio da questo reso; 2) la violazione dell’art. 511, comma 5, cod. proc.
pen., perché dalla sentenza non emerge se la Corte d’appello, nel dichiarare chiusa
l’istruttoria dibattimentale, abbia dato lettura degli atti utilizzabili e abbia comunque
indicato quelli utilizzati per la decisione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso è inammissibile.
3.1. – Il primo motivo di doglianza è genericamente formulato. Senza muovere
alcuna puntuale critica alla motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente si
limita infatti ad asserire che vi sarebbero carenze motivazionali, in parte non meglio
medesimo disegno criminoso, destinava, in più occasioni, gasolio per motopesca, non
specificate, e in parte riferite alla mancata audizione della coimputata e alla
valutazione dell’interrogatorio reso dallo stesso imputato; profili, questi ultimi, dei
quali il ricorrente non chiarisce la valenza ai fini della decisione. Quanto alla
responsabilità penale, la sentenza impugnata risulta, comunque, adeguatamente e
correttamente motivata, perché prende le mosse dagli accertamenti svolti dalla
Guardia di Finanza, la quale aveva constatato che la ditta era sostanzialmente gestita
dall’imputato, perché egli era stato visto più volte mentre trattava con gli acquirenti la
vendita del carburante non soggetto ad accisa per usi diversi dalla pesca. La stessa
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Corte d’appello evidenzia altresì la tesi difensiva secondo cui il gasolio era destinato a
un peschereccio non risulta credibile, perché basata su indimostrate asserzioni.
3.2. – Il secondo motivo di impugnazione, riferito alla violazione dell’art. 511
cod. proc. pen. in materia di letture consentite in dibattimento, è manifestamente
infondato. Tale disposizione, diretta a regolare l’ingresso della prova nel processo, non
trova infatti applicazione nel giudizio d’appello, perché quest’ultimo si svolge sulla
base di tutto il materiale probatorio acquisito nel giudizio di primo grado, cui può
dibattimentale, ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.
4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto
conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che,
nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità»,
alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod.
proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della
somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 4 marzo 2014.
aggiungersi l’ulteriore materiale derivante dall’eventuale rinnovazione dell’istruttoria