Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 23911 del 13/05/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 23911 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Benetazzo Guerrino, nato a Saonara il 5.7.1946;
avverso la sentenza emessa il 9 maggio 2013 dalla corte d’appello di Venezia;
udita nella pubblica udienza del 13 maggio 2014 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Aldo Policastro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. Giorgio Bortolotto;
Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Venezia confermò la sentenza emessa il 6.2.2012 dal tribunale di Venezia, che aveva, con le attenuanti
generiche, condannato Benetazzo Guerrino alla pena di mesi quattro di arresto
ed € 1.800 di ammenda, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui agli artt.
256, comma 2, e 256, comma 1, lett. a), del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in relazione all’art. 183, lett. m), perché, nella sua qualità di rappresentante della “Benetazzo Spazioverde s.r.l.”, in carenza di qualsivoglia autorizzazione, deteneva
su area di proprietà della ditta un deposito incontrollato di rifiuti, in parte derivati dall’attività produttiva della “Benetazzo Spazioverde s.r.l.”, e in parte risalenti epocalmente all’attività della “Benetazzo Fausto & figli s.n.c.” , accumulati
nel corso di un arco temporale di circa cinque anni, sia pericolosi (batterie al
piombo, traversine ferroviarie, oli esausti, imballaggi contaminati da sostanze
pericolose, apparecchiature fuori uso contenenti CFC) che non pericolosi (rifiuti
misti da demolizione, rifiuti legnosi, rifiuti ferrosi, scarti vegetali, rifiuti da imballaggio).
In particolare la sentenza, nel riportare la motivazione della sentenza di

Data Udienza: 13/05/2014

primo grado, osserva che si è trattato della detenzione alla rinfusa di rifiuti pro. miscui, per una consistente durata temporale dei reiterati depositi con cumuli di
ampie dimensioni e preesistenti da lungo tempo, con assenza di documentazione
e conseguente impossibilità di controllo; che l’area dell’accumulo era stata di
fatto adibita a deposito mediante una condotta consistente nell’abbandono reiterato per un tempo decisamente apprezzabile; che di tale deposito doveva essere
ritenuto responsabile l’imputato, pur essendo certo che i rifiuti occupavano solo
in parte terreni di proprietà della sua ditta mentre in gran parte si trovavano su
aree contigue; che questa circostanza era irrilevante perché il giudice di primo
grado aveva ritenuto che non era stata fornita la prova oggettiva, concreta ed univoca della predetta allocazione, ma solo della sua possibilità e perché comunque si trattava di un’estensione assai vasta ma totalmente priva di recinzioni o
barriere interne idonee a delimitare le varie zone di pertinenza di terzi; che del
resto è sufficiente la sola disponibilità dell’area; che doveva ritenersi che
l’imputato avesse astutamente dislocato, in aree diverse da quelle di proprietà, i
rifiuti relativi all’attività da lui svolta, proprio per stornare da sé eventuali responsabilità; che l’olio per motore e le batterie rinvenuti non erano adatti
all’impiego; che anche il frigorifero risultava dismesso e la sua dismissione era
risalente nel tempo.
L’imputato, a mezzo dell’avv. Giorgio Bortolotto, propone ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione degli artt. 256, comma 2, e 256, comma 1, lett. a), del d. lgs.
3 aprile 2006, n. 152, in relazione all’art. 183, lett. m). Osserva che l’imputato è
stato rinviato a giudizio per la sola violazione dell’art. 256, comma 2, ossia per
un reato proprio, che punisce l’imprenditore che non smaltisce accuratamente i
rifiuti provenienti dalle produzioni della sua attività depositandola in maniera
incontrollata. Occorre quindi provare quanto meno che i rifiuti provengano
dall’impresa di cui l’imputato è il titolare o che gli stessi, seppur non provenienti
dall’attività dell’impresa si trovino in terreni di pertinenza della stessa. Nella
specie l’imputato ha dimostrato che solo parte dei terreni oggetto della perquisizione e sequestro erano di pertinenza della sua ditta. Inoltre, data la genericità di
tipologia dei rifiuti contestati, la loro provenienza dalla attività imprenditoriale
dell’imputato non era evidente e avrebbe dovuto essere dimostrata dall’accusa.
Eccepisce che lo stesso capo di imputazione dà atto che parte dei rifiuti erano
risalenti alla Benetazzo Fausto e Figli S.n.c., con cui l’imputato non ha nulla a
che fare. La sentenza impugnata confonde il concetto di pertinenzialità dei terreni con l’adiacenza e la mancanza di confini e ha omesso di accertare se i rifiuti ivi giacenti provenissero effettivamente dalla ditta dell’imputato.
2) vizio di motivazione in relazione all’art. 256, comma 2, d. lgs. 3 aprile
2006, n. 152. Ricorda che l’imputato aveva fornito la prova che parte dei pretesi
rifiuti si trovava in terreni non di pertinenza dell’impresa; che smaltiva regolarmente gli oli esausti a mezzo di impresa terza e i rifiuti non pericolosi; che parte
del materiale a cui era stata attribuita la qualifica di rifiuto era in verità materiale di uso corrente ed efficiente; che i residui di polvere erano dovuti al fatto che
trattavasi di azienda florovivaistica dedita alla lavorazione della terra; che non
era stato fatto alcun accertamento sullo stato di efficienza delle batterie o sulla

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esaustività degli oli rinvenuti. Illogicamente la sentenza impugnata ha ritenuto
che tale disamina dei singoli rifiuti fosse speciosa e un mero artifizio difensivo,
mentre era imposta dal fatto che era contestata la presenza di singoli rifiuti puntualmente elencati nel verbale di perquisizione e sequestro. E’ altresì manifestamente illogico l’ingiustificato rifiuto di individuare sotto il profilo territoriale
l’esatto ambito aziendale. E’ stato violato il dato comune di esperienza secondo
cui in aperta campagna le singole proprietà non sono mai recintate, il che non
comporta automaticamente una disponibilità da parte dei singoli confinanti dei
terreni adiacenti, disponibilità che va provata caso per caso. Osserva che la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione emerge dal fatto che
nello stesso capo di imputazione emerge che l’imputato sarebbe stato condannato per rifiuti “in parte derivanti dall’attività produttiva della Benetazzo Spazioverde S.r.l. e, in parte risalenti epocalmente all’attività della Benetazzo Fausto
& figli S.n.c., accumulati nel corso di un arco temporale di circa cinque anni”,
ossia emerge la non provenienza dall’impresa dei rifiuti e la loro collocazione in
terreni non di pertinenza dell’impresa stessa.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato per le ragioni che seguono. Va innanzitutto rilevato che
— come esattamente sottolinea il ricorrente – «Il reato di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti di cui all’art. 256, comma secondo, del D.Lgs. n. 152 del
2006 ha natura di reato proprio, richiedendo, quale elemento costitutivo, la
qualità di titolare di impresa o di responsabile di ente in capo all’autore della
violazione» (Sez. III, 17.1.2012, n. 5042, Golfrè Andreasi, m.252131); e che «Il
reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti è tale solo ove, rispetto
alla generale previsione di illecito amministrativo di abbandono di cui all’art.
50, comma primo, del D.Lgs. n. 22 del 1997, ora art. 255, comma primo, del
D.Lgs. n. 152 del 2006, ricorra l’elemento specializzante della commissione del
fatto da parte di titolari di imprese o di responsabili di enti» (Sez. III,
10.5.2007, n. 33766, Merlo, m. 238859).
Naturalmente, trattandosi di reato commissivo, il titolare dell’impresa è responsabile esclusivamente per i rifiuti abbandonati da lui o dai suoi dipendenti,
e non anche per i rifiuti abbandonati da terzi. L’unica (apparente) eccezione può
rinvenirsi nell’ipotesi in cui sia provato un concorso con il terzo che abbia abbandonato i rifiuti: in questo senso si è invero ritenuto che «In tema di gestione
dei rifiuti, la responsabilità del soggetto avente la disponibilità di un’area sulla
quali terzi abbiano abbandonato rifiuti è configurabile soltanto qualora venga
accertato il concorso, a qualsiasi titolo, del possessore del fondo con gli autori
del fatto, ovvero per una condotta di compartecipazione agevolatrice, non sussistendo in questo caso una posizione di garanzia in capo allo stesso» (Sez. III,
15.3.2005, n. 21966, Nugnes, m. 231645).
Nel caso in esame i giudici del merito si sono soffermati a discutere su
questioni in gran parte irrilevanti, ossia se i terreni ove erano allocati i rifiuti
fossero o meno di proprietà del ricorrente o si trovassero o meno nella sua disponibilità, mettendo invece in secondo piano la questione decisiva, consistente
nello stabilire si i rifiuti — sia se allocati su terreni di proprietà della ditta sia su
terreni esterni e diversi — fossero stati abbandonati dall’imputato o da suoi di-

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pendenti o da soggetti in concorso con il prevenuto ovvero fossero stati abbandonati da soggetti diversi senza il concorso del proprietario e questi si fosse solo limitato a non toglierli e a non far bonificare l’area di sua pertinenza. In
quest’ultimo caso, non essendo stato nemmeno contestata l’emanazione di una
ordinanza comunale diretta all’imputato di rimozione dei detti rifiuti e di bonifica, il comportamento non integrerebbe il reato contestato.
Deve invero ricordarsi che, nel nostro sistema penale, una condotta omissiva
può dar luogo a responsabilità solo nel caso in cui ricorrano gli estremi dell’art.
40, secondo comma, cod. pen., e cioè quando il soggetto abbia l’obbligo giuridico
di impedire l’evento (Sez. III, 1° luglio 2002, Ponzio, m. 222.420; Sez. F.,
13.8.2004, n. 44274, Preziosi, m. 230173). Obbligo il cui fondamento deve essere chiaramente e specificamente individuato dal giudice in una precisa norma di
legge, in quanto la responsabilità omissiva non potrebbe fondarsi su un dovere
indeterminato o generico, anche se di rango costituzionale come quelli solidaristici o sociali di cui all’art. 2, 41, comma 2, 42, comma 2 Cost., perché ciò trova
un limite in altri principi costituzionali e segnatamente nel principio di legalità
della pena consacrato nell’art. 25, comma 2, il quale si articola nella riserva di
legge statale e nella tassatività e determinatezza delle fattispecie (Sez. III,
12.10.2005, n. 2206/06, Bruni; cfr. anche Sez. III, 9.10.2007, n. 2477/08, Marcianò). E’ infatti principio pacifico, innumerevoli volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, anche sulla base degli artt. 23 e 25 Cost., che nessuno può
essere chiamato a rispondere per il semplice fatto che un suo possibile intervento
soccorritore avrebbe scongiurato la lesione di beni giuridici altrui, a meno che
non vi sia una specifico obbligo giuridico, imposto espressamente da una specifica disposizione legislativa, di impedire il verificarsi di quello specifico evento.
E’ sufficiente a questo proposito richiamare la già citata sentenza Sez. III,
12.10.2005, n. 2206/06, Bruni, la quale — in riferimento all’annullamento di una
condanna per abbandono di rifiuti in una cava fondata sulla tesi che l’imputato
sarebbe stato responsabile in forza dell’art. 40, comma 2, cod. pen. per non avere
recintato l’area di cava come impostogli peraltro dal provvedimento di concessione – affermò con particolare efficacia e lucida argomentazione che il principio
di tassatività delle fattispecie penali impone di considerare come presupposto di
applicabilità della norma in questione non tanto un obbligo generico di attivarsi
derivante da fonte giuridica (legale o contrattuale), quanto piuttosto un obbligo
giuridico specifico di compiere proprio quella azione che avrebbe impedito l’evento di reato. Il presupposto di operatività del principio di causalità omissiva è
la esistenza di un obbligo stabilito proprio per impedire eventi del genere di quello che si verifica nel reato considerato. Nella specie, invece, l’obbligo di recinzione della cava era stato assunto non per impedire a terzi di utilizzarla come discarica, bensì per fini di polizia amministrativa e per proteggere l’incolumità
pubblica, sicché, una volta cessata l’attività estrattiva, l’obbligo era venuto meno.
La realizzazione della discarica pertanto non poteva essere addebitata al proprietario a titolo di responsabilità omissiva, giacché sul proprietario in quanto tale
non grava alcuna posizione di garanzia in ordine ai rifiuti, atteso che gli obblighi
di corretta gestione e smaltimento dei rifiuti sono posti esclusivamente a carico
dei produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi. In particolare, nessun obbligo

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giuridico di controllo può ravvisarsi a carico del proprietario in relazione a rifiuti
gestiti e smaltiti da altri, tale non essendo, evidentemente, l’obbligo di ripristino
che ha carattere riparatorio e non preventivo. E difatti, la responsabilità omissiva
sancita nell’art. 40 cpv. trova fondamento nel principio solidaristico di cui all’art.
2, all’art. 41, comma 2, e all’art. 42, comma 2, Cost., ma contemporaneamente
essa trova un limite in altri principi costituzionali e segnatamente nel principio di
legalità della pena consacrato nell’art. 25, comma 2, il quale si articola nella riserva di legge statale e nella tassatività e determinatezza delle fattispecie incriminatrici. È proprio in ragione di questo limite che la responsabilità omissiva non
può fondarsi su un dovere indeterminato o generico, anche se di rango costituzionale come quelli solidaristici o sociali di cui alle norme citate; ma presuppone
necessariamente l’esistenza di obblighi giuridici specifici, posti a tutela del bene
penalmente protetto, della cui osservanza il destinatario possa essere ragionevolmente chiamato a rispondere. In particolare, la funzione sociale della proprietà di cui all’art. 42, comma 2, Cost., può costituire il proprietario in una posizione
di garanzia a tutela di beni socialmente rilevanti, e quindi può fondare una sua
responsabilità omissiva per i fatti di reato lesivi di quei beni, solo se essa si articola in obblighi giuridici positivi e determinati, diretti a impedire l’evento costitutivo del reato medesimo. Questa interpretazione è stata poi ribadita e confermata da altre decisioni analoghe (ex plurimis, Sez. III, 9.10.2007, n. 2477/08, Marcianò; Sez. F., 13.8.2004, n. 44274, Preziosi; Sez. III, 12.11.2013, Merlet).
La sentenza appena ricordata è stata massimata nel senso che «il proprietario di un terreno abbandonato nel quale terzi depositino ripetutamente rifiuti,
così come colui che subentra nella proprietà di un terreno adibito a discarica,
non risponde dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata,
anche in caso di mancata attivazione per la rimozione dei rifiuti, a condizione
che non compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti, atteso che tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell’evento lesivo» (Sez. III, 12 ottobre 2005, n.
2206, Bruni, m. 233007), dal momento che «nessun obbligo giuridico di controllo può ravvisarsi a carico del proprietario in relazione a rifiuti gestiti e
smaltiti da altri»; che il proprietario stesso non ha un obbligo giuridico di recintare il terreno, né di scongiurare la «desertificazione» del terreno stesso, e che
«sul proprietario in quanto tale non grava alcuna posizione di garanzia in ordine ai rifiuti, atteso che gli obblighi di corretta gestione e smaltimento dei rifiuti sono posti esclusivamente a carico dei produttori e dei detentori dei rifiuti
medesimi» (sent. cit., punto 7 della motivazione). Nello stesso senso questa Corte ha affermato che «I reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata e stoccaggio di rifiuti tossici non possono consistere nel mero mantenimento della discarica o dello stoccaggio realizzati da terzi estranei nel fondo di
proprietà, salvo che risulti integrata una condotta concorsuale mediante condotta omissiva, nei casi in cui il soggetto aveva l’obbligo giuridico di impedire
la realizzazione od il mantenimento dell’evento lesivo» (Sez. F., 13 agosto 2004,
n. 44274, Preziosi, m. 230173); che la consapevolezza da parte del proprietario
del fondo dell’abbandono sul medesimo di rifiuti da parte di terzi non è sufficiente ad integrare il concorso nel reato di cui all’art. 51, comma secondo, del

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decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22, atteso che la condotta omissiva può
. dare luogo a ipotesi di responsabilità solo nel caso in cui ricorrano gli estremi
del comma secondo dell’art. 40 cod. pen., ovvero sussista l’obbligo giuridico di
impedire l’evento (Sez. III, 1 luglio 2002, Ponzio, m. 222.240); che destinatario
della norma penale è il gestore dell’impianto di raccolta e non il proprietario del
terreno sul quale si attua lo smaltimento di rifiuti speciali non autorizzato, il
quale può concorrere come estraneo nel reato proprio commesso dal gestore solo quando il concorso esterno materiale (cogestione di fatto) o morale (istigazione, rafforzamento, agevolazione) si realizzi con condotta commissiva, ovvero
con condotta omissiva – in linea teorica – ma sempre che il “non agere” si innesti
in uno specifico obbligo giuridico di impedire l’evento (Sez. I„ 17 novembre
1995, Insinna, m. 203.332; v. anche Sez. III, 18 dicembre 1991, Sacchetto, m.
189.149). In sostanza, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, i reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata e stoccaggio di rifiuti
senza autorizzazione hanno natura di reati che possono realizzarsi soltanto in
forma “commissiva” (cfr. Sez. Un., sent. n. 12753 del 1994, Zaccarelli; Sez. 1,
sent. n. 7241 del 1999, Pirani). Ne consegue che essi non possono consistere nel
mero mantenimento della discarica o dello stoccaggio da altri realizzati, pur in
assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla sola consapevolezza della loro esistenza. Non è sufficiente, pertanto, ad integrare il reato di cui alla contestazione la mera consapevolezza da parte del possessore di un fondo del fenomeno di abbandono sul medesimo di rifiuti da parte di terzi senza che risulti
accertato il concorso, a qualsiasi titolo, del predetto possessore del fondo con gli
autori del fatto. Sulla base di questi principi si è altresì affermato che non dà
luogo alla configurabilità dei reati in questione la condotta di chi, «avendo la
disponibilità di un’area sulla quale altri abbiano abbandonato rifiuti, si limiti a
non attivarsi perché questi ultimi vengano rimossi» (Sez. III, 3.10.1997, n.
8944, Gangemi, m. 208624); e che «la compravendita di un terreno sul quale
erano già stati raccolti dal venditore rifiuti nocivi non può integrare, a carico
del compratore, il reato in questione, neanche sotto il profilo che, trattandosi di
reato permanente, esso debba essere addebitato a colui che, pur non essendo
concorso nell’attività di accumulazione di rifiuti, abbia acquistato la proprietà
del terreno ove gli stessi si trovino» (Sez. I, 4.3.1999, n. 7241, Pirani, m.
213699).
Nella specie sembra che la sentenza impugnata abbia invece ritenuto che il
ricorrente, in quanto legale rappresentante della società subentrata nella proprietà del terreno, avesse un obbligo giuridico di eliminare i rifiuti ivi depositati
prima dell’acquisto o comunque depositati senza il suo concorso. Sulla esistenza
di tale obbligo manca qualsiasi motivazione. Un obbligo giuridico di eliminare i
rifiuti in capo al proprietario del terreno che non abbia concorso con gli autori
materiali dell’abbandono, infatti, può sorgere solo a seguito di una ordinanza
comunale che gli ordini la rimozione dei rifiuti stessi e lo sgombero dell’area
nei limiti e con le modalità previste dalla legge.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha ritenuto l’imputato responsabile anche per l’abbandono e il deposito di rifiuti che sicuramente non erano stati da lui abbandonati, trattandosi di rifiuti che, secondo 1o stesso capo di imputa-

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zione, erano «risalenti epocalmente all’attività della “Benetazzo Fausto & figli
• snc”», senza la benché minima motivazione sia su una eventuale responsabilità
dell’imputato per l’attività posta in essere da tale società sia di un eventuale
concorso dell’attuale ricorrente col responsabile di questa società
nell’abbandono di tali rifiuti.
La motivazione della sentenza impugnata è altresì mancante e comunque
manifestamente illogica in ordine alla circostanza che i rifiuti rinvenuti allocati
su terreni non di proprietà e non riconducibili alla società dell’imputato siano
stati abbandonati da lui o dai suoi dipendenti o da terzi con il concorso
dell’imputato. La sentenza impugnata ha affermato la responsabilità
dell’imputato avendo ritenuto che la sua società avesse comunque la disponibilità di fatto di tali aree. Sennonché, ciò che rileva non è tanto la disponibilità
dell’area, ma una concreta attività di abbandono dei rifiuti (o di concorso nella
stessa) e su questo punto manca totalmente la motivazione. Inoltre la motivazione è manifestamente illogica anche relativamente alla disponibilità dei terreni
che è stata desunta dal fatto che i terreni non erano recintati, circostanza questa
però che non solo non sembra idonea di per sé a dimostrare la disponibilità ma
che semmai potrebbe essere indicativa del fatto che anche soggetti terzi avrebbero potuto facilmente abbandonare i rifiuti. Totalmente apodittica ed assertiva
appare poi l’affermazione (senza una valutazione della tipologia dei singoli rifiuti) che l’imputato avrebbe astutamente collocato rifiuti provenienti dalla sua
impresa su aree diverse per sviare eventuali responsabilità.
La realtà è che esattamente il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata
si è erroneamente rifiutata, ritenendola superflua, di effettuare una disamina
analitica dei singoli rifiuti contestati in relazione ai luoghi di loro collocazione,
pur essendo stata contestata la presenza di singoli rifiuti puntualmente elencati
nel verbale di perquisizione e sequestro. In mancanza di eventuali altri elementi
di prova, una tale analisi avrebbe potuto fare accertare la provenienza dei rifiuti
dalla attività dell’impresa dell’imputato e di conseguenza il loro abbandono da
parte dello stesso.
Una tale verifica era necessaria anche perché nella sentenza impugnata si
dà atto non solo che parte dei rifiuti erano derivati sicuramente dalla attività
produttiva di altro soggetto, precisamente la Benetazzo Fausto & figli snc, ma
anche che vi erano cumuli preesistenti da lungo tempo, che le aree erano da anni
adibite a deposito incontrollato, che vi era stata una notevole crescita di vegetazione su alcuni cumuli di rifiuti; che vi era uno stato di usura prolungata di bidoni e fusti; che la dismissione del frigorifero appariva risalente nel tempo.
In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per
nuovo esame ad altra sezione della corte d’appello di Venezia in ordine ai rifiuti
riconducibili alla «Benetazzo Fausto & figli snc» ed ai rifiuti collocati su terreni
non nella disponibilità della «Benetazzo Spazioverde srl», mentre nel resto il ricorso va rigettato. Il giudice del rinvio dovrà appunto accertare, in relazione ai
diversi rifiuti sequestrati e contestati, se vi sia la prova che essi siano stati abbandonati dall’imputato o da altri con il suo concorso e non già da terzi senza il
concorso dell’imputato.
Non sono state oggetto di impugnazione le statuizioni civili relative alla

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condanna al risarcimento del danno morale in favore di associazioni ambientalistiche e della Provincia.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
annulla la sentenza impugnata limitatamente ai rifiuti riconducibili alla
«Benetazzo Fausto & figli snc» ed ai rifiuti collocati su terreni non nella disponibilità della «Benetazzo Spazioverde srl», con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Venezia.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 13
maggio 2014.

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