Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 23924 del 31/10/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 23924 Anno 2014
Presidente: DI VIRGINIO ADOLFO
Relatore: PAOLONI GIACOMO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
1. MESSINA DENARO Salvatore, nato a Castelvetrano (TP) il 01/04/1953
2. ARIMONDI Raffaele, nato a Castelvetrano (TP) il 22/02/1960
3. CRAPAROTTA Andrea, nato a Castelvetrano (TP) il 01/01/1964
avverso la sentenza emessa il 16/10/2012 dalla Corte di Appello di Palermo;
letti i ricorsi e la sentenza impugnata ed esaminati gli atti;
udita in pubblica udienza la relazione del consigliere dott. Giacomo Paoloni;
udito il pubblico ministero in persona del sostituto Procuratore Generale dott.
Mario Fraticelli, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso di Arimondi e il rigetto
dei ricorsi di Messina Denaro e Craparotta;
uditi i difensori delle otto costituite parti civili:
– avv. Biagio Di Maria per il Comune di Campobello di Mazara;
– avv. Giuseppe Novara per Confindustria di Trapani e Associazione Antiracket e
Antiusura di Trapani nonché (quale sost. proc.le dell’avv. Davide Bambina) per la
Associazione Antiracket e Antiusura di Alcamo e (quale sost. proc.le dell’avv. Ettore
Barcellona) per il Centro Studi Pio La Torre;
– avv. Giuseppe Gandolfo per l’Associazione Antiracket-Antiusura di Marsala;
– avv. Salvatore Silvestro (quale sost. proc.le dell’avv. Francesco Pizzuto) per la
Federazione F.A.I. (Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane) e per la Associazione
Comitato Addiopizzo;
i quali, tutti, si sono associati alle conclusioni del Procuratore Generale,
depositando le rispettive conclusioni scritte con relative note spese;

Data Udienza: 31/10/2013

uditi i difensori dei ricorrenti imputati, avv. Celestino Cardinale per Messina
Denaro e Arimondi e avv. Francesco Messina per Craparotta, i quali si sono riportati ai
motivi delle rispettive impugnazioni, insistendo per il loro accoglimento.

Motivi della decisione

1. Nel quadro di un processo cumulativo scaturito da articolate indagini promosse
per la ricerca e la cattura di Matteo Messina Denaro, già alla guida del mandamento
mafioso di Castelvetrano (Trapani) e considerato indiscusso capo dell’organizzazione
mafiosa Cosa Nostra, pluricondannato e resosi latitante da quasi venti anni, il G.U.P. del
Tribunale di Palermo -separatane le posizioni da quelle dei coimputati rinviati a giudizio
davanti al Tribunale- ha definito le posizioni processuali nelle forme del rito abbreviato
dei tre imputati generalizzati in epigrafe (nonché di Matteo Filardo, non ricorrente).
Con sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 438 ss. c.p.p. il 4.11.2011 il G.U.P. ha
dichiarato Salvatore Messina Denaro e Andrea Craparotta colpevoli del reato associativo
ex art. 416 bis loro contestato, avendo il Craparotta svolto compiti di raccordo e di natura
logistica nel sodalizio anche tesi a perpetuare la latitanza di Matteo Messina Denaro, in
posizione non apicale (il g.u.p. ha escluso il ruolo direttivo in origine contestato al
Craparotta ex art. 416 bis co. 2 c.p.) e alle dirette dipendenze del fratello del latitante, il
coimputato Salvatore Messina Denaro, che il g.u.p. ha qualificato come vero alter ego del
fratello Matteo ed effettivo gestore del mandamento mafioso trapanese, ruolo esercitato
ininterrottamente dal prevenuto fin dall’inizio della latitanza del fratello e pur nel suo
incidentale stato di detenzione. Con la stessa sentenza il g.u.p. ha riconosciuto il predetto
Salvatore Messina Denaro e Raffaele Arimondi colpevoli del connesso reato di
fraudolento trasferimento di valori per finalità mafiose di cui agli artt. 12 quinquies L.
356/1992 e 7 L. 203/1991 per avere il primo, nella sua posizione di vertice in seno al
mandamento di Cosa Nostra, fittiziamente intestato ai fratelli Raffaele e Maurizio
Arimondi, per sottrarle a misure di prevenzione patrimoniale, quote della società Ari.Da.
Caffè s.r.l. (dal 2008 con ragione sociale ARI Group s.r.1., conferendo agli stessi la formale
amministrazione societaria, ma di fatto gestendola personalmente quale socio occulto.
Per l’effetto, unificati ex art. 81 cpv. i reati ascritti al Messina Denaro, il g.u.p. ha
condannato: Salvatore Messina Denaro alla pena, ulteriore rispetto all’omologa condotta
ex art. 416 bis c.p. oggetto della sentenza 16.7.2002 della Corte di Appello di Palermo
(irrevocabile il 18.2.2004), di dieci anni di reclusione; Andrea Craparotta alla pena di otto
anni di reclusione; Raffaele Arimondi alla pena di due anni e otto mesi di reclusione.
Il giudice di merito di primo grado, all’esito di una estesa esposizione di tutte le
fonti di conoscenza acquisite nelle indagini e di una loro analitica e comparativa analisi
inferenziale e valutativa, ha ritenuto raggiunte piene e affidabili prove dell’affermata
responsabilità dei tre imputati per i reati loro rispettivamente attribuiti, alla luce: di un
poderoso compendio di intercettazioni telefoniche e ambientali (anche a bordo di
autovettura in uso al Craparotta e nell’abitazione di Salvatore Messina Denaro)
registranti gli interventi e le attività poste in essere dai prevenuti; delle dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Antonio Vaccarino, già sindaco di Castelvetrano “infiltrato” in
Cosa Nostra dai servizi di sicurezza nazionali ed in contatto (fino al disvelamento del
suo “doppio gioco”: seconda metà del 2007) con il latitante Matteo Messina Denaro tramite
“pizzini” reciprocamente veicolati con i nomi in codice di Svetonio (Vaccarino) e Alessio/
2

o

2. Avverso la decisione del G.U.P. hanno proposto appello i tre imputati.
La Corte di Appello di Palermo con la sentenza del 16.12.2012 indicata in epigrafe
ha confermato in punto di responsabilità la decisione di primo grado, condividendone
l’analisi ricostruttiva consentita dalle fonti di prova e la valutazione degli individuati
elementi dimostrativi della colpevolezza dei tre imputati. La Corte è intervenuta, in
parziale modifica della prima decisione, unicamente sul trattamento sanzionatorio
riservato agli appellanti.
Per la posizione di Salvatore Messina Denaro la Corte ha rilevato una serie di
errori, anche dosimetrici, compiuti dal g.u.p. nel calcolo della pena e segnatamente nella
quantificazione sanzionatoria delle varie aggravanti riconosciute sussistenti nei fatti
reato ascritti all’imputato. Errori solo parzialmente emendabili, stante il divieto (in
assenza di impugnazione del p.m.) di reformatio in peius sancito dall’art. 597 co. 3 c.p.p. I
giudici di appello, nel confermato rapporto di continuazione con il reato associativo e i
reati a questo connessi per cui il Messina Denaro ha già riportato condanna definitiva
(C.A. Palermo 16.7.2002), hanno ritenuto qualificabile come più grave il reato di cui
all’art. 416 bis contestato nell’odierno processo. Per l’effetto la Corte, muovendo dalla
stessa pena di dieci anni di reclusione stabilita dal g.u.p. per il reato associativo e il reato
di trasferimento fittizio di valori (esclusa per questo l’aggravante di cui all’art. 7 L.
203/91), ha determinato in complessivi diciassette anni di reclusione la pena inflitta al
prevenuto in relazione ai reati di cui alle due sentenze di condanna.
Quanto a Raffaele Arimondi, esclusa anche per lui l’aggravante della mafiosità
(art. 7 L. 203/91) contestata per il reato di cui all’art. 12 quinquies L. 356/92, la Corte
distrettuale ha ridotto la pena ad un anno e otto mesi di reclusione, concedendo il
beneficio della sospensione condizionale della stessa pena.
La Corte ha mantenuto, invece, inalterata la pena inflitta ad Andrea Craparotta
per la partecipazione criminosa ex art. 416 bis c.p.
3. La sentenza di secondo grado è stata impugnata per cassazione dai difensori dei
tre imputati, che hanno dedotto vizi di legittimità della decisione riconducibili alla
tipologia della violazione di legge (processuale o sostanziale) e della insufficienza,
contraddittorietà o palese illogicità di motivazione. Censure riassunte come di seguito.
3.1. Ricorso di Salvatore Messina Denaro.
3.1.1. Mancanza e illogicità di motivazione sulla prova del reato associativo.

La Corte di Appello ha ribadito che la prova della responsabilità dell’imputato per
il reato associativo con ruolo apicale è desunta dalle dichiarazioni accusatorie del
collaborante Antonio Vaccarino, considerate lineari e non contraddittorie. Ma così non è.
Perché le propalazioni del collaborante sono “eterogenee”, quanto al luogo in cui sarebbe
avvenuto il suo unico incontro con il ricorrente (Castelvetrano o Campobello di Mazara)
e quanto all’iniziativa dell’avvenuto contatto con il fratello del più noto latitante Matteo
Messina Denaro (su sollecitazione dello stesso latitante ovvero su proposta dello stesso
3

(il latitante); dei pizzini provenienti dal latitante sequestrati all’atto dell’arresto di
Bernardo Provenzano nel 2006 e di quello di Salvatore Lo Piccolo nel 2007; dei servizi di
osservazione e riscontro dinamici esperiti dalla p.g. in concomitanza con evenienze fatte
palesi dalle captazioni foniche; delle acquisizioni documentali e storiche (quanto alla
società ARI Group s.r.1.).

3.1.2. Violazione dell’art. 12 quinquies L. 356/92 e difetto di motivazione.

Pur esclusa l’aggravante delle finalità mafiose, i giudici di appello hanno ribadito
la responsabilità dell’imputato per tale reato, senza un’adeguata analisi delle doglianze
prospettate in sede di gravame, tra cui in particolare quella dell’implausibilità di un
consapevole coinvolgimento del prevenuto per motivi di lucro in una azienda, quella
facente capo ai fratelli Arimondi, “sommersa da debiti e in evidente dissesto”.
3.2. Ricorso di Raffaele Arimondi.
3.2.1. Insufficienza e illogicità della motivazione sulla ritenuta responsabilità per il

reato di cui all’art. 12 quinquies L. 356/92.
Come emerge dagli atti, l’imputato ha costituito a suo tempo la società ARI Group
s.r.l. (in origine denominata Ari.Da. Caffè s.r.1.) per la distribuzione all’ingrosso di
forniture di caffè ad esercizi pubblici con un altro socio, tale Giovanni D’Angelo (le cui
quote sono poi state rilevate dal fratello Maurizio Arimondi), ben prima di qualsiasi
contatto con Salvatore Messina Denaro. L’imputato, d’altro canto, ha effettivamente
svolto attività lavorativa per conto della società. Il che confligge con la ritenuta titolarità
dell’impresa in capo a soggetto terzo (il coimputato Salvatore Messina Denaro).
3.3. Ricorso di Andrea Craparotta.
3.3.1. Violazione degli artt. 267, 268 co. 3 e 271 c.p.p.

Fin dalle fasi iniziali dell’udienza preliminare la difesa dell’imputato ha eccepito
in limine l’inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni riguardanti il ricorrente, eseguite
in violazione degli artt. 267 e 268 co. 3 c.p.p. con specifico riferimento ai decreti
autorizzativi nn. 707/07 e 709/07 emessi in via di urgenza dal p.m. su due utenze mobili
in uso al prevenuto e all’interno della sua vettura Mercedes. Inutilizzabilità discendente
dalla mancanza di motivazione sulle eccezionali ragioni di urgenza giustificanti le
captazioni e sull’impiego di apparecchi di fonoregistrazione diversi da quelli installati
presso la Procura della Repubblica. Il g.u.p. ha rigettato “senza darne sufficiente conto”

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Vaccarino). Perché, ancora, le propalazioni di quest’ultimo non sono attendibili, laddove
collocano il predetto incontro due o tre mesi prima del ricevimento, nell’ottobre 2004, del
primo pizzino di Matteo Messina Denaro, quando il ricorrente era detenuto (essendo
stato arrestato nel febbraio 2004). Analogamente non verosimili vanno reputate altre
indicazioni del collaborante (presenza di tale Carmelo Gariffo nel proposto “affare” della
creazione di un’area di servizio autostradale, ritenuto appetibile da Matteo Messina
Denaro e che lo avrebbe indotto a porsi in contatto a tal fine con Bernardo Provenzano).
Le accuse veicolate dal Vaccarino non sono sorrette da idonei riscontri sulla
effettiva appartenenza mafiosa di Salvatore Messina Denaro. Al riguardo la Corte di
Appello si è limitata a segnalare taluni episodici incontri, nel corso di un ampio arco
temporale, del ricorrente con alcuni soggetti poi successivamente accusati di
associazione mafiosa, senza poter definire il reale oggetto di siffatti incontri. La sentenza
di secondo grado, in altre parole, non ha saputo fornire soddisfacente risposta ai
coordinati rilievi critici enunciati con l’appello contro la sentenza del g.u.p., affidando la
conferma della responsabilità associativa del prevenuto ad una apodittica positiva
valutazione del contribuito informativo del collaboratore Vaccarino, corredato da
riscontri impropri, e ad una “ipervalorizzazione” della precedente sentenza di condanna
del ricorrente per il reato di associazione mafiosa.

l’eccezione e parimenti la Corte territoriale si è limitata a sottolineare la regolarità
formale delle disposte intercettazioni. Se è vero che per uno dei decreti autorizzativi il
p.m. aveva disposto l’uso degli impianti esistenti presso la sala di ascolto della Procura,
non è meno vero che l’effettuazione delle corrispondenti operazioni tecniche è stato
affidato a una società esterna privata (in regime consulenziale). Nulla tuttavia giustifica
la dichiarata “inidoneità” e autosufficienza degli impianti della Procura.
3.3.2. Violazione degli artt. 267 e 271 c.p.p.

3.1.3. Erronea applicazione dell’art. 416 bis c.p.; mancanza, manifesta illogicità e
contraddittorietà della motivazione; travisamento delle risultanze processuali.
Le due conformi decisioni di merito hanno basato il giudizio di responsabilità del
Craparotta per partecipazione all’organizzazione mafiosa di Castelvetrano riconducibile
al coimputato Salvatore Messina Denaro e, attraverso questi, al fratello e indiscusso capo
di Cosa Nostra, il latitante Matteo Messina Denaro, sui contenuti delle intercettazioni.
In più casi, però, i giudici di merito hanno travisato o male interpretato i referenti
dei dialoghi captati coinvolgenti direttamente o indirettamente l’imputato. Dialoghi cui
sono stati coniugati, specialmente dalla Corte di Appello, emergenze estrinseche,
inapprezzabili come riscontri, formate dai rapporti di frequentazione con il coimputato
Messina Denaro, ritenuto capo (per delega del fratello latitante) del mandamento
mafioso, e da contegni dello stesso Craparotta letti in una deformante ottica colpevolista
desunta dalle citate captazioni in virtù di un inaccettabile canone probatorio circolare.
La sentenza di appello non ha tenuto in alcun conto le importanti evenienze per
cui l’imputato: non è stato raggiunto da alcuna indicazione accusatoria del pur
apprezzato collaborante Vaccarino; non è stato accusato di fungere da “tramite” per la
consegna dei messaggi (pizzini) dal o al latitante Matteo Messina Denaro; non è stato
accusato di alcun altro reato (funzionale o meno al sodalizio mafioso) oltre a quello
associativo, nel cui contesto egli avrebbe unicamente svolto il compito di autista e uomo
di fiducia di Salvatore Messina Denaro.
3.1.4. Mancanza di motivazione sulla sussistenza del reato di favoreggiamento
personale (art. 378 c.p.) in luogo di quello associativo ex art. 416 bis c.p.
Con l’atto di impugnazione della prima sentenza era stato diffusamente illustrato
un subordinato motivo di censura attinente alla possibile configurazione nel fatto reato
ascritto al Craparotta del diverso e meno grave reato di favoreggiamento personale [il
motivo di appello è traslitterato per intero nel motivo di ricorso, n.d.r.].
La sentenza di secondo grado, pur dando sommariamente atto della proposizione
del motivo di appello, si astiene dall’enunciare qualsiasi doverosa risposta alla ipotesi di
derubricazione del reato mafioso in quello punito dall’art. 378 c.p. Ciò benché la tematica
dei rapporti tra i due reati previsti dagli artt. 416 bis e 378 c.p. assuma un notevole rilievo
nella evoluzione della giurisprudenza di legittimità che a più riprese si è occupata dei
fenomeni di criminalità mafiosa [il motivo di ricorso si diffonde in richiami di numerose
massime di questa S.C. sulla dedotta questione].

I menzionati decreti autorizzativi del p.m. e i successivi decreti di convalida del
g.i.p. sono privi di motivazione in ordine alla indispensabilità delle operazioni di ascolto
ai fini della prosecuzione delle indagini in corso.

3.1.5. Mancanza di motivazione in punto di pena.

I giudici del gravame, dimentichi del pur richiamato ruolo di “subalternità”
attribuito dalla sentenza del g.u.p. al Craparotta, hanno pedissequamente confermato la
5

i

pio

4. Il solo ricorso di Andrea Craparotta è meritevole di parziale accoglimento in
relazione ai profili sostanziali delle addotte censure (motivi terzo, quarto e quinto) con
conseguente annullamento in parte qua dell’impugnata sentenza della Corte di Appello di
Palermo e rinvio degli atti alla stessa Corte per un nuovo giudizio sulla posizione
dell’imputato. I ricorsi di Salvatore Messina Denaro e di Raffaele Arimondi sono
inammissibili per genericità e infondatezza manifesta delle rispettive ragioni di censura.
5. Le censure enunciate con il ricorso di Salvatore Messina Denaro sono prive di
specificità, poiché si traducono in una acritica replica dei motivi di appello avverso la
decisione di primo grado, tutti adeguatamente valutati e disattesi con corretti argomenti
giuridici, avvalorati da una rinnovata e autonoma lettura delle emergenze processuali. In
ogni caso e congiuntamente i motivi di doglianza si manifestano palesemente infondati
alla stregua della lineare motivazione della Corte di Appello (e, in precedenza, della
stessa sentenza del g.u.p. del Tribunale), che ha sgombrato il campo dalle pretese
incongruenze o contraddizioni segnalate (rectius replicate) con l’odierno ricorso.
5.1. Ciò vale particolarmente per i rilievi critici espressi sulla continuità della
gestione apicale della famiglia mafiosa trapanese da parte dell’imputato in nome e per
conto del più autorevole fratello latitante Matteo, di cui ha garantito la perdurante e
perfino capillare effettiva gestione del sodalizio criminoso, contribuendo ad accrescerne
la fama di “imprendibilità” e di oculato gestore di affari e traffici illeciti di vario genere,
grazie ai quali (oltre che per la decimazione dei vecchi capi Riina, Provenzano e dei loro
più stretti collaboratori, tratti tutti in arresto) è assurto al ruolo di vero e stabile capo
dell’intera Cosa Nostra.
Le risultanze processuali passate in rassegna dalla Corte di Appello non
evidenziano in alcun modo le carenze probatorie e l’inaffidabilità dei dati di riscontro
addotte dal ricorrente. Per un verso, come già chiarito dalla sentenza del g.u.p., le
dichiarazioni accusatorie del Vaccarino (già uomo politico di Castelvetrano e agente
“infiltrato” dal Sisde per giungere alla cattura del latitante Matteo Messina Denaro), oltre
ad essere dotate di intrinseca credibilità, sono suffragate da plurimi riscontri
documentali -a riprova dell’autenticità e ripetitività dei contatti dallo stesso intrattenuti
con il latitante per possibili affari d’interesse mafioso (in special modo quello per la
realizzazione dell’area di servizio Costa Gaia lungo l’autostrada A29)- costituiti dal
profluvio di “pizzini” (messaggi) prodotti dallo stesso Vaccarino (cui, per inciso, la sigla
in codice di “Svetonio” è stata attribuita da Matteo Messina Denaro e non dal Sisde), di
quelli sequestrati agli arrestati Bernardo Provenzano e Salvatore Lo Piccolo. Messaggi
provenienti da Matteo Messina Denaro (in codice “Anastasio” nei rapporti epistolari con
Vaccarino) e riferibili all’affare Costa Gaia in corso proprio con il Vaccarino, che -come
assicura al Provenzano- ha fatto contattare da una sua “persona intima”, che altri non è se
non il fratello Salvatore e non il reggente interinale della cosca di Castelvetrano Filippo
Guttadauro (cognato di Matteo Messina Denaro), come si adduce in ricorso, per le
logiche ragioni enunciate dalla sentenza di appello. Prima fra tutte quella per cui, nel
pizzino/messaggio inviato il 30.9.2004 al Provenzano, Matteo Messina Denaro comunica

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pena di otto anni di reclusione inflitta al ricorrente. Pena eccessiva e sproporzionata
rispetto al presunto apporto criminoso del prevenuto. Ma altresì incongrua rispetto alla
rimodulazione della pena compiuta dalla stessa Corte per il coimputato Salvatore
Messina Denaro, che è considerato in posizione di vertice nell’aggregazione mafiosa.

che il contatto con l’interlocutore (Vaccarino) è stato instaurato dalla “persona intima” otto
mesi prima. Cioè quando il fratello Salvatore è ancora in libertà (è arrestato il 19.2.2004).
Né, ad ulteriore dimostrazione del ruolo apicale in seno all’aggregazione mafiosa
trapanese ricoperto dal ricorrente, può sottacersi l’attivismo dallo stesso dimostrato per
accertarsi se, dopo l’arresto dell’imprenditore Giuseppe Grigoli (20.12.2007), una sorta di
“alter ego imprenditoriale di Matteo Messina Denaro e formale intestatario di imponenti attività
commerciali” (come sottolinea la sentenza del g.u.p.), lo stesso Grigoli non sia per caso
intenzionato a collaborare con la giustizia. L’episodio, diffusamente descritto dal g.u.p. e
richiamato dalla sentenza di appello, vede il ricorrente incontrarsi con il nipote
dell’arrestato, Antonino Grigoli, affinché si accerti della temuta eventualità (di tale
interessamento dell’imputato si troverà traccia in captazioni di colloqui in carcere tra il
Grigoli e la consorte).
Se ne inferisce, quindi, che le schematiche censure svolte nell’odierno ricorso in
relazione al reato di associazione mafiosa, lungi dal proporre pertinenti critiche alle
valutazioni della Corte di Appello (e dello stesso g.u.p. del Tribunale di Palermo) sul
ruolo di effettivo conduttore del mandamento mafioso (nell’interesse del fratello Matteo)
attribuito al ricorrente, sulla base di una corretta applicazione dei criteri di valutazione
delle fonti probatorie, non valgono ad infirmare in alcun modo le conclusioni
confermative del giudizio di colpevolezza del ricorrente per il reato di cui all’art. 416 bis
c.p. cui è pervenuta la Corte distrettuale.
5.2. Non dissimili considerazioni si impongono per i rilievi critici (secondo motivo
di ricorso) formulati in rapporto al reato di fittizia intestazione di beni pure contestato a
Salvatore Messina Denaro in concorso con i fratelli Arimondi. Considerazioni, se si
vuole, ancor più pregnanti quando si ponga mente alla genericità del corrispondente
motivo di ricorso. La circostanza che la società ARI Group s.r.l. non sia stata creata
dall’imputato (ma da Raffaele Arimondi, cui poi si unisce il fratello Maurizio) e che la
stessa non sia risultata in florida situazione finanziaria non può far velo alla oggettività
della gestione della stessa da parte del Messina Denaro, socio occulto e vero gestore
della società (sentenza, p. 32: “soleva comportarsi uti dominus, dando finanche disposizioni in
merito a tempi, quantità e qualità delle forniture da effettuare”) e al carattere palesemente
strumentale (funzionale agli interessi economici dell’imputato) di fruire di un utile
strumento societario facente capo formalmente a persone diverse da lui, ma da lui
totalmente controllate. Dati di fatto univocamente attestati dalle plurime captazioni
foniche, ripercorse dalla sentenza di primo grado e richiamate dai giudici di appello,
concernenti la conduzione della società. Conduzione che, per le corrette ragioni
giuridiche esposte dalle due decisioni di merito, riconduce la condotta del ricorrente e
dei correi nell’alveo della contestata fattispecie punita dall’art. 12 quinquies L. 356/92.
6. Il ricorso di Raffaele Arimondi, condannato per concorso nel solo reato di cui

all’art. 12 quinquies L. 356/92, si segnala per totale vaghezza e inconferenza della
delineata censura. In vero né il g.u.p., né la Corte di Appello palermitani dubitano che
l’Arimondi abbia prestato la propria opera lavorativa in seno alla società ARI Group s.r.l.
Ma ciò che penalmente ha assunto rilievo è il dato per cui, come si desume dai dati
processuali (captate conversazioni tra Salvatore Messina Denaro, il ricorrente Arimondi,
il fratello Maurizio e altri terzi), tale opera professionale non è stata svolta in ragione
della carica di amministratore societario dello stesso imputato (o del fratello), ma
unicamente alle “dipendenze” del Messina Denaro e nell’interesse di costui.
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7.1. Le riproposte eccezioni di inutilizzabilità delle captazioni foniche sulle utenze
mobili in uso al ricorrente e a bordo della sua autovettura non possiedono serio pregio,
alle stesse -in punto di legittimità e regolarità formale (motivazioni e mezzi tecnici
impiegati) e sostanziale (necessità del mezzo di ricerca probatoria)- avendo già offerto
appaganti e corrette risposte sia l’ordinanza reiettiva del 26.5.2011 emessa dal g.u.p.
(anche in riferimento alla natura del giudizio allo stato degli atti), sia la sentenza di
appello, che hanno radicalmente escluso la ravvisabilità di ipotetici profili di c.d.
inutilizzabilità patologica della complessiva attività di indagine scandita dalle operazioni
di intercettazione fonica (telefonica e ambientale). Nel giudizio a prova contratta, come
ancora di recente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice (Sez. 2,
16.4.2013 n. 19483, Avallone, rv. 256038), divengono deducibili e rilevabili le sole nullità
di carattere assoluto e le inutilizzabilità riconducibili nell’area di una genetica patologia
funzionale, quali certamente non possono ritenersi le presunte violazioni di legge
addotte dal ricorrente ex artt. 267 e 268 co. 3 c.p.p. in punto di indispensabilità delle
operazioni di ascolto, delle loro eccezionali ragioni di urgenza e di parziale impiego di
impianti tecnici diversi da quelli in dotazione della Procura della Repubblica.
In questa sede è sufficiente ribadire che l’onere di motivazione dei decreti di
intercettazione, sia di convalida (e di proroga) da parte del g.i.p. sia di quelli emessi in
via di urgenza dal p.m., è ben assolto anche per relationem, mediante il richiamo al
provvedimento del p.m. e alle stesse informative di polizia, con implicito giudizio ad essi
adesivo. A ciò aggiungendosi che l’obbligo di pertinente motivazione dei decreti di
intercettazione è assolto ogni qual volta -come è agevole inferire nella vicenda per cui è
ricorso (dalla lettura della citata ordinanza del g.u.p. e delle due sentenze di merito)- la
trama del provvedimento lasci dedurre il percorso cognitivo e valutativo seguito dal
giudice (o dal p.m. in caso di urgenza) e se ne possano conoscere i risultati.
Nessun serio elemento, infine, è prospettato dal ricorso per contrastare il rilievo
con cui i giudici di merito hanno rimarcato, quanto alla decisiva indispensabilità delle
operazioni di ascolto, che i provvedimenti autorizzativi, oltre a essere sorretti da
sufficiente motivazione su tutti i profili censurati dal ricorrente, sono connotati, quanto
ad indispensabilità e ad immanenti ragioni di urgenza, dal rilievo che si procede ad
indagini per fatti di criminalità organizzata (da sottoporre a costante monitoraggio) e
segnatamente per la cattura di un latitante (quale è da anni il ritenuto capo di Cosa
Nostra Matteo Messina Denaro). Di tal che, a tutto concedere, il ricorso anche a
strumentazioni esterne alla Procura della Repubblica e i profili tecnici di inidoneità
funzionale degli impianti della Procura con eventuale omessa indicazione specifica dei
motivi di inidoneità funzionale dei relativi impianti non sono causa di nullità né di
inutilizzabilità degli esiti captativi (ex plurimis: Sez. 5, 16.3.2010 n. 16285, Baldissin, rv.
247268: Sez. 6, 9.4.2013 n. 39216, Di Fiore, rv. 256590).
7.2. I motivi di doglianza sulla sussumibilità della complessiva condotta del
Craparotta nell’alveo della fattispecie della partecipazione all’associazione mafiosa
riconducibile ai fratelli Messina Denaro, non sono -ex adverso- privi di pregio, sì da
rendere necessaria una rinnovata disamina delle risultanze processuali che dissolva le
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7. Il ricorso di Andrea Craparotta è assistito da fondamento con riguardo
all’insufficiente o inadeguata analisi prospettica del suo effettivo inserimento organico
nella famiglia mafiosa di Castelvetrano diretta da Salvatore Messina Denaro e, in tale
contesto, del ruolo e dei compiti svolti nella dinamica di detto inserimento.

ragioni di incertezza valutativa sulla posizione dell’imputato segnalate nel ricorso, cui la
rapida motivazione della sentenza di appello non sembra offrire convincenti risposte.
Motivi di censura che ovviamente assorbono quello, subordinato, sulla eccessività della
pena, la cui determinazione (confermativa della sanzione inflitta dal giudice di primo
grado) non è parimenti immune dalle discrasie comparative pure rimarcate in ricorso.
Obiettivamente la sentenza di appello, come si afferma nel ricorso, non ha
neppure sfiorato il tema addotto dallo specifico gradato motivo di gravame della
possibile alternativa riconducibilità della condotta dell’imputato nella diversa fattispecie
del favoreggiamento personale, piuttosto che in quella della contestata associazione
mafiosa. E’ ben vero che la questione della definizione giuridica del fatto reato ascritto al
Craparotta (eventuale art. 378 c.p. e non art. 416 bis c.p.) sollevata dalla difesa può, in
teoria, considerarsi implicitamente trattata alla luce delle argomentazioni con cui i
giudici di secondo grado hanno ritenuto di avallarne la colpevolezza in termini di
partecipazione al sodalizio mafioso capeggiato da Salvatore Messina Denaro. Tuttavia è
proprio la reversibile fragilità del giudizio espresso dalla Corte territoriale, alla luce degli
elementi apprezzati come sintomatici della partecipazione mafiosa del prevenuto, a
rendere necessario un nuovo esame che, con maggiore completezza analitica, si faccia
carico anche della problematica suscitata dai non sempre decifrabili confini tra la
fattispecie plurisoggettiva e quella favoreggiatrice, in sintesi individuati nel dato per cui
nell’associazione criminosa l’agente opera in modo organico e sistematico con gli altri
sodali, ponendosi come componente strutturale dello stesso assetto organizzativo
criminale, laddove nel favoreggiamento egli aiuta in maniera più o meno episodica (o
isolata) un associato ad eludere le indagini della p.g. o a sottrarsi alle ricerche della stessa
(cfr.: ex plurimis: Sez. 6, 8.10.2008 n. 40966, Pillari, rv. 241701; Sez. 6, 6.12.2011 n. 5909/12,
Lipari, rv. 252406; Sez. 1, 7.5.2013 n. 33243, Borrelli, rv. 256987).
Gli elementi attraverso i quali la sentenza di appello ritiene positivamente esaurita
la verifica e la “tenuta” delle fonti di prova accreditati la sussistenza dei presupposti
oggettivi e soggettivi della partecipazione associativa mafiosa del Craparotta non si
rivelano del tutto congrui e lineari sulla base degli individuati elementi dimostrativi
della condotta criminosa ascritta al ricorrente.
Elementi che, in definitiva, riposano sui rapporti intessuti dal ricorrente con il solo
coimputato Messina Denaro, di cui sarebbe “autista e accompagnatore di fiducia”,
emergenti da captazioni foniche che descrivono l’oggettività di tali rapporti, per altro
non misconosciuti dall’imputato, che però li inscrive nel quadro di una risalente amicizia
con il più anziano e autorevole concittadino.
Diviene allora emblematica della debolezza del paradigma accusatorio ex art. 416
bis c.p. denunciata dal ricorso l’affermazione riportata in sentenza, per la verità di non
chiara valenza referenziale, secondo cui il ruolo del Craparotta quale appartenente al
sodalizio mafioso assumerebbe le caratteristiche di un “associato di fatto” (singolarmente
la sentenza a pg. 39 ipotizza la “chiara” partecipazione associativa dell’imputato
verosimilmente solo come affiliato di fatto”). Ed ancor più oscuro si mostra il riferimento dei
giudici di secondo grado (per fronteggiare i rilievi dell’appello sull’unicità di rapporti
con il Messina Denaro) al “rapportarsi” dell’imputato non con il solo reggente Messina
Denaro, ma anche con altri sodali. Nondimeno un rapportarsi o collegarsi che rimane
affatto oscuro, la sentenza impugnata non indicandone modalità, tempi e referenti
personali. Non sottacendosi la speculare contraddizione messa in luce dal successivo
passaggio della motivazione, in cui la Corte distrettuale osserva, pur con commendevole /
,

9

pcb

10

acribia, di essersi posto il problema della eventuale configurazione di un mero concorso
ab externo (vuolsi ai sensi degli artt. 110, 416 bis c.p.) del contributo funzionale recato dal
prevenuto all’associazione mafiosa. Prospettiva risolta negativamente, o -meglio (la
sentenza non delineando altre più congrue ragioni)- lasciata cadere (per asserita
invariabilità della irroganda sanzione), e che comunque costituisce indice dell’avvertita
fragilità probatoria dei dati avvaloranti un vero e proprio organico inserimento del
Craparotta nel gruppo mafioso, così come descritti nella decisione di secondo grado.
A ben vedere la Corte territoriale radica la dimostrazione della condotta
associativa in due soli episodi o, meglio, serie di evenienze comportamentali correlabili e
desunte da captazioni foniche (soprattutto sull’autovettura dello stesso imputato). Si
tratta, da un lato, dell’episodio relativo all’accompagnamento in auto di Salvatore
Messina Denaro per l’incontro con il nipote di Giuseppe Grigoli allo scopo di far sondare
eventuali temibili intenti collaborativi del Grigoli. Dalla dinamica dell’episodio, come
descritto dalla prima sentenza, emerge che il Craparotta non solo non assiste all’incontro
(o, meglio, non ritiene di farvelo assistere lo stesso Messina Denaro), ma con tutta
probabilità non sa neppure chi sia la persona incontrata dal Messina Denaro. La qual
cosa non manca di suscitare perplessità sul livello di inserimento associativo e di
conoscenza dell’imputato nelle vicende di interesse del sodalizio mafioso. Da un altro
lato e contestualmente si pone l’accento sulla attenta opera di vigilanza sulla eventuale
dissimulata presenza di forze dell’ordine nell’area prossima al luogo dell’incontro tra
Messina Denaro e Antonino Grigoli svolta dal Craparotta, cui si assegna anche il
compito, per dir così, di “bonificatore” dalla presenza di sgradite “microscopie” sulle
vetture utilizzate per gli spostamenti del Messina Denaro.
E’ soprattutto su questi dati che la Corte di Appello, sulla scia della decisione del
g.u.p., valorizza anche sul piano soggettivo l’adesione mafiosa dell’imputato, cui si
imputa anche di “non poter non sapere” non solo che il Messina Denaro era il fratello del
famoso latitante di Cosa Nostra, ma anche che era stato arrestato e definitivamente
condannato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. (evenienze che, per la verità, appaiono
essere di dominio pubblico nella cittadina di Castelvetrano). A ciò dovendosi annettere
altresì la condizione di sottoposto alla misura preventiva dell’obbligo di soggiorno del
Messina Denaro a Campobello di Mazara, in guisa che soltanto con l’ausilio di una
persona di collaudata fiducia personale, quale il Craparotta, disposto a rischiare di essere
intercettato dalla polizia, egli avrebbe potuto effettuare gli spostamenti sul territorio (in
più casi osservati dalla stessa p.g.) funzionali al suo governo del mandamento mafioso.
Ora, anche a voler riconoscere che i contegni posti in essere a beneficio del
Messina Denaro (e -va ripetuto- solo di costui, ché gli stessi giudici di appello non
sembrano attribuire soverchio peso indiziario ad altre captazioni, richiamate dal g.u.p.,
in cui egli proclama la sua disponibilità per la “famiglia” mafiosa) suffraghino una
posizione di contiguità o vicinanza del Craparotta agli interessi del gruppo mafioso di
Castelvetrano e in particolare ai suoi membri di vertice (il coimputato e il noto fratello
latitante), la sentenza impugnata trascura di indicare con sufficiente puntualità i modi e
le concrete dinamiche attraverso le quali il ricorrente avrebbe davvero dato corpo alla
sua partecipazione associativa ex art. 416 bis c.p. e contribuito, in termini di efficienza
causale, alla stabilità e alla sopravvivenza dell’aggregato mafioso. Le troppo sintetiche
deduzioni sviluppate dalla Corte distrettuale, pur se lette unitamente alla più estesa
sentenza di primo grado, non possono far velo alla sommaria e lacunosa individuazione

Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi degli imputati Messina Denaro e
Arimondi segue per legge la loro condanna al pagamento delle spese processuali del
grado e al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, che si stima
equo determinare in misura di euro 1.000 (mille) ciascuno.
Gli stessi ricorrenti vanno inoltre condannati alla rifusione delle spese di
rappresentanza e difesa sostenute dalle costituite parti civili intervenute in giudizio.
Spese liquidate nella misura individuale pro capite indicata in dispositivo.
P. Q. M.
Annulla nei confronti di Craparotta Andrea la sentenza impugnata e rinvia per
nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo.
Dichiara inammissibili i ricorsi di Messina Denaro Salvatore e di Arimondi
Raffaele, che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille
ciascuno in favore della cassa delle ammende. Condanna inoltre il Messina Denaro e lo
Arimondi alla rifusione delle spese, che liquida nella complessiva somma di euro 2.800
oltre accessori per ciascuna delle parti civili.
Roma, 31 ottobre 2013

degli specifici fatti potenzialmente riconducibili alla operatività del sodalizio mafioso
posti in essere dal Craparotta nella sua veste di associato di fatto.
In altre parole l’attribuzione a taluno della qualità di appartenente a un gruppo di
stampo mafioso, per assumere il carattere di indizio grave, deve essere accompagnata da
concreti elementi di fatto idonei a storicizzare e a rendere concreta l’accusa (ex plurimis:
Sez. 1, 23.2.2013 n. 10734, P.M. in proc. Marrone, rv. 254885; Sez. 6, 9.7.2013 n. 38117,
Fusco, rv. 256334). Come noto, sul piano probatorio la partecipazione ad una
associazione mafiosa può essere desunta da indicatori fattuali dai quali, grazie ad
attendibili regole di esperienza immanenti nella fenomenologia criminale mafiosa, possa
logicamente inferirsi l’appartenenza del soggetto agente al sodalizio. Ciò purché si tratti
di indizi connotati da gravità e precisione e sostenuti anche da specifici fatti concludenti
idonei, senza alcun automatismo probatorio, a suffragare la costante permanenza del
vincolo associativo (cfr.: Sez. 1, 11.12.2007 n. 1470/08, P.G. in proc. Addante, rv. 238839;
Sez. 6, 5.5.2009 n. 24469, Bono, rv. 244382; Sez. 6, 25.10.2011 n. 40520, Falcone, rv. 251063).
A tali criteri ricostruttivi non si è compiutamente ispirata la sentenza di appello.
Conclusivamente, quindi, la sentenza nei confronti di Andrea Craparotta deve
essere annullata con rinvio degli atti ad altra sezione della stessa Corte di Appello perché
proceda a nuovo giudizio, nel quale colmerà le omissioni e lacune valutative palesate
dalla motivazione e dianzi indicate alla luce dei principi di diritto emergenti dalle
menzionate decisioni di legittimità.

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