Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 23576 del 20/01/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 23576 Anno 2014
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sui ricorsi proposti nell’interesse di

Abbate Rodolfo, nato a Massa Fiscaglia il 29/10/1953

Federici Carlo, nato a Milano l’11/05/1954

Caruso Salvatore, nato a Catania il 19/03/1957

avverso la sentenza emessa il 25/05/2012 dalla Corte di appello di Milano

visti gli atti, la sentenza impugnata ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa
Elisabetta Cesqui, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità dei
ricorsi, in subordine la declaratoria di prescrizione dei reati in rubrica, con
conferma delle statuizioni civili;
uditi:
per la parte civile Consob, l’Avv. Emanuela Di Lazzaro

per le parti civili Cavallaro Alfio, Cavallaro Maria Antonella, Ciraolo Guido,
Caruso Giuseppe Lazzaro, Beltrame Cristiana, l’Avv. Stefano Borella
per la parte civile Piazza Affari SIM, l’Avv. Gregorio Equizi

Data Udienza: 20/01/2014


i quali hanno concluso per la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi presentati
nell’interesse degli imputati, in subordine per il rigetto degli stessi (con conferma
delle statuizioni civili in caso di ritenuta prescrizione degli addebiti);
uditi altresì:
per l’Abbate, l’Avv. Dario Bolognesi
per il Caruso, l’Avv. Arduino La Porta
i quali hanno concluso per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi, e l’annullamento
della sentenza impugnata

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Milano, con la pronuncia indicata in epigrafe,
confermava la sentenza di condanna emessa il 22/03/2011 dal Tribunale della
stessa città nei confronti di Rodolfo Abbate, Carlo Federici e Salvatore Caruso,
cui erano stati addebitati:
– all’Abbate, quale amministratore di diritto e di fatto, in relazione a periodi
differenti, di Piazza Affari SIM s.p.a., i reati di cui agli artt. 166 e 168 d.lgs. n. 58
del 1998, nonché l’ulteriore delitto ex art. 2638 cod. civ. (la contravvenzione
sanzionata dal ricordato art. 168 era comunque stata dichiarata prescritta già
all’esito del giudizio di primo grado);

al Federici, quale promotore finanziario presso la stessa società di

intermediazione mobiliare, ed al Caruso, nella veste (come indicata in rubrica) di
“cliente di Piazza Affari SIM e collettore di fondi nell’area di Catania”, il concorso
nel suddetto reato di abusivismo, ai sensi dell’art. 166 TUF.
I fatti, secondo la ricostruzione segnalata nella sentenza della Corte
territoriale, riguardavano operazioni di borsa compiute dal Caruso, che «pur
qualificato formalmente quale cliente, avrebbe di fatto svolto anche la funzione
di collettore di fondi nell’area di Catania, senza esserne abilitato, raccogliendo
denaro da alcuni soggetti a lui vicini ed investendo le somme sul mercato del
comparto azionario BIT e sul comparto dei “derivati”, utilizzando le strutture di
Piazza Affari SIM messegli a disposizione da Abbate e Federici: su tali operazioni,
svolte abusivamente dal Caruso, sia la SIM che Federici avevano lucrato ingenti
provvigioni». In particolare, il Caruso risultava avere operato su opzioni, intese
come contratti finanziari costitutivi per il compratore del diritto di acquistare
(opzioni di tipo cali) o vendere (opzioni di tipo put) per prezzi determinati, a date
od entro date stabilite, attività finanziarie o reali sull’indice MIB30: operazioni
idonee a realizzare l’immediato controvalore del prezzo dell’opzione stessa ma
soggette a perdite correlate all’andamento degli indici. Dette perdite,

2

,
,.

effettivamente prodottesi nel caso di specie, erano tuttavia suscettibili di essere
«occultate o posticipate, con prosecuzione della strategia di contrattazione»,
come – secondo l’ipotesi accusatoria – accaduto nella fattispecie in esame.
La Corte milanese, ritenuta infondata un’eccezione di incompetenza
territoriale sollevata dalla difesa del Caruso, rilevava in sintesi che:
– i motivi di appello presentati nell’interesse dell’Abbate quanto al reato già
dichiarato prescritto non potevano valere a dimostrare l’evidente estraneità
v..

dell’imputato all’addebito de quo;

r, mobiliare fino all’aprile 2005, quindi era tornato ad esserne amministratore di
fatto (come concordemente dichiarato da più testimoni) dal successivo mese di
ottobre, a seguito della stipula di un contratto di collaborazione esterna;
– lo stesso era stato direttamente informato dell’operatività fuori margine del
gruppo Caruso, di cui aveva comunque consentito la prosecuzione attraverso la
rimozione permanente dei filtri;
– nell’autunno 2005, era stata realizzata un’operazione idonea a consentire alla
SIM di rientrare delle perdite, attuata mediante una non consentita confusione di
patrimoni e senza alcuna comunicazione alle autorità preposte a funzioni di
vigilanza;
– il Federici doveva ritenersi perfettamente consapevole della mancanza di
abilitazione in capo al Caruso, al quale nondimeno era stato consentito di
operare come “gestore di fatto, al pari della SIM”: così facendo, egli aveva
mirato a conseguire il lucro derivante dalle provvigioni calcolate sul numero delle
operazioni de quibus, senza curare le dovute informazioni agli investitori ed anzi
(come risultante dalle deposizioni di costoro, ritenuti attendibili) magnificando ai
loro occhi le capacità del Caruso, sino a tranquillizzarli sulle garanzie di tenuta
del capitale.
Onde evitare inutili ripetizioni, di ulteriori e più diffuse argomentazioni
sviluppate nella sentenza oggetto di gravame verrà data contezza
nell’illustrazione dei correlati motivi di ricorso.

2. Propone ricorso per cassazione il difensore dell’Abbate, deducendo sei
motivi.
2.1 Con il primo motivo, la difesa dell’Abbate lamenta inosservanza ed
erronea applicazione dell’art. 168 del d.lgs. n. 58 del 1998, in ordine alla
confermata declaratoria di prescrizione del reato di confusione di patrimoni, già
pronunciata dal giudice di primo grado. Secondo la Corte territoriale,
nell’interesse dell’imputato erano stati sviluppati motivi di appello volti, al più, a
determinare il giudice del gravame ad una diversa valutazione delle prove

– l’Abbate era stato amministratore delegato della società di intermediazione

testimoniali acquisite, ma proprio una rivalutazione del materiale istruttorio
avrebbe consentito, ad avviso dell’odierno ricorrente, di pervenire ad una
obiettiva verifica della estraneità dell’Abbate ai fatti a lui contestati.
In particolare, il difensore del prevenuto rileva che l’elemento fondamentale
tenuto presente dai giudici di merito per ribadire la ravvisabilità del reato de quo,
vale a dire la circostanza che l’Abbate «aveva certamente autorizzato la
rimozione dei filtri in maniera permanente per i clienti del gruppo Caruso a
partire dal 19-20 aprile 2005, disposizione che solo egli [l’imputato] – per la sua

insufficiente in chiave accusatoria, atteso che per aversi confusione di patrimoni
la norma incriminatrice richiede un dolo specifico di profitto e – ancora sul piano
dell’elemento materiale – un danno agli investitori, nella fattispecie certamente
non verificatosi a seguito della ricordata autorizzazione a rimuovere i filtri.
2.2 Con il secondo e terzo motivo, sempre in relazione al reato di cui al
citato art. 168, la difesa deduce mancanza, contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione della sentenza impugnata in punto di sussistenza del
fatto e del correlato elemento psicologico.
L’analisi della Corte di appello si sarebbe infatti limitata a dare per scontato
che l’Abbate fosse il “destinatario di ogni informazione” e che tutto passasse “al
suo vaglio”, senza però che risulti in alcun modo individuata una effettiva
condotta di partecipazione dell’imputato, «almeno per sostanziare in qualche
modo il presunto ruolo di amministratore di fatto che Abbate avrebbe svolto, una
volta chiamato da Piazza Affari SIM come collaboratore esterno». Né i giudici di
appello avrebbero potuto limitarsi, come invece accaduto, a segnalare che in
ragione di una pretesa situazione di difficoltà di Piazza Affari SIM, impegnata nel
tentativo di rimanere sul mercato, non sarebbe stato possibile precisare condotte
determinate, giacché proprio il momento emergenziale avrebbe dovuto al
contrario portare l’Abbate – o chiunque si fosse interessato alla gestione della
società – ad assumere comportamenti positivi.
Inoltre, ricordato che la fattispecie criminosa in esame richiede il dolo
specifico del perseguimento di un ingiusto profitto, la difesa segnala che la
condotta tipica non può che essere animata da scopi speculativi eccedenti un
semplice fine di lucro: «accontentarsi di tale prova, infatti, vorrebbe dire in
realtà limitarsi ad accertare la sola condotta – che intrinsecamente è mossa da
un fine di profitto e produttiva di un guadagno – e dunque ad ignorare la
struttura normativa della fattispecie criminosa». Errore che tuttavia la Corte di
appello avrebbe commesso, laddove – trattando della posizione del coimputato
Federici – risulta avere affermato che «quanto ai guadagni e ai correlativi
interessi alle provvigioni, è altrettanto evidente che essi erano la molla che

carica poteva impartire ai sottoposti», avrebbe dovuto ritenersi ancora

spingeva sia Abbate e la SIM sia Federici a ignorare la situazione di evidente
irregolarità: la operatività sconsiderata del Caruso proseguirà oltre ogni limite
proprio in relazione ai risultati che ella dava (o sembrava dare) [ …]. Si erano
sopportate sempre le anomale modalità di operatività del Caruso proprio perché
esse rendevano cospicue provvigioni e margini di utilità, salvo accorgersi troppo
tardi che tali modalità operative avevano creato degli sbilanci insostenibili nei
conti di garanzia della SIM».
In sostanza, il collegio milanese si sarebbe limitato a prendere atto della

ex se

inevitabilmente connotata da un carattere speculativo, senza

approfondire in alcun modo la prospettiva della professionalità dell’agire degli
imputati, consistendo la prova del dolo specifico di ingiusto profitto nel rilievo
che l’agente abbia tratto da quella condotta i mezzi per provvedere al proprio
mantenimento. Il carattere della professionalità dovrebbe del resto intendersi
comune alla generalità delle condotte individuate dalle fattispecie criminose di
cui al TUF, a dispetto di quanto sostenuto dai giudici milanesi secondo cui «non
rileva il fatto che l’attività debba essere svolta in modo continuativo, abituale e
professionale».
2.3 Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta ancora profili di mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza oggetto
di ricorso, in ordine all’ulteriore contestazione di cui all’art. 166 dello stesso
d.lgs.
La Corte di appello, secondo la difesa dell’Abbate, avrebbe dato per scontata
l’irregolarità della condotta del Caruso nel settore dei servizi di investimento e di
raccolta del risparmio, senza in alcun modo considerare i motivi di gravame
presentati nell’interesse dell’imputato, volti ad evidenziare «come Caruso, da un
lato, avesse operato in qualità di cointestatario di nove conti e delegato di
ulteriori due conti, e dall’altro, si fosse limitato a richiedere telefonicamente
l’effettuazione di operazioni di investimento su tali conti: ciò a fronte di una
disciplina che pacificamente esclude dall’area del penalmente rilevante la
negoziazione di strumenti finanziari per conto proprio e comunque di una
consolidata prassi – seguita dalle società di investimento – di esecuzione degli
ordini ricevuti telefonicamente dai clienti».
Né sarebbe stata data risposta all’obiezione difensiva secondo cui l’attività
svolta dal Caruso non aveva comunque carattere professionale, non costituendo
reato l’esercizio di servizi di investimento verso cerchie assai ristrette di soggetti,
e mancando altresì la prova certa di una condotta concorsuale ascrivibile
all’Abbate.

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condotta,

2.4 n quinto motivo, in ordine al reato di cui all’art. 2638 cod. civ., si
riferisce parimenti a presunti vizi della motivazione per carenza, contraddittorietà
e manifesta illogicità.
La Corte territoriale avrebbe fondato la conferma delle determinazioni
adottate dai giudici di prime cure sulla base degli stessi argomenti esposti in
ordine al reato di confusione di patrimoni, senza considerare che – pure
ammettendo la consapevolezza in capo all’Abbate di una serie di operazioni
poste in essere dal Caruso fuori dai margini c.d. intraday a lui assegnati (a

sarebbe comunque trovato gravato da un obbligo di comunicazione alle autorità
di vigilanza. Obbligo che invece non derivava dalla presunta confusione di
patrimoni, «dal momento che l’operatività fuori margine “intraday” costituisce
prassi ammessa», né dal paventato abusivismo, in quanto «la conoscenza della
gestione fuori margine di taluni conti non implica quella della gestione abusiva
dei conti stessi, e ciò vale, a maggior ragione, se si considera quanto sopra
osservato a proposito della qualità di cointestatario del conto rivestita da Caruso
e della prassi in tema di ordini telefonici seguita dalle società di investimento».
In ogni caso, anche con riguardo al reato in esame i giudici di merito non
sarebbero stati in grado di isolare comportamenti specifici od almeno attività
sintomatiche da cui inferire lo svolgimento da parte dell’Abbate dei compiti propri
di un amministratore di fatto.
2.5 Con il sesto motivo, la difesa dell’imputato lamenta inosservanza ed
erronea applicazione della legge penale con riguardo alla disposta subordinazione
del beneficio della sospensione condizionale della pena al pagamento (entro 60
giorni dalla scadenza del termine di deposito della sentenza di primo grado) della
somma fissata dal Tribunale a titolo di provvisionale.
Nell’interesse del ricorrente si ribadisce la tesi secondo cui – come si evince
da plurime indicazioni della giurisprudenza di legittimità – «la sospensione
condizionale della pena in realtà non può essere subordinata al pagamento della
provvisionale verso la parte civile entro un determinato termine, perché la
clausola della sospensione condizionale, unitamente alle altre statuizioni penali,
diviene esecutiva all’atto del passaggio in giudicato della sentenza e non può
pertanto essere subordinata ad un termine», realizzandosi altrimenti l’effetto di
rendere irreversibile una statuizione penale, afferente l’attuazione della sanzione
inflitta, anteriormente all’irrevocabilità della pronuncia.

3. Il difensore del Federici propone a sua volta ricorso, che affida a sei
motivi.

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seguito della presunta rimozione permanente dei filtri) – l’imputato non si

3.1 Con il primo motivo, nell’interesse dell’imputato si deduce la violazione
dell’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., per inosservanza dei criteri legali di
valutazione della prova, avendo la Corte territoriale omesso di fornire una
giustificazione razionale dei criteri seguiti per pervenire alla pretesa
ricostruzione, in chiave accusatoria, dei fatti addebitati al ricorrente, neppure
tenendo conto dei numerosi profili di gravame esposti nei riguardi della sentenza
di primo grado.
Secondo il difensore del Federici la sentenza oggetto di ricorso avrebbe

la divergenza tra i risultati probatori posti a base della decisione e quelli
emergenti dagli atti processuali, tale da creare una situazione connotata dalla
circostanza che il giudice di merito ha affermato l’esistenza di fatti palesemente
esclusi dalle risultanze processuali ovvero ha escluso fatti manifestamente
provati. In particolare, la sentenza qui impugnata è incorsa in tre diversi tipi di
travisamento, secondo la causa che a tale vizio ha dato origine: travisamento
conseguente all’omessa valutazione di una prova acquisita (le numerose
dichiarazioni testimoniali diverse dalle parti civili ed i documenti prodotti),
travisamento derivante dalla supposizione di una prova inesistente (conoscenza
da parte del Federici che la cointestazione dei conti fosse fittizia) e travisamento
causato dallo scorretto apprezzamento di una o più prove».
Elementi, quelli appena evidenziati, che a tacer d’altro dimostrerebbero
come nella fattispecie concreta la condanna del Federici sarebbe stata
pronunciata senza rispettare la regola dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”
introdotta nell’ordinamento dal 2006: sul punto, e sul significato del canone
appena ricordato nella valutazione dei dati istruttori – soprattutto se di natura
indiziaria – da parte del giudice di merito, il ricorso si sofferma lungamente,
segnalando fra l’altro come la previsione normativa debba ritenersi una peculiare
e decisiva innovazione voluta dal legislatore, piuttosto che la mera
formalizzazione di un principio già vigente.
In concreto, ai fini della prova del reato di abusivismo ex art. 166, comma 1,
lettera a) del d.lgs. n. 58/1998, sarebbe stato necessario dimostrare che il
Caruso avesse svolto servizi di investimento per conto di terzi, non essendovi
abilitato, e che di ciò il Federici fosse consapevole (oltre ad avere il potere di fare
operare abusivamente il presunto correo), ma nulla del genere risulta acquisito
agli atti del processo: al contrario, «la cointestazione dei conti, come avvenuto
nel caso in esame, esclude in sé l’abusivismo o comunque la possibilità che
dall’esterno lo stesso potesse emergere od essere rilevabile».
ricorrente

Inoltre, il

– nella veste di promotore finanziario abilitato, con mandato

conferitogli dalla Piazza Affari SIM s.p.a., e dovendo un promotore finanziario

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«travisato ed in gran parte ignorato le risultanze processuali, essendo evidente

essere obbligatoriamente affiancato ad ogni cliente della società – non aveva
avuto alcun ruolo nel momento in cui il Caruso era entrato in contatto con la
società suddetta, divenendone cliente (unitamente a suoi familiari ed amici)
senza aver neppure conosciuto il Federici.
Il Caruso, pertanto, ben avrebbe potuto operare anche senza l’ausilio o
l’autorizzazione del Federici, perché si trattava di persona già esperta del
settore, non bisognevole di informazioni, ed era, come già ricordato,
cointestatario dei conti di riferimento; ergo, per il Caruso – come pure per Alfio

od altri, giacché «il promotore finanziario per loro era soltanto un appoggio
necessario ed obbligatorio, ma nessun rapporto avevano con lui, neppure di
natura economica (le provvigioni erano a carico della SIM), tanto che operavano
direttamente con la sala operativa, senza mai passare dallo stesso». Né avrebbe
dovuto assumere significato, in chiave accusatoria, l’incontro avuto dall’imputato
con i coniugi Antonella Cavallaro e Giuseppe Lazzaro Caruso, costituente l’unico
contatto diretto tra il Federici e gli investitori, atteso che nell’occasione i suddetti
clienti si erano presentati in base ad accordi già raggiunti con il coimputato, per
la sottoscrizione di contratti di contenuto a loro perfettamente noto e sulla base
di una cointestazione dei conti che sia il Federici, sia i vertici della SIM
ignoravano dovesse intendersi fittizia. Le parti civili avevano del resto escluso
espressamente che l’imputato fosse a conoscenza della scrittura sottesa ai loro
accordi con il Caruso, ed erano perfino giunte a confermare falsamente alla SIM,
dietro formale richiesta, che la cointestazione dei conti fosse effettiva: secondo il
ricorrente, in definitiva, «le uniche persone che hanno concorso
consapevolmente nel reato di “abusivismo” altre non sono che le stesse parti
civili», come dimostrerebbe la loro necessità di ricorrere ad «una scrittura
privata parallela e tenuta segreta».
Su un piano generale, inoltre, le dichiarazioni delle presunte persone offese
avrebbero meritato un vaglio assai più rigoroso, in quanto si trattava di persone
che miravano a recuperare denaro perduto sulla base di investimenti che
inizialmente avevano loro consentito notevoli guadagni, senza che nessuno (od
almeno il Federici) li avesse mai raggirati prospettando garanzie di tenuta del
capitale. L’imputato, dunque, non poteva impedire la stipula di contratti
assolutamente regolari, né dissuadere persone – consapevoli dei rischi cui
andavano incontro – dal compimento di quelle operazioni; il Federici non aveva
neppure poteri di verifica sulle decisioni della società mandante o sullo sviluppo
delle operazioni di investimento, se non nei limiti del suo stesso interesse ad
evitare che un cliente operi in perdita (onde poter mantenere il proprio diritto
alle provvigioni pattuite).

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Cavallaro – era del tutto indifferente avere come promotore finanziario il Federici

Che poi il Federici non avesse alcuna possibilità di porre limiti alla operatività
del Caruso sarebbe dimostrato per tabulas dalla circostanza che la Consob risulta
avere irrogato sanzioni nei confronti dei vari protagonisti della vicenda, escluso
appunto il ricorrente, nei confronti del quale non si è neppure costituita parte
civile.
Per le ragioni esposte, il difensore dell’imputato segnala che la motivazione
della sentenza impugnata deve intendersi fondata su una mera congettura
..à

(quella che il Federici fosse al corrente della non rispondenza al vero della

opposta risulta sicuramente supportata da un maggior grado di plausibilità.
3.2 Con il secondo motivo, la difesa del ricorrente deduce mancanza di
motivazione in ordine alla determinazione della pena, essendosi la Corte
territoriale limitata a segnalare che le sanzioni inflitte dal giudice di primo grado
ai vari imputati apparivano «adeguatamente dimensionate e proporzionate alle
rispettive entità della responsabilità». Si tratterebbe perciò di motivazione di
stile, da ritenere apparente: peraltro, la pena irrogata risulta da un computo che
non muove affatto dai minimi edittali, senza che i giudici di merito abbiano
esposto le ragioni a sostegno di una simile scelta, in base ai criteri imposti
dall’art. 133 cod. pen. e tenendo doverosamente conto dei diversi ruoli assunti
nella vicenda dai soggetti cui si addebitano i fatti in rubrica.
3.3 Viene prospettata quindi mancanza di motivazione della sentenza
impugnata anche a proposito della ritenuta sussistenza delle aggravanti
contestate, segnatamente per non essere state esaminate le specifiche doglianze
di cui ai motivi di appello. In particolare, secondo il ricorrente, «circa la
sussistenza del danno patrimoniale di rilevante entità, l’aggravante contestata
era in contrasto con la motivazione della sentenza di primo grado, che aveva
affermato (pag. 41) che non era possibile pervenire ad una quantificazione
esatta del danno stesso. Circa la sussistenza dell’abuso di prestazione d’opera,
l’aggravante contestata era in contrasto con il fatto che nessun rapporto vi è mai
stato tra le parti civili ed il Federici».
3.4 Un ulteriore profilo di carenza motivazionale riguarda poi l’intervenuta
condanna generica dell’imputato al risarcimento dei danni. In sede di motivi di
appello, la difesa aveva rappresentato l’evidente concorso delle parti civili nella
determinazione degli eventi da cui erano derivati i presunti pregiudizi economici,
nonché il difetto di prove concrete sull’entità dei danni lamentati, ma la Corte
territoriale non avrebbe dedicato alcuno spazio a quelle censure.
Il ricorrente ribadisce di non dovere alcun risarcimento a Piazza Affari SIM in
liquidazione coatta amministrativa, visto che gli amministratori della società
consentirono le operazioni produttive del dissesto, pur avendo il potere di

cointestazione dei conti su cui operava il Caruso), a fronte della quale l’ipotesi

impedirle (a differenza del Federici); né potrebbe riconoscersi una sua
responsabilità civile nei confronti di coloro che permisero al Caruso – attraverso
la scrittura privata più volte ricordata ed i comportamenti successivi – di operare
in modo abusivo.
3.5 Con il quinto motivo, la difesa dell’imputato lamenta mancanza di
motivazione e violazione di legge in punto di concessione della provvisionale,
questione parimenti oggetto di motivi di appello che sarebbero rimasti non
esaminati dalla Corte territoriale, fondati in particolare sul rilievo che le parti

avevano adempiuto all’onere di presentare conclusioni scritte, recanti la
determinazione dell’ammontare dei danni richiesti.
3.6 n sesto motivo di ricorso riguarda infine i vizi di carenza di motivazione
della sentenza impugnata, nonché di erronea applicazione della legge penale,
relativamente alla subordinazione del beneficio della sospensione condizionale
della pena al pagamento della provvisionale anzidetta nel termine di 60 giorni dal
deposito della sentenza di primo grado. Il motivo di gravame, sia pure con
l’illustrazione di profili ulteriori di doglianza per l’omessa considerazione delle
condizioni economiche degli imputati, appare speculare a quanto già evidenziato
sul punto dalla difesa dell’Abbate: nel ricorso si afferma che «l’ultimo comma
dell’art. 165 cod. pen. va inteso nel senso che il termine ivi previsto per
l’adempimento dell’obbligo imposto dal giudice ha sempre quale dies a quo la
data del passaggio in giudicato della condanna, anche in considerazione del fatto
che la sospensione dell’esecuzione della pena presuppone necessariamente che
tale pena sia divenuta definitiva».

4. Propone infine ricorso il difensore del Caruso.
4.1 Con un primo motivo, la difesa dell’imputato affronta la questione della
competenza per territorio, rinnovando eccezioni sollevate fino dall’udienza
preliminare e fondate sul rilievo che la competenza a conoscere del reato
addebitato al Caruso avrebbe dovuto essere riconosciuta al giudice del luogo ove
era stata realizzata la condotta di presunta raccolta del risparmio, vale a dire al
giudice di Catania.
Dovrebbe intendersi erronea, in particolare, la valutazione compiuta dalla
Corte di appello, secondo cui la valenza illecita dell’operato del Caruso si
intenderebbe perfezionata con la ricezione in Milano delle direttive che egli
impartiva per via telefonica, in quanto è la stessa rubrica a descrivere la
condotta come consistente in operazioni di investimento e gestione collettiva del
risparmio (senza che il Caruso vi fosse abilitato) certamente attuate a Catania
con il procacciamento della clientela e la raccolta dei relativi fondi. Osserva a

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civili – malgrado il disposto di cui all’art. 523, comma 2, cod. proc. pen. – non

riguardo il difensore dell’imputato che «la Corte territoriale, ricorrendo al
concetto civilistico sulla scorta del quale considerare perfezionato il contratto, il
quale si conclude attraverso l’incontro della volontà di acquisto e di vendita, ha
totalmente omesso di rilevare che il negozio giuridico si sarebbe verificato
attraverso soggetti che furono legittimati all’esecuzione di tali operazioni: la SIM
“Piazza Affari”. Allora, ciò che rileva non è il luogo di conclusione dei contratti
borsistici, è bene ribadirlo, perfezionati attraverso soggetti legittimati, ma il
luogo nel quale si sarebbe esplicitata la condotta ipoteticamente illecita, cioè la

La tesi difensiva è poi nel senso che nel caso di specie non potrebbero
esservi ragioni derogatorie alle regole ordinarie sulla competenza per territorio,
quanto al Caruso, in virtù di eventuali ipotesi di connessione dell’addebito mosso
al ricorrente, da intendersi reato di pura condotta, rispetto alle contestazioni
riguardanti i coimputati.
4.2 Con il secondo motivo, la difesa del Caruso si sofferma sulle peculiarità
della fattispecie criminosa ascritta all’imputato, osservando che lo svolgimento
– da parte di soggetti non autorizzati – di servizi o attività di investimento o di
gestione collettiva del risparmio può assumere rilievo penale soltanto laddove
avvenga «in modo continuativo, attraverso, cioè, un esercizio abituale e
professionale». Al contrario, il Caruso non dispose neppure di un ufficio o
comunque di riferimenti dove un eventuale interessato a prospettive di
investimento avrebbe potuto contattarlo: egli si limitò a gestire rapporti per
conto di un numero limitato di persone a lui vicine, e furono proprio queste
ultime che, «notando i lauti guadagni ottenuti dall’imputato per se stesso
mediante operazioni borsistiche, spontaneamente e volontariamente gli
affidarono i propri danari al fine di speculare e massificare le proprie non
indifferenti sostanze».
Anche l’accordo intercorso fra l’imputato ed i soggetti che gli avevano messo
a disposizione le risorse da investire deporrebbero nel senso che il Caruso non
era certamente un “professionista”, da remunerare a prescindere dall’esito delle
operazioni, ma un soggetto che avrebbe diviso gli utili in parti uguali solo
laddove ne fossero stati conseguiti; lo stesso, limitato arco temporale della
condotta contestata dal P.M. (fra aprile e novembre 2005) offrirebbe riscontro
alla tesi difensiva.
4.3 La difesa del Caruso segnala quindi inosservanza ed erronea applicazione
di legge penale, con riguardo alla ritenuta configurabilità delle aggravanti
contestate in rubrica, nonché all’esclusione delle attenuanti invocate nei motivi di
appello, deducendo in particolare:

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raccolta di fondi e la gestione, Catania».

- quanto alla circostanza di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen., che la Corte territoriale
non avrebbe considerato il dettato normativo, in base al quale l’aggravante de
qua è ipotizzabile soltanto con riferimento ai reati contro il patrimonio o che
comunque offendono il patrimonio, dovendosi invece ritenere che per il delitto di
abusivismo la lesione patrimoniale sia una conseguenza meramente accidentale;
– quanto alla circostanza di cui all’art. 61 n. 11 cod. pen., che il Caruso non violò
alcun rapporto fiduciario con le persone che gli avevano dato incarico di investire
i loro risparmi, atteso che le parti civili gli misero a disposizione il denaro proprio

rischiose;
– che la Corte territoriale avrebbe dovuto affermare l’efficienza concausale del
fatto doloso delle persone offese, ai sensi dell’art. 62 n. 5 cod. pen., dal
momento che i presunti danneggiati sapevano perfettamente (come ammesso
dai medesimi, delle cui dichiarazioni vengono riportati ampi stralci nei motivi di
ricorso) che il Caruso non era un promotore finanziario abilitato, e furono le
stesse persone offese a cercare l’imputato, mirando a speculare in borsa con
operazioni che confidavano potessero loro consentire forti guadagni, operazioni
di cui era noto ed evidente il margine di rischio, come confermato da alcune
deposizioni (la difesa richiama in particolare gli assunti del teste Datti, ritenendo
al contempo confliggente con la logica che la Cavallaro od altri denuncianti
potessero essere stati rassicurati circa l’esclusione di future perdite).

Ne

deriverebbe pertanto l’impossibilità di «condividere l’affermazione del giudice di
secondo grado, secondo il quale le parti offese non si fossero rappresentato e
non avessero voluto che il Caruso agisse in borsa tramite la loro provvista»,
dovendosi invece rilevare che «le persone offese concorsero alla realizzazione del
fatto tipico contestato al Caruso, sia con un contributo materiale (la messa a
disposizione dei fondi necessari per operare sui mercati B.I.T. e derivati) che
morale, comunque lo si voglia considerare, di istigazione o di rafforzamento della
volontà del Caruso di operare in borsa o come accordo preventivo alla
realizzazione del reato contestato»;
– l’apoditticità dell’affermazione della Corte di appello, secondo cui non avrebbe
dovuto esservi spazio per la concedibilità delle circostanze attenuanti generiche,
essendo le sanzioni inflitte in primo grado «adeguatamente dimensionate e
proporzionate alle rispettive entità delle responsabilità

[…],

per la

sconsideratezza dimostrata dagli imputati – ciascuno nel suo ruolo – ed il
disprezzo per le risorse economiche altrui con le quali essi operavano», a
dispetto della pregressa incensuratezza e del corretto comportamento
processuale del Caruso.

12

per effettuare quelle specifiche operazioni borsistiche e non altre, in ipotesi meno

4.4 Nell’interesse del ricorrente si rappresenta altresì carenza di motivazione
in punto di entità del trattamento sanzionatorio, in particolare per il mancato
esame da parte della Corte territoriale dello specifico motivo di appello con cui
era stata censurata la sentenza dei giudici di prime cure in ordine alla scelta di
una pena base sensibilmente superiore ai minimi edittali.
4.5 La difesa del Caruso si duole infine dell’erronea applicazione della legge
penale correlata alla decisione dei giudici di merito di subordinare il beneficio
della sospensione condizionale della pena al versamento della provvisionale

dell’imputato, non in grado di adempiere al pagamento della somma posta a suo
carico, con il risultato di trasformare la concessione apparente del beneficio de
quo in una sostanziale negazione.

5. Con atto depositato 1’08/01/2014, il difensore della Consob – parte civile
costituita in relazione al reato sub 4), vale a dire l’addebito ex art. 2638 cod. civ.
contestato all’Abbate – ha fatto pervenire una memoria con la quale contesta le
ragioni evidenziate nel quinto motivo del ricorso presentato dalla difesa.
La tesi del difensore di parte civile è che l’espressione “previste in base alla
legge”, contenuta nella norma incriminatrice di cui all’art. 2638 cod. civ., deve
intendersi indicativa del potere dell’Autorità di vigilanza di chiedere informazioni
anche in base a previsioni di carattere regolamentari o ad istruzioni generali.
Ergo, dato che per l’art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998 la Consob poteva
“chiedere, per le materie di rispettiva competenza, ai soggetti abilitati la
comunicazione di dati e notizie e la trasmissione di atti e documenti con le
modalità e nei termini” stabiliti, una delibera della stessa Commissione datata
01/04/2003, vigente all’epoca dei fatti qui contestati, aveva fissato una disciplina
analitica relativamente ai dati, alle notizie e ai documenti da inviare all’istituto a
cura dei soggetti tenuti all’adempimento, fra cui le società di intermediazione
mobiliare.
La difesa della Consob evidenzia che detta delibera poneva a carico delle
SIM «l’obbligo dell’invio di “segnalazioni periodiche di vigilanza” concernenti, tra
l’altro, i dati patrimoniali della società e le informazioni sulle attività esercitate
(con periodicità trimestrale), i dati economici (con cadenza semestrale) nonché
l’obbligo di invio, con cadenza annuale, del bilancio d’esercizio e dell’eventuale
bilancio consolidato, unitamente alle relazioni sulla gestione, alle relazioni del
collegio sindacale, alle relazioni della società di revisione e alla delibera di
approvazione del bilancio di esercizio»; era altresì previsto «l’obbligo dell’invio
alla Consob, con cadenza annuale, di una “relazione sulla struttura organizzativa

13

disposta in favore delle parti civili: ciò in ragione della documentata indigenza

e sull’assetto contabile prevista dal regolamento della Banca d’Italia in materia di
organizzazione amministrativa e contabile, e controlli interni”».
Inoltre, nella memoria si evidenzia che le statuizioni civili relative alla
Consob risultano già coperte dal giudicato, non essendo state oggetto di
impugnazione dinanzi alla Corte di appello.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Va innanzi tutto rilevata l’intervenuta prescrizione anche dei reati sub 3) e
4), oltre che dell’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 168 TUF, già dichiarata
dal Tribunale di Milano. Tenendo conto di una causa di sospensione per 64
giorni, verificatasi nel corso del giudizio di secondo grado, i relativi termini
risultano maturati il 02/08/2013 quanto all’addebito ex art. 166 del d.lgs. n.
58/1998 (contestato come commesso fino al 30/11/2005), ed il 19/09/2013 per
il reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza,
che si assume realizzato fino al 19/01/2006.
Per le ragioni appresso illustrate, i ricorsi che riguardano le fattispecie
delittuose in rubrica non possono intendersi inammissibili (a differenza del
ricorso dell’Abbate in ordine al primo addebito), ma è nel contempo evidente che
non ricorrono gli estremi per un proscioglimento nel merito ex art. 129, comma
2, cod. proc. pen., con la conseguente necessità di una pronuncia di
annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, agli effetti penali, nei limiti
indicati in dispositivo.
I ricorsi debbono peraltro essere esaminati, secondo il disposto dell’art. 578
cod. proc. pen., agli effetti civili: a tal fine la Corte evidenzia sin d’ora che a detti
effetti non possono rilevare le questioni relative al trattamento sanzionatorio,
oggetto di svariati motivi di gravame.

2.
Si impone, in via preliminare, l’esame della questione processuale sollevata
dalla difesa del Caruso, concernente la presunta incompetenza per territorio della
A.G. milanese.
Nell’interesse del ricorrente, si sostiene che la condotta in rubrica dovrebbe
intendersi commessa in quel di Catania, visto che il Caruso agì come “cliente di
Piazza Affari SIM e di collettore di fondi nell’area di Catania”, e che le operazioni
di investimento da lui effettuate derivarono da direttive telefoniche che egli
impartiva rimanendo comunque in Sicilia. La Corte territoriale, invece,

14

1.

muovendo dalla premessa che all’imputato si contesta «di avere concorso nella
effettuazione di servizi di investimento e di gestione collettiva del risparmio,
attivandosi in qualità di operatore di fatto, mediante la raccolta di capitali presso
soggetti a lui vicini, e l’effettuazione (diretta) di operazioni di investimento sul
mercato comparto azionario BIT e sul comparto dei derivati, mediante
l’utilizzazione delle strutture di Piazza Affari SIM», sarebbe «riduttivo, rispetto
ad un complesso di condotte così coordinate ed articolate, isolare e parcellizzare
l’attività del Caruso nell’ambito di Catania (luogo dal quale egli dava direttive

coordinate che si sostanziano, nella loro valenza illecita, nell’attivazione di servizi
di investimento la cui operatività viene perfezionata con la ricezione in Milano
delle direttive che il Caruso dava telefonicamente dalla sua residenza in
Catania».
In linea di principio, la tesi difensiva non appare affatto peregrina: dinanzi
ad un’attività abusiva di intermediazione finanziaria, il primo parametro di
riferimento ai fini della determinazione del /ocus commissi delicti è costituito
senz’altro dall’individuazione del luogo ove si verifica la raccolta dei risparmi
degli investitori, piuttosto che di quello ove l’investimento viene concretamente
effettuato sulla base di disposizioni impartite a distanza. Del resto, ove non
fosse così, tutti gli intermediari non autorizzati, attivi nelle più diverse zone del
territorio nazionale, verrebbero giocoforza giudicati a Milano, visto che ivi si
svolgono sostanzialmente tutte le operazioni di borsa. L’argomento, tuttavia,
non può intendersi decisivo nella fattispecie in esame: infatti, è qui contestato il
concorso del Caruso con soggetti intranei alla società di intermediazione
mobiliare, i quali operavano senza dubbio in quel di Milano. Se dunque è a
Catania che il Caruso provvedeva alla raccolta delle somme da investire, è palese
che la gestione di quelle risorse non avveniva soltanto attraverso le direttive
telefoniche o via mail che egli formulava, bensì anche attraverso la condotta
(attiva od omissiva che fosse) dei concorrenti milanesi.
Ergo, una parte della condotta, quanto meno ai fini della regola suppletiva
dettata dall’art. 9, comma primo, del codice di rito, deve intendersi realizzata a
Milano, con la conseguente conferma della correttezza delle determinazioni
adottate dai giudici di merito in punto di competenza territoriale: conclusione
che, già desumibile dal tenore della rubrica in ragione del contestato concorso ex
art. 110 cod. pen., appare a fortiori suffragata dalle argomentazioni adottate
nella sentenza di primo grado, dove a pag. 25 si ricorda fra l’altro che l’incontro
tra i coniugi Cavallaro / Caruso e il Federici, con quest’ultimo (secondo le
risultanze istruttorie ritenute conformi alla reale ricostruzione dei fatti) a

15

telefoniche alla sala operativa della SIM), a fronte di una pluralità di condotte

svolgere opera di convincimento dei primi circa la bontà di quegli investimenti e
delle forme che erano state loro suggerite, si svolse appunto a Milano.

3. L’analisi dei motivi di ricorso in ordine al reato sub 1), contestato al solo
Abbate e già dichiarato prescritto, deve limitarsi ad una valutazione di possibile
emergenza di elementi decisivi ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen, in ipotesi
trascurati dai giudici di secondo grado; sul punto, peraltro, non vi sono
statuizioni civili.

a.

non potrebbe dirsi perfezionata una condotta rilevante, ai fini della
confusione di patrimoni penalmente sanzionata, nella sola, presunta
rimozione permanente dei filtri relativa ai clienti del gruppo Caruso,
mancando l’elemento del danno agli investitori (la violazione della
separazione patrimoniale, cui non segua il predetto danno, è infatti mero
illecito amministrativo);

b.

i giudici di merito non avrebbero in alcun modo provato il dolo specifico di
ingiusto profitto, non desumibile dalla sola finalità di lucro connaturata
alle operazioni di borsa ascrivibili al Caruso (a riguardo, nell’interesse del
ricorrente si segnala che la condotta di confusione di patrimoni dovrebbe
risultare tenuta in modo professionale);

c.

non sarebbe stato individuato alcun elemento in base al quale affermare
la veste dell’Abbate di amministratore di fatto di Piazza Affari SIM, non
essendo stata accertata in particolare alcuna condotta concreta che
l’imputato avrebbe assunto, una volta chiamato a compiti di collaboratore
esterno, indicativa di tali poteri gestori.

Si tratta, ictu ocu/i, di doglianze che non consentono affatto di ritenere che i
giudici milanesi avrebbero dovuto constatare l’evidenza di una causa di
proscioglimento nel merito, essendo anzi necessaria – onde pervenire ad una
ipotetica formula liberatoria dell’imputato che prescindesse dalla presa d’atto
della maturata prescrizione istruttorie.

una profonda rivisitazione delle risultanze

Già tale constatazione dà la misura della non ammissibilità del

ricorso, in parte qua: conclusione alla quale deve pervenirsi, del resto, anche
volendo esaminare gli specifici profili di gravame elencati.
In ordine alla presunta mancanza di elementi per affermare che l’Abbate
avrebbe avuto un ruolo di amministratore di fatto di Piazza Affari SIM, è
altrettanto pacifico che – secondo il coerente e lineare impianto motivazionale
della sentenza di primo grado, fatto proprio dalla Corte di appello – plurime
deposizioni testimoniali avevano indicato come il ricorso al rapporto di
collaborazione esterna da parte dell’imputato fosse stato motivato proprio dalla

16

Come ricordato, la difesa dell’Abbate sostiene che:

necessità di cercare una soluzione urgente ai problemi sorti con il gruppo Caruso,
e che trovavano causa (anche) nelle determinazioni adottate dallo stesso Abbate
durante il periodo in cui era stato amministratore delegato della SIM. In
concreto, più soggetti – fra gli altri, i testi Carpineti e Zanghieri – avevano
riferito di aver messo direttamente al corrente l’Abbate di quanto stava
accadendo già nei primi mesi del 2005, anche con riferimento alla mancanza di
requisiti in capo al Caruso affinché operasse nei termini che erano emersi, e ne
era derivata addirittura la rimozione permanente dei filtri proprio per quel

controtendenza rispetto alle cautele che invece avrebbero dovuto essere
adottate; sempre su base testimoniale, l’Abbate era stato indicato come «uno dei
principali ideatori della operazione di confusione di patrimoni», fra gli altri ancora
dallo Zanghieri. Questi aveva riferito, con riguardo all’Abbate, che «tutto
passava dal suo vaglio» non in termini generici, come già lamentato dalla difesa
in sede di motivi di appello, bensì specificatamente a proposito della vicenda del
gruppo Caruso, e proprio perché era stato richiamato come “collaboratore
esterno” al fine di trovare rimedio dinanzi a fattori di potenziale dissesto. La
sentenza del Tribunale di Milano, a proposito del ruolo rivestito dall’Abbate
all’interno della SIM nell’autunno 2005, richiama anche le dichiarazioni dei testi
Patricolo, Stacca e Schiavo.
Va poi ricordato che in effetti, ai sensi dell’art. 168 TUF, la violazione delle
disposizioni concernenti la separazione patrimoniale costituisce illecito penale
laddove la relativa condotta sia compiuta “arrecando danno agli investitori” e “al
fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”: ma, considerando la diffusa
disamina contenuta nella sentenza di primo grado, è necessario ricordare che
l’addebito si riferisce ad una «operazione – effettuata tra i mesi di ottobre e
novembre del 2005 – che ha consentito alla SIM di ripianare, in parte, per la
somma di 5 milioni di euro, la mancanza di liquidità della stessa (rispetto al
maggiore scoperto che era pari a 6,5 milioni di euro) attraverso il prelievo dai
conti correnti di altri clienti». L’operazione de qua è analiticamente descritta
nelle pagg. 11 e segg. della pronuncia del Tribunale.
Al di là della mancanza di una specificazione, o di puntuali distinzioni fra i
diversi soggetti che risultavano titolari dei conti da cui venivano attinte le
relative risorse,

è in re ipsa

che prelevare fondi dalle giacenze di altri

comportava per ciò stesso un danno, indipendentemente dalla eventuale – e non
dimostrata – predisposizione di rimedi per far fronte ad un ristoro immediato;
nel contempo, non si vede come possa intendersi sfuggente la prova dell’ingiusto
profitto perseguito, dinanzi non solo alla prospettiva di ripianare una perdita cui
sarebbe stato necessario porre rimedio con ben altra provvista, ma anche al

17

gruppo (provvedimento adottato dallo stesso imputato), in palese

rilievo che il tutto derivava da una elevata operatività consentita al Caruso «ben
oltre i margini di garanzia» e che aveva «generato per la SIM ingenti
commissioni». Né coglie nel segno la censura della difesa, secondo cui – su un
piano generale – la Corte territoriale avrebbe affermato l’irrilevanza di una
verifica del carattere continuativo, abituale e professionale delle attività previste
dalle disposizioni sanzionatorie del TUE: a ben guardare, l’osservazione (che si
legge nella sentenza di secondo grado a pag. 11, nella descrizione della
posizione del Caruso) deve essere completata con il riferimento,

“mascherati”, sì da doversi intendere sostanzialmente presenti.

4.
La mancanza del connotato della professionalità (relativamente alla condotta
del Caruso) costituisce elemento comune ai motivi di ricorso degli imputati anche
con riguardo al reato di cui all’art. 166 TUF.
4.1 Secondo la previsione sanzionatoria di cui all’art. 166, comma primo,
lett. a), del d.lgs. n. 58/1998, è contemplata la pena detentiva della reclusione
da 6 mesi a 4 anni – oltre a pena pecuniaria – per chi “svolge servizi o attività di
investimento o di gestione collettiva del risparmio” non essendovi abilitato nelle
forme di legge.
E’ innegabile che la fattispecie astratta non disegni una ipotesi di reato
proprio, non essendo soltanto alcuni soggetti peculiari a potersi rendere
responsabili di condotte di abusivismo, ma puntando anzi il legislatore a
sanzionare l’ingresso in quel settore di individui incapaci di garantire una
sufficiente qualificazione: tuttavia, è pur sempre necessario che lo svolgimento di
servizi od attività di investimento, come pure la gestione collettiva dei risparmi
altrui, vengano esercitate nei riguardi di una clientela non rigorosamente
predeterminata.
La soluzione si impone anche in virtù delle previsioni del d.m. n. 329 del
1997, da intendersi ancora in vigore: il testo de quo, da cui si desumono le
nozioni di professionalità e diffusione tra il pubblico delle attività riservate a
soggetti abilitati, è stato infatti abrogato dall’art. 214, comma 4, del d.lgs. n. 58,
ma limitatamente alle norme di contenuto corrispondente alle disposizioni
contestualmente introdotte, mentre il comma 5 stabilisce che le norme
precedenti, relative a settori non autonomamente regolamentati dal TUE,
continuano a trovare applicazione fino alla data di entrata in vigore di emanande
(e non ancora intervenute) previsioni regolamentari.
Né appaiono dirimenti le modifiche introdotte nel 2007 alla portata del
precetto di cui all’art. 166, quando – con il d.lgs. n. 164 – venne aggiunta,

18

immediatamente successivo, alla possibilità che quei requisiti potessero risultare

all’ipotesi dello svolgimento di “servizi” di investimento, quella dello svolgimento
di analoghe “attività”, con identica specificazione inserita nella successiva lett. c)
(volta a sanzionare l’offerta fuori sede, la promozione od il collocamento,
mediante tecniche di comunicazione a distanza, dì strumenti finanziari, di servizi
o – appunto – attività di investimento): più che ad ampliare il novero delle
modalità di possibile esercizio della condotta incriminata, dovendosi così
distinguere i “servizi” di un professionista dalle “attività” di un consulente
occasionale, la norma aveva infatti la concreta finalità di adeguare le previsioni

rispetto della c.d. direttiva MiFid di cui il d.lgs. n. 164/2007 costituiva attuazione.
Ai sensi delle previsioni sovranazionali, come recepite nel nuovo testo
dell’art. 1, comma 5, del TUF, per servizi e attività di investimento si intendono,
qualora abbiano ad oggetto strumenti finanziari, le operazioni di: negoziazione
per conto proprio; esecuzione di ordini per conto dei clienti; sottoscrizione e/o
collocamento con assunzione a fermo ovvero con assunzione di garanzia nei
confronti dell’emittente; collocamento senza assunzione a fermo né assunzione
di garanzia nei confronti dell’emittente; gestione di portafogli; ricezione e
trasmissione di ordini; consulenza in materia di investimenti; gestione di sistemi
multilaterali di negoziazione. Ed allora, a fronte di tale più analitica tipizzazione,
risulta evidente come il solo concetto di “servizi” nella correlata disposizione
sanzionatoria fosse inadeguato per difetto: a tacer d’altro, è ben più definibile
mediante la nozione di “attività” una operazione consistente nella semplice
ricezione o trasmissione di ordini.
4.2 Alla soluzione interpretativa che qui si condivide risulta peraltro già
pervenuta la giurisprudenza di questa stessa Sezione, con la recente
affermazione che «il reato di abusivismo finanziario di cui all’art. 166 d.lgs. n. 58
del 1998 sussiste solo se l’esercizio di servizi finanziari viene svolto in maniera
professionale e nei confronti del pubblico» (Cass., Sez. V, n. 27246 del
29/05/2013, Federici, Rv 255443). Nella motivazione della pronuncia appena
richiamata si fa osservare che «la necessità dei predetti requisiti non è, a ben
vedere, dettata ex professo dalla norma incriminatrice, la cui redazione è ispirata
alla discutibile tecnica, diffusa nel settore del diritto penale economico, di
incriminazione per rinvio, e cioè mediante la rinuncia a descrivere
compiutamente l’essenza della condotta vietata e l’introduzione di una fattispecie
sanzionatoria di precetti contenuti altrove, in norme di stampo più prettamente
civilistico/amministrativistico […]. L’interpretazione dell’art. 166 TUF non può
quindi prescindere dal raffronto della relativa fattispecie con la normativa
previgente che, con l’abrogato art. 14 legge SIM, sanzionava l’esercizio
professionale abusivo nei confronti del pubblico delle attività d’intermediazione,

19

sanzionatorie alla nuova e meglio tipizzata casistica delle condotte de quibus, nel

con espressa previsione, dunque, dei predetti due requisiti, mentre l’art. 37
d.lgs. n. 415/1996 puniva lo svolgimento di uno o più servizi di investimento
senza autorizzazione o legittimazione, senza prevedere il carattere della
pubblicità. L’art. 166 vigente ha adottato una formulazione neutra che,
prescindendo da qualunque richiamo espresso ai requisiti in esame
(professionalità e pubblicità), sanziona lo “svolgimento” di attività di
investimento, sostituendo tale dizione a quella dell’ “esercizio” di attività di
investimento […]. Ciò non significa, peraltro, che la professionalità e la pubblicità

Infatti una lettura sistematica dell’art. 166 che tenga conto dell’art. 18 dello
stesso TUF, il quale statuisce che “l’esercizio professionale nei confronti del
pubblico dei servizi di investimento è riservato alle imprese di investimento e alle
banche”, giustifica la conclusione della necessità di quei requisiti nel caso di chi
eserciti abusivamente, cioè senza abilitazione, tali attività. Se infatti oggetto di
abilitazione è solo l’esercizio professionale e nei confronti del pubblico, la
previsione del reato, data la scelta dell’incriminazIone per rinvio, non può che
riguardare lo svolgimento di un’attività che assuma tali caratteri senza essere
accompagnata dalla necessaria abilitazione. Il che significa che l’occasionalità o
la predefinizione dei destinatari dell’attività ne esclude la tipicità sia ai fini
dell’abilitazione, sia, a maggior ragione, ai fini della configurabilità del reato […].
In definitiva sembra potersi affermare, anche alla stregua della previsione, tra le
attività di intermediazione finanziaria, della negoziazione per contro proprio, il
cui significato non appare pienamente in linea con il concetto di professionalità
nella sua più tecnica accezione, che l’interpretazione più aderente alla
formulazione ed alla ratio dell’art. 166 TUE, il quale prevede un reato di pericolo
presunto a tutela del corretto funzionamento del mercato, dei risparmiatori e
degli investitori, sia quella che, da un lato, esclude dall’area penalmente
sanzionata il compimento di singoli atti occasionali, richiedendo invece una serie
coordinata di atti rientranti nelle tipologie previste, secondo un concetto di
professionalità in senso ampio, dall’altro esige che essi siano indirizzati al
pubblico, tuttavia nel limitato senso di soggetti qualitativamente non
predeterminati».
4.3 Mutuando tali principi, che il collegio condivide pienamente, nella lettura
della fattispecie concreta, deve rilevarsi che appare ineccepibile l’analisi
compiuta dalla Corte territoriale: il Caruso, sia pure senza un ufficio od una
apparente struttura organizzata per rivolgersi ad una platea indifferenziata di
potenziali investitori, aveva operato sostanzialmente come un professionista,
lucrando una quota dei guadagni inizialmente ottenuti attraverso la
movimentazione dei capitali e realizzando operazioni connotate da assiduità e

20

non siano necessari ai fini dell’integrazione del reato contestato ai ricorrenti.

sistematicità; peraltro, come già sottolineato nella pronuncia di primo grado, egli
non si palesava – agli occhi di coloro che si rivolgevano a lui per gli investimenti
de quibus

come un soggetto più o meno autodidatta nelle speculazioni di

borsa, ma era già stato un promotore finanziario abilitato, poi cancellato dal
relativo albo dalla Consob con un provvedimento del 1999 (v. pag. 26 della
sentenza del Tribunale di Milano).
Va altresì rimarcato che i “clienti” del Caruso, per quanto selezionati
all’interno di una cerchia di persone che già avevano con lui rapporti di amicizia o

del “passaparola” derivante dalle notizie dei lucrosi guadagni ottenuti da chi
aveva cominciato a godere delle sue prestazioni – ai primi investitori se ne erano
aggiunti altri, in una catena che non risulta affatto l’imputato mirasse a bloccare,
e che rimase contenuta ai soli undici rapporti segnalati in rubrica solo in virtù del
precipitare della situazione. Conseguentemente, non può rilevare, in una
prospettiva opposta, il rilievo empirico che secondo la rubrica i fatti sarebbero da
confinare in un ambito temporale limitato.
Da ultimo, ed a fortiori, occorre tenere presente ancora una volta che nella
fattispecie concreta l’addebito non riguarda un intermediario abusivo, al quale
ascrivere in via autonoma la responsabilità di occasionali operazioni di raccolta di
risparmi o di gestione di investimenti: il Caruso, di fatto, agiva sotto l’egida di
una SIM abilitata, con tanto di copertura di un promotore finanziario
regolarmente autorizzato e di un amministratore della società medesima, cui si
contesta il concorso negli stessi reati.
4.4 Le ulteriori doglianze avanzate nell’interesse del Federici mirano
sostanzialmente a sollecitare in questa sede una rivalutazione delle risultanze
istruttorie, operazione in linea di principio non consentita alla Corte di Cassazione..
Vero è che i parametri di valutazione propri del giudizio di legittimità sono
parzialmente mutati per effetto delle modifiche apportate agli artt. 533 e 606
cod. proc. pen. con la novella del 2006, stante l’introduzione della possibile
rilevanza di una ricostruzione di merito alternativa a quella fatta propria nella
sentenza impugnata, se dotata di maggiore plausibilità logica e dunque indicativa
di un dubbio ragionevole, ostativo ad una decisione di condanna: si è peraltro
più volte ribadito che anche all’esito della suddetta riforma «gli aspetti del
giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato
degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel
giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla
loro capacità dimostrativa e […], pertanto, restano inammissibili, in sede di
legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una
rivalutazione del risultato probatorio» (Cass., Sez. V, n. 8094 dell’11/01/2007,

21

frequentazione, non costituivano un numerus clausus, atteso che – per effetto

Ienco, Rv 236540).

E, proprio con riguardo al principio dell’ “oltre ogni

ragionevole dubbio”, si è da ultimo precisato che esso non ha comunque inciso
sulla natura del sindacato della Corte di Cassazione in punto di motivazione della
sentenza e non può, quindi, «essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva
la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente
emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia
stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell’appello» (Cass., Sez.
V, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv 254579).

del Federici si è lungamente soffermata, appare assai arduo convenire con
l’assunto del ricorrente, secondo cui la tesi che egli nulla sapesse dei rapporti fra
il Caruso ed i “clienti” di costui dovrebbe intendersi più verosimile di quella
opposta: come ricordato in premessa, la tipologia delle operazioni compiute dal
Caruso consisteva per la gran parte in vendite di opzioni, idonee a consentire
l’incasso immediato del premio ed a nascondere od almeno posticipare, di fatto,
la verifica dell’esposizione sul reale andamento degli indici, dunque è del tutto
ragionevole che gli investitori – constatando la regolarità di quegli incassi pensassero di avere realizzato un guadagno, a conferma delle rassicurazioni
ricevute sulla tenuta del capitale (garanzie che le parti civili, almeno alcune,
sostennero di avere avuto anche dalla viva voce del Federici).
Che poi il Caruso fosse entrato direttamente in contatto con la SIM,
vedendosi assegnare il Federici quale promotore finanziario come evenienza
indifferente rispetto a quella che gliene venisse attribuito un altro, è circostanza
irrilevante: al di là dell’esistenza di preventivi accordi fra i due, il Federici si trovò
ad operare in un contesto dal quale emergeva ictu oculi, ed era stata anche
formalmente segnalata, la non abilitazione del Caruso a svolgere quelle attività,
e nulla fece (violando anche i doveri di informazione nei confronti degli
investitori) pur di mantenere le indubbie prospettive di guadagno che gli
venivano garantite dalle correlate provvigioni.
Del tutto irrilevante è infine la circostanza che la Consob non si sarebbe
costituita parte civile nei confronti del Federici, giacché l’ente suddetto non
risulta avere avanzato pretese risarcitorie verso l’Abbate in relazione a reati che
questi avrebbe commesso in concorso con altri (tra cui, in ipotesi, il Federici),
ma solo in ordine al delitto sub 4), ascritto – per quanto di odierno interesse esclusivamente all’Abbate.

5.
In ordine alle doglianze dell’Abbate sul delitto di ostacolo all’esercizio delle
funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638 cod. civ.), è da un lato

22

Così correttamente inquadrati i termini del problema in diritto su cui la difesa

necessario ribadire quanto già evidenziato circa il ruolo gestorio riferibile
all’imputato, sia quando era amministratore delegato di Piazza Affari SIM sia
quando vi rientrò in ragione del presunto rapporto di collaborazione esterna.
Sull’esistenza di specifici e pregnanti doveri di comunicazione, cui la società
venne meno, appare dirimente il contenuto della memoria difensiva da ultimo
depositata nell’interesse della Consob, parte civile costituita: al di là del
problema della ravvisabilità di un obbligo di informazione alle autorità di
controllo solo in conseguenza della accertata operatività “fuori margine” dei conti

comunicazioni alla Consob ed alla Banca d’Italia di dati concernenti già la
“gestione abusiva” dei conti suddetti, palesata all’Abbate dal Carpineti e dallo
Zanghieri già nei primi mesi del 2005, nonché di elementi inequivocabilmente
indicativi del dissesto della stessa SIM. Perciò, è indiscusso che assumano
rilievo le omesse comunicazioni di quanto richiesto dalla delibera della Consob n.
14015 del 01/04/2003, già richiamata a pag. 35 della sentenza di primo grado,
tenendo presente che gli scoperti di liquidità concernenti i conti gestiti dal Caruso
risultavano di fatto occultati a partire dall’aprile 2005, e che ciò venne a
determinare i presupposti di quella anomala confusione di patrimoni che avrebbe
dovuto costituire ex se oggetto di specifica segnalazione.

6.
Sulle statuizioni civilistiche dei giudici di merito, va altresì disattesa la
censura mossa dalla difesa del Federici in punto di lamentata carenza
motivazionale della sentenza impugnata. Secondo il ricorrente, vi sarebbe
incertezza sulla esistenza stessa di danni risarcibili, avendo anzi le parti civili
concorso con un comportamento doloso alla causazione dell’evento produttivo
dei danni medesimi: in realtà, come già abbondantemente motivato dal
Tribunale di Milano, non è ascrivibile ai “clienti” del Caruso un comportamento di
astratta rilevanza ex art. 62 n. 5 cod. pen., norma per la cui applicazione non è
sufficiente che la persona offesa abbia contribuito, con la sua condotta, alla
causazione dell’evento, ma è necessario, sul piano psicologico, che l’offeso abbia
voluto lo stesso evento avuto di mira dall’agente (v., ex plurimis, Cass., Sez. I,
n. 13764 dell’11/03/2008, Sorrentino, nonché Cass., Sez. I, n. 14802 del
07/03/2012, Sulger). Qui, come già sottolineato, non si è in presenza

di

risparmiatori che – come sostanzialmente tutti gli imputati ritengono mutarono atteggiamento nel momento in cui investimenti inizialmente lucrosi
diedero i primi segnali di perdita, bensì di soggetti ai quali erano stati
rappresentati come guadagni quelli che in realtà erano soltanto incassi di vendite
di opzioni; del resto, un danno ai suddetti investitori derivò non soltanto dal

23

riferibili al Caruso, il capo d’imputazione sub 4) indica come rilevanti le omesse

reato di abusivismo contestato al capo 3), ma anche per effetto delle omesse
comunicazioni agli organi di vigilanza, che avrebbero – se osservate – impedito
o contenuto il dissesto della società.
Senz’altro pacifico è poi il danno cagionato alla stessa Piazza Affari SIM in
liquidazione coatta amministrativa, alla quale risultano revocate le autorizzazioni
ad operare sul mercato proprio in conseguenza del dissesto.
Non può trovare accoglimento neppure la censura afferente la concessa
provvisionale, disposta malgrado il difetto di conclusioni scritte contenenti la

certa: il parametro normativo invocato, e del quale la difesa del Federici lamenta
la violazione (art. 523, comma 2, cod. proc. pen.) è più semplicemente la norma
che prevede in via generale la necessità che la parte civile presenti conclusioni,
ma per consolidata giurisprudenza deve intendersi rituale il richiamo alle
domande contenute all’atto della costituzione o la formalizzazione di istanze a
verbale (v. Cass., Sez. IV, n. 39595 del 27/06/2007, Rosi), come la sentenza del
Tribunale segnala essere accaduto nel caso di specie, a pag. 41.

7.
Come già avvertito, stante la sopravvenuta prescrizione debbono intendersi
assorbite le questioni concernenti l’entità delle pene inflitte, la ravvisabilità delle
circostanze aggravanti in rubrica, la lamentata negazione delle attenuanti
generiche e la contestata subordinazione della sospensione condizionale al
pagamento delle provvisionali disposte.

8. Si impongono pertanto le determinazioni di cui al dispositivo.
Gli imputati, soccombenti in ordine alle statuizioni civili, debbono essere
condannati a rifondere le spese sostenute nel presente giudizio di legittimità
dalle parti civili costituite nei loro confronti: a tal fine, la Corte ritiene congruo
indicare le somme da liquidare nelle misure di cui appresso, tenendo conto
dell’attività svolta dal difensore della Consob attraverso la redazione di una
memoria e del numero delle parti assistite dall’Avv. Borella.

P. Q. M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, relativamente ai reati di cui ai capi
3) e 4), perché estinti per prescrizione.
Dichiara inammissibile il ricorso dell’Abbate in relazione al reato di cui al capo 1).
Rigetta i ricorsi agli effetti civili.

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determinazione dell’ammontare del danno di cui si ritenga già raggiunta prova

Condanna l’Abbate alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Consob,

che liquida in complessivi C 2.500,00; condanna tutti i ricorrenti, in solido, alla
rifusione delle spese sostenute dalle ulteriori parti civili, che liquida in
complessivi:
C 3.240,00, quanto a Ciraolo Guido, Beltrame Cristiana, Cavallaro Alfio,
Cavallaro Maria Antonella e Caruso Giuseppe Lazzaro;
C 1.800,00, quanto a Piazza Affari SIM s.p.a. in liquidazione coatta
amministrativa.


Così deciso il 20/01/2014.

Oltre, per tutte le parti civili, ad accessori di legge.

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