Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 23533 del 30/11/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 23533 Anno 2013
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sui ricorsi proposti nell’interesse di
1. D’Iorio Giuseppe, nato a Maddaloni il 06/02/1977
2.

Romano Antonio, nato a Casalnuovo di Napoli il 16/02/1960

3. Soriano Gaetano, nato ad Acerra l’11/06/1970
4.

Di Nuzzo Vincenzo, nato ad Acerra il 19/11/1960

avverso la sentenza emessa il 07/12/2011 dalla Corte di appello di Napoli

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa
Maria Giuseppina Fodaroni, che ha concluso chiedendo
dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi presentati nell’interesse del Soriano
e del Di Nuzzo;
il rigetto dei ricorsi presentati nell’interesse del D’Iorio e del Romano;
udito per il ricorrente Romano l’Avv. Pasquale Riccio, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata;

Data Udienza: 30/11/2012

udito per il ricorrente D’Iorio l’Avv. Paolo Sperlongano, che ha concluso
chiedendo l’accoglimento dei ricorsi presentati dalla difesa e l’annullamento della
sentenza impugnata

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Napoli, in data 07/12/2011, riformava parzialmente

– la rideterminazione della pena inflitta in primo grado a Vincenzo Di Nuzzo e
Gaetano Soriano (i quali avevano rinunciato a tutti i motivi di appello ad
eccezione di quello concernente l’eccessività del trattamento sanzionatorio), che
comminava nella misura di anni 3, mesi 4 di reclusione ed euro 1.300,00 di
multa ciascuno, con le ulteriori statuizioni di legge in ragione dell’entità della
pena suddetta e con revoca delle diverse pene accessorie inflitte in primo grado;
– la riduzione della pena inflitta a Giuseppe D’Iorio, da anni 24 ad anni 20 di
reclusione;
– la condanna di Antonio Romano (assolto invece dal Tribunale di Noia) alla pena
di anni 3, mesi 4 di reclusione ed euro 800,00 di multa, con conseguente pena
accessoria ex art. 29 cod. pen., limitatamente al reato di porto di arma da
guerra contestato al capo E1 della rubrica, in esso assorbito l’ulteriore addebito
di detenzione della stessa arma, nonché – in concorso formale – dei reati di
porto di arma clandestina e ricettazione, con l’aggravante prevista dall’art. 7 d.l.
n. 152 del 1991.
1.1 La Corte di appello, con riguardo alla posizione del D’Iorio (imputato
degli stessi reati di cui sub E1, nonché di tentato omicidio in pregiudizio di tre
militari dell’Arma dei Carabinieri e di resistenza a pubblico ufficiale), osservava
che:
– da intercettazioni ambientali disposte nell’auto in uso al D’Iorio ed all’interno
della sua abitazione emergevano con chiarezza i propositi estorsivi che egli
intendeva realizzare nei confronti di una pluralità di soggetti, paventando la
possibilità concreta di fare uso, non soltanto a fini di minaccia, di armi da fuoco
di cui aveva la disponibilità;
– dalle stesse conversazioni captate risultava che il D’Iorio aveva effettuato la
stessa mattina dell’arresto (occorso più tardi, a seguito del controllo da parte dei
Carabinieri nel corso del quale l’imputato fece in effetti uso di una pistola) una
breve sosta in auto presso la carrozzeria di un pregiudicato, subito dopo
intrattenendosi con gli altri occupanti dell’auto – fra cui Antonio Romano – sul

2

la sentenza emessa dal Tribunale di Nola il 12/11/2010, disponendo fra l’altro:

e

fatto di essere “andato a pigliare quella cosa là, quell’imbasciata”, chiedendo
anzi allo stesso Romano se volesse portarla lui;
– in ordine ai delitti di tentato omicidio e resistenza, i militari operanti avevano
concordemente riferito che il D’Iorio aveva esploso al loro indirizzo un colpo di
pistola nella sicura consapevolezza di trovarsi dinanzi ad appartenenti alle forze
dell’ordine, visto che gli stessi si trovavano a bordo di un’auto civetta ma con
sistemi acustici attivati e con tanto di esibizione della paletta d’ordinanza:
l’imputato aveva peraltro fatto fuoco puntando la pistola a braccio teso mentre si

Carabinieri da una distanza inferiore a 20 metri;
– doveva al contrario ritenersi inverosimile la tesi difensiva secondo cui il D’Iorio
si era limitato ad esplodere un colpo in aria, credendo per errore che i suoi
presunti antagonisti fossero malviventi con propositi aggressivi – non avendo
essi azionato dispositivi acustici o mostrato insegne di istituto, ed anzi
palesandosi armati -, sia perché l’assunto risultava smentito dalle deposizioni
degli operanti, sia per l’intrinseca illogicità del comportamento dei Carabinieri
(che in tal modo avrebbero indotto una persona comunque nota per la sua
appartenenza ad organizzazioni criminali a far uso delle armi in suo possesso) e
dello stesso D’Iorio (che, dinanzi a presunti aggressori muniti di pistole, non si
sarebbe limitato a sparare un solo colpo in aria);
– era da ritenere irrilevante il particolare che il proiettile non fosse stato
rinvenuto, evenienza ben possibile per l’esistenza di una adiacente campagna, né
potevano considerarsi significative le marginali discrasie nella ricostruzione del
fatto offerta dai tre militari a proposito dell’avere il D’Iorio mantenuto sempre o
meno posizione frontale verso di loro;
– nella fattispecie risultava doveroso condividere l’assunto del Tribunale di Noia
circa la ricorrenza del dolo alternativo, avendo l’imputato mirato verso il volto o il
torace delle persone offese, in quanto posizionate nell’abitacolo dell’auto, senza
attingere né la vettura né i militari solo a causa di un fortuito errore o per effetto
della manovra di emergenza prontamente azionata dal conducente, essendo al
contempo priva di significato la circostanza della mancata reiterazione di altri
colpi da parte del soggetto attivo (condotta che avrebbe esposto l’imputato ad
una reazione armata dei Carabinieri o che comunque ne avrebbe rallentato la
fuga).
1.2 Gli stessi argomenti utilizzati per il D’Iorio in ordine alla contestazione
del porto e detenzione dell’arma venivano considerati dirimenti anche per
giungere all’accoglimento dell’appello proposto sul punto dal Pubblico Ministero
avverso la prima sentenza di assoluzione di Antonio Romano. Riteneva infatti la
Corte territoriale che l’innegabile disponibilità di una pistola da parte del D’Iorio i

riparava dietro un’altra vettura, e mirando verso il parabrezza dell’auto in uso ai

giorno dell’arresto (peraltro preannunciata nei giorni precedenti in occasione
delle conversazioni intercettate, sopra richiamate), e la circostanza che quella
mattina il D’Iorio e il Romano fossero in compagnia, peraltro impegnati nella
prospettiva di esercitare pressioni su più soggetti titolari di attività
imprenditoriali o presso i quali avanzare comunque richieste di denaro,
dimostrasse ex se la sussistenza del concorso del Romano nel porto dell’arma.
Porto che il D’Iorio aveva financo palesato, come desumibile dal riferimento
all’avere poco prima prelevato “quella cosa là”.

porto e non anche quella di detenzione, da ritenere assorbita nella prima,
giacché non poteva intendersi provato che egli fosse stato consapevole della
disponibilità dell’arma da parte del D’Iorio già nei giorni precedenti. L’arma, per
quanto di calibro 7,65, era tuttavia da considerare da guerra in ragione del
munizionamento utilizzato (calibro 9 parabellum).
1.3 Quanto alle posizioni del Di Nuzzo e del Soriano, i giudici di secondo
grado operavano il computo della pena da infliggere nei loro riguardi
richiamando fra l’altro il disposto dell’art. 63, comma quarto, cod. pen.

2. Avverso la sentenza sopra indicata propongono distinti ricorsi i due
difensori del D’Iorio.
2.1 L’Avv. Paolo Sperlongano deduce inosservanza ed erronea applicazione
delle norme sostanziali contestate al D’Iorio, nonché dell’art. 125, comma 3, cod.
proc. pen.; lamenta altresì, sotto il medesimo profilo, mancanza,
contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata.
Riguardo all’arma, il difensore segnala che anche in favore del D’Iorio
avrebbe dovuto essere ritenuta la detenzione assorbita nel porto, tanto più che
l’imputato proveniva all’epoca da una prolungata restrizione in carcere per 5
anni, immediatamente precedente.
Quanto al tentato omicidio, la Corte avrebbe omesso di considerare che
anche gli altri coimputati, sia pure estranei all’addebito, avevano dichiarato nei
rispettivi interrogatori di non essersi resi conto di trovarsi dinanzi a militari
dell’Arma, temendo anzi di poter restare vittime di un agguato; nel contempo,
due testimoni all’epoca escussi, residenti in zona, avevano riferito di aver udito
sparare, senza menzionare segnalazioni acustiche o luminose che certamente
sarebbero stati in grado di percepire. Peraltro, anche uno dei militari – il M.Ilo
Giordano, da cui provenivano precisazioni sul fatto che l’imputato diede anche le
spalle ai Carabinieri – avrebbe fornito la conferma che la loro qualità di pubblici
ufficiali non era immediatamente percepibile, atteso che egli sostenne di avere
pronunciato ad alta voce la frase “D’Iorio, siamo Carabinieri”, frase che non

4

Era invece da ritenere, quanto al Romano, configurabile la sola condotta di

avrebbe avuto senso concreto qualora l’appartenenza di quei soggetti alle forze
dell’ordine fosse stata chiara ab initio.
Segnalato poi che il mancato rinvenimento del proiettile dovrebbe costituire
indice ragionevole del fatto che la pistola era stata puntata verso l’alto, l’Avv.
Sperlongano rappresenta che forse nel caso di specie «non si sarebbe potuto
parlare di tentato omicidio neppure se fosse stato colpito un punto della
carrozzeria». Tanto più che, proprio in ragione della verosimile dimestichezza
del D’Iorio nell’uso di armi, esplodendo un colpo di pistola da meno di 20 metri

Il difensore dell’imputato lamenta poi la ritenuta configurabilità nel caso in
esame dell’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, non risultando la
prova di alcuna finalità delle condotte contestate, strumentale a favorire clan
camorristici, nonché della mancata concessione al prevenuto delle attenuanti
generiche, sul solo e apodittico presupposto della valutazione negativa della
personalità del D’Iorio.
2.2 L’Avv. Giuseppe Ricciulli, ancora nell’interesse del D’Iorio, si duole
dell’affermazione di penale responsabilità del prevenuto in ordine al tentato
omicidio, frutto di erronea applicazione dell’art. 56 cod. pen. in quanto nel caso
in esame non potrebbe dirsi ricorrente il requisito dell’idoneità ed univocità degli
atti posti in essere dall’imputato in vista dell’evento morte di taluno dei
Carabinieri. Ribaditi gli stessi argomenti del codifensore in punto di non
rinvenimento del proiettile e di oggettività del dato che vide non solo le vittime,
ma anche la vettura su cui viaggiavano, non attinte dal colpo di pistola, l’Avv.
Ricciulli censura la sentenza impugnata per non avere riconosciuto decisività ad
elementi incontestabili quali la mancata reazione dei militari all’azione aggressiva
(essi avrebbero risposto al fuoco, se avessero percepito quello sparo come
realmente indirizzato verso le loro persone) e la scelta del D’Iorio di darsi subito
dopo alla fuga senza esplodere altri colpi, pur avendo a disposizione altre 7
cartucce nel serbatoio.
In punto di elemento soggettivo, in definitiva, nel caso concreto potrebbe al
più ravvisarsi in capo al D’Iorio il dolo eventuale, per pacifica giurisprudenza di
legittimità non compatibile con il tentativo.
Circa il possesso dell’arma, la difesa segnala che nella stessa ricostruzione in
fatto la Corte territoriale individua in una materiale apprensione dello stesso
08/07/2008 presso la carrozzeria di un pregiudicato il momento in cui il D’Iorio
iniziò a detenere la pistola: a quel punto, egli si trovò a disporne nello stesso
contesto temporale nel quale iniziò anche la condotta di porto, nella quale la
detenzione avrebbe dovuto essere assorbita. Peraltro, la sentenza sarebbe
affetta da contraddittorietà per la evidente disparità di trattamento del D’ orlo

o,
g.14
,
41

5

con finalità lesive avrebbe sicuramente attinto il bersaglio.

rispetto al coimputato Romano, in favore del quale il predetto assorbimento
risulta in effetti riconosciuto.
L’Avv. Ricciulli riporta a sua volta la frase pronunciata dal M.Ilo Giordano
(“D’Iorio, siamo Carabinieri”) per inferirne l’impossibilità di ritenere provata la
consapevolezza dell’imputato di trovarsi di fronte a militari nel compimento dei
doveri di istituto.
Si duole infine sia della mancata concessione al prevenuto delle circostanze
attenuanti generiche, fondata su mere clausole di stile ed attraverso un generico

contrario, dell’aggravante di cui al già ricordato art. 7, che avrebbe dovuto
richiedere prova certa del dolo specifico di agevolare un’associazione di tipo
mafioso/camorristico.

3. Propone altresì ricorso il difensore di Antonio Romano, deducendo
inosservanza ed erronea applicazione delle norme incriminatrici contestate
all’imputato, nonché mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.
La difesa rileva che le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale per
giungere all’affermazione della penale responsabilità del Romano si fondano sulla
presunta finalità estorsiva delle condotte programmate e poste in essere dal
prevenuto – unitamente al D’Iorio ed a tale Coppola, nelle more deceduto nella giornata dell’08/07/2008, senza però considerare che in primo grado era
stata in effetti contestata una fattispecie di tentata estorsione aggravata, cui
aveva fatto seguito l’assoluzione (anche) dello stesso Romano. I giudici di
secondo grado avrebbero dovuto pertanto considerare che, venendo meno la
prospettiva di utilizzare in concreto l’arma di cui si discute per finalità di
intimidazione, visto che il porto dell’arma era inizialmente contestato come
aggravato ex art. 61 n. 2 cod. pen. in ragione della strumentalità verso la
successiva condotta estorsiva, veniva contemporaneamente a cadere la
necessità logica che i soggetti diversi dal D’Iorio fossero a conoscenza del
possesso di una pistola da parte sua: tanto più che le parole con le quali il
D’Iorio anticipava nei giorni precedenti la volontà di utilizzare armi erano state
pronunciate nel corso di colloqui con persone diverse da Antonio Romano.
Parimenti illogica appare la motivazione della sentenza nella parte in cui
fornisce la lettura del colloquio concernente l’avvenuta apprensione della pistola
da parte del D’Iorio, con la successiva richiesta al Romano se avesse voluto
tenerla lui: ad avviso della difesa, visto che in tutte le altre conversazioni il
D’Iorio non aveva adottato alcuna cautela, tanto da parlare apertis verbis di
sparatorie e propositi di violenza, sarebbe irragionevole opinare che solo in
quella circostanza egli si fosse premurato di utilizzare un frasario criptato. Era

richiamo ai precedenti penali del D’Iorio, sia della ritenuta configurabilità, al

peraltro dimostrato che il Romano fosse quella mattina alla guida del veicolo,
come risultante da altre intercettazioni ambientali, sì da non poter ipotizzare che
egli fosse in grado al contempo di custodire, preparare o caricare l’arma.
Il ricorrente si duole altresì della riconosciuta configurabilità dell’aggravante
prevista dall’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, visto che non risulta fornita prova
alcuna della strumentalità del porto di quella pistola ad azioni di tipo
camorristico: da un lato, pur ammettendo uno status di camorrista in capo al
D’Iorio, questo non potrebbe automaticamente trasmettersi ad eventuali

1’08/07/2008 il Romano fosse a conoscenza di intenti criminosi del D’Iorio, di
valenza camorristica, da realizzare quel giorno, né che egli li avesse comunque
accettati e condivisi.
La difesa contesta inoltre che la pistola di cui al capo d’imputazione potesse
qualificarsi come arma da guerra, trattandosi comunque di arma semiautomatica
a prescindere dal munizionamento utilizzato.
Si duole infine della assoluta carenza di motivazione, nel corpo della
sentenza impugnata, in ordine alla mancata concessione al Romano delle
circostanze attenuanti generiche, che la difesa aveva in subordine
espressamente invocato.

4. La sentenza della Corte di appello di Napoli viene altresì impugnata dal
difensore di Gaetano Soriano, il quale lamenta come i giudici territoriali non
abbiano dato in alcun modo contezza della insussistenza di elementi da cui
inferire l’applicabilità alla fattispecie del disposto di cui all’art. 129 cod. proc.
pen., incombenza che avrebbe dovuto essere rispettata «prima di procedere
all’applicazione della pena concordata».

5. Viene infine proposto ricorso anche nell’interesse di Vincenzo Di Nuzzo, il
cui difensore rappresenta inosservanza ed erronea applicazione della legge
penale, nonché mancanza, contraddittorietà od illogicità della motivazione della
sentenza impugnata con riguardo alla mancata concessione delle circostanze
attenuanti generiche.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi di ricorso presentati nell’interesse del D’Iorio
parzialmente fondati.

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sono solo

concorrenti con lui in qualsivoglia reato; dall’altro, non può dirsi dimostrato che

Li In ordine al reato sub El), ritiene questa Corte che non possa
condividersi la tesi difensiva secondo la quale la detenzione della pistola indicata
in rubrica avrebbe dovuto intendersi assorbita nella diversa ed ulteriore condotta
di porto in luogo pubblico della stessa arma. Correttamente, la sentenza
impugnata segnala infatti che va disattesa «la richiesta difensiva di assorbimento
del reato di detenzione in quello di porto, risultando provato che la pistola era
già in precedenza detenuta dall’imputato, stanti i suoi riferimenti alla stessa ed
allo sparare anche nelle conversazioni dei giorni antecedenti». L’argomento è

inequivocità potrà tornarsi fra breve – che videro protagonista l’imputato il 6 e 7
luglio del 2008, vale a dire uno o due giorni prima del suo arresto: egli parlava
liberamente di dover “schiattare la pistola in testa” a qualcuno, di voler sparare
ad un uomo non meglio identificato non appena costui gli avesse aperto la porta
e ad un altro in bocca, per poi aggiungere che avrebbe sparato a tutti quanti,
cominciando dal primo e finendo con l’ultimo.
Perciò, è del tutto lineare e logico pervenire alla conclusione che il ricorrente,
almeno da 48 ore, sapesse di poter disporre di un’arma, che egli si era
evidentemente procurato per poi darla in custodia a qualcuno (forse presso la
carrozzeria nelle cui vicinanze ebbe a sostare la mattina dell’8 luglio, come
parimenti ricostruito nella sentenza della Corte territoriale): ed è pertanto dal
momento di quell’affidamento in custodia, o comunque dalla acquisizione della
conoscenza che il materiale detentore della pistola ne era entrato effettivamente
in possesso, che egli iniziò a concorrere in quella detenzione. Del resto, visto il
programma di effettuare 1’8 luglio una serie di visite presso soggetti da
ricondurre a più miti consigli, come preannunciato nelle telefonate, è nella logica
delle cose che il D’Iorio si fosse premurato in anticipo di poterlo fare con il
supporto di un’arma quale strumento di intimidazione, e non ne parlasse dunque
al telefono come mera possibilità, senza ancora sapere come e dove andarsene a
cercare una.
E’ invece del tutto irragionevole sostenere, come fa uno dei difensori del
prevenuto, che i cinque anni di pregressa restrizione in carcere del D’Iorio
rappresenterebbero «la prova negativa di una precedente condotta di detenzione
di quell’arma» (tanto più che, nella pagina successiva dello stesso ricorso, si
precisa che la scarcerazione era comunque avvenuta da qualche mese).
1.2 In ordine all’addebito di tentato omicidio, contestato al capo E2, la Corte
di appello reputa che il D’Iorio agì animato da dolo alternativo, come tale
compatibile con la disciplina del tentativo ex art. 56 cod. pen., sottolineando in
proposito sia la micidialità del mezzo usato che le modalità della condotta,

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assolutamente ineccepibile, visto il tenore delle telefonate – sulla cui

realizzata mediante l’esplosione di un colpo di pistola da meno di 20 metri di
distanza, all’indirizzo del parabrezza di una vettura con all’interno tre persone.
E’ noto come la giurisprudenza di questa Corte abbia più volte affrontato il
tema della compatibilità fra il delitto tentato e il c.d. dolo eventuale, ed anzi è
proprio da tali contributi interpretativi che sono emerse più puntuali elaborazioni
scientifiche sulle forme del dolo, in primis proprio sulla figura del dolo alternativo
che i giudici di merito ritengono aderente alla fattispecie concreta.
Anni addietro, il dibattito registrava pronunce altalenanti della Prima

giuridicamente compatibile soltanto con la forma del dolo intenzionale e non è
quindi configurabile un dolo eventuale di tentativo, poiché l’atto (idoneo)
dev’essere diretto, e cioè rivolto, in modo univoco, alla realizzazione dell’evento
tipico del delitto che l’agente ha avuto di mira. Nella ipotesi del tentativo di
omicidio non può, pertanto, ritenersi univocamente diretta a cagionare la morte
l’azione che non presenti, sotto tale profilo (direzione non equivoca), oggettività
tale da consentire l’individuazione di una corrispondente rappresentazione e
volizione (dolo diretto)» (sentenza n. 999 del 21/10/1970, Cappelli, Rv 117524),
od ancora che «il dolo eventuale non può costituire l’essenza psicologica di un
tentato omicidio, occorrendo invece che l’atto posto in essere dall’agente sia
idoneo e diretto in modo non equivoco all’uccisione della persona presa di mira»
(n. 2592 del 05/11/1971, Fotia, Rv 120856).
Secondo un diverso orientamento, invece, «non sussiste incompatibilità tra il
concetto di “dolo eventuale” e quello di “tentativo”. Pertanto, in materia di
omicidio volontario, ricorre la figura del tentativo quando, attraverso il
compimento di atti obiettivamente idonei, risulti che anche il più grave evento
(morte della vittima) sia stato preveduto e voluto come eventuale conseguenza
della propria azione e non si verifichi per cause indipendenti dalla volontà
dell’agente» (n. 2328 del 06/12/1972, Favaron, Rv 123628); per cui, «secondo
quanto è dato desumere da una corretta interpretazione dell’art. 56, in relazione

Sezione, talora sostenendosi che «la fattispecie del tentativo deve ritenersi

agli artt. 42 e 43 cod. pen. (..), in materia di omicidio ove l’evento letale,
previsto ed accettato quale conseguenza di atti idonei a determinare lesioni o
anche la morte, non si verifichi per cause indipendenti dalla volontà dell’agente,
non può escludersi l’esistenza di una volontà diretta alla realizzazione dell’evento
più grave, integrante l’elemento psichico del tentato omicidio» (n. 6781 del
05/02/1973, Nicotra, Rv 125125).
L’assunto per cui il dolo eventuale doveva ritenersi compatibile con l’istituto
previsto dall’art. 56 cod. pen. si fondava in particolare sulla constatazione
dell’identità di contenuto dell’elemento psicologico tra la fattispecie criminosa
tentata e quella consumata (v. ad esempio la pronuncia, sempre della Prima

410,
1°I
9

Sezione, n. 9748 del 22/03/1977, Catalano, Rv 136569), ancorando chiaramente
i due profili strutturali della idoneità ed univocità degli atti alla materialità della
condotta e non all’elemento soggettivo. Così, venne a consolidarsi l’opinione
che dolo eventuale e delitto tentato potessero ben coesistere: «il requisito della
non equivocità degli atti rispetto all’evento di pericolo si riferisce alla struttura
obiettiva della condotta, mentre sotto il profilo subiettivo il delitto tentato per
nulla si differenzia dal reato consumato, ed in entrambe le ipotesi l’evento può
essere preveduto e voluto o in modo diretto ovvero attraverso una condotta

la previsione che, in base all’esperienza, un risultato era da attendersi,
l’individuo ha compiuto l’azione, vuol dire che egli ha preventivamente approvato
e perciò voluto il risultato medesimo, che può dirsi perciò intenzionale secondo lo
schema di cui all’art. 43, primo comma, cod. pen.» (n. 1904 del 13/11/1980,
Davoli, Rv 147951).
A partire dalla fine degli anni ’70, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità si
preoccupò di delineare una differente ipotesi di volontà delittuosa, appunto
quella di “dolo alternativo”: in alcune pronunce della medesima Prima Sezione la
figura in parola venne semplicemente accomunata a quella di dolo eventuale
sotto l’unica categoria di “dolo indeterminato”, ancora una volta per negarne
l’incompatibilità rispetto al tentativo (v. ad esempio la sentenza n. 944 del
03/11/1978, Morgese, Rv 140928), ma in altre essa era descritta in realtà come
una forma peculiare di dolo diretto, in adesione al primo e più rigoroso
orientamento. Così, venne affermato che «il tentativo deve ritenersi
compatibile soltanto col dolo diretto, anche se alternativo, e non anche col dolo
eventuale, caratterizzato dalla consapevole accettazione dell’eventualità di un
risultato diverso, sostanzialmente estraneo all’intento dell’agente.

Ciò in quanto

ai sensi dell’art. 56 cod. pen. l’atto idoneo deve essere rivolto “in modo non
equivoco” alla realizzazione dell’evento tipico del delitto che l’agente si è
proposto» (n. 13377 del 18/05/1977, Dazzan, Rv 137177).
In concreto, il profilo discretivo fra dolo eventuale e dolo alternativo si
muove sulla falsariga della distinzione concettuale fra possibilità e probabilità: un
conto è addebitare una volontà omicida in capo a chi sta fuggendo dopo aver
commesso un reato e, per garantirsi l’impunità, spara a casaccio all’indirizzo di
chi lo insegue; ben altra cosa è contestare l’intenzione di uccidere a colui che,
nell’atto di scappare, fa fuoco da breve distanza sull’inseguitore, mirando
all’altezza del petto. Infatti, solo del primo soggetto potrebbe dirsi che egli
“accetta il rischio” di procurare la morte come eventualità meramente possibile,
ma il secondo agisce invece nella inequivoca consapevolezza che dalla sua
condotta deriveranno sicuramente o lesioni personali o la morte di colui che

lo

idonea a produrre il risultato costituente l’evento stesso; infatti, se nonostante

viene colpito: portare a compimento l’azione, al di là di quale evento si verifichi
in concreto, rivela allora nel reo una sostanziale indifferenza verso l’uno o l’altro
dei risultati previsti ed accettati.
Non di meno, negli anni ’80 la Prima Sezione continuò ad affermare il
principio che tentativo e dolo eventuale potessero facilmente coesistere (v. ad
esempio le sentenze n. 8244 dell’11/05/1983, Ventrilla, Rv 160661, e n. 11453
dell’11/07/1988, Branda, Rv 179794).
I contributi giurisprudenziali successivi si sono invece orientati nella

principio di legalità) l’incompatibilità fra tentativo e dolo eventuale in senso
stretto, ed affermando con chiarezza che non vi è alcun contrasto logico fra il
delitto tentato e le fattispecie comunque animate da dolo diretto, sia pure
alternativo: e ciò è accaduto in modo sempre più netto da quando l’emergere di
un contrasto di interpretazioni impose l’intervento chiarificatore delle Sezioni
Unite.
Le Sezioni Unite, con una prima pronuncia del 12/10/1993 (n. 748, Cessata,
Rv 195804), precisarono che «in tema di elemento soggettivo del reato, possono
individuarsi vari livelli crescenti di intensità della volontà dolosa. Nel caso di
azione posta in essere con accettazione del rischio dell’evento, si richiede
all’autore una adesione di volontà, maggiore o minore, a seconda che egli
consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell’evento. Nel caso
di evento ritenuto altamente probabile o certo, l’autore, invece, non si limita ad
accettarne il rischio, ma accetta l’evento stesso, cioè lo vuole, e con una
intensità maggiore di quelle precedenti. Se l’evento, oltre che accettato, è
perseguito, la volontà si colloca in un ulteriore livello di gravità, e può
distinguersi fra un evento voluto come mezzo necessario per raggiungere uno
scopo finale, ed un evento perseguito come scopo finale. Il dolo va, poi,
qualificato come “eventuale” solo nel caso di accettazione del rischio, mentre
negli altri casi suindicati va qualificato come “diretto” e, nell’ipotesi in cui
l’evento è perseguito come scopo finale, come “intenzionale”».
Tornate nuovamente ad occuparsi del problema, ribadirono poi (sentenza n.
3571 del 14/02/1996, Mele, Rv 204167) che «sussiste il dolo eventuale quando
l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la
concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e,
nonostante ciò, agisce accettando il rischio di cagionarle; quando invece
l’ulteriore accadimento si presenta all’agente come probabile, non si può ritenere
che egli, agendo, si sia limitato ad accettare il rischio dell’evento, bensì che,
accettando l’evento, lo abbia voluto, sicché in tale ipotesi l’elemento psicologico
si configura nella forma di dolo diretto e non in quella di dolo eventuale».

11

fp,

direzione opposta, “recuperando” in una logica più garantiste (e rispettosa del

Tutte le pronunce seguenti si muovono nel solco così tracciato, ed è stato
così affermato che «quando l’alternativa accusatoria si pone tra due delitti contro
la vita e l’incolumità individuale, che differiscono solo per la gravità dell’evento,
come la lesione personale volontaria e l’omicidio, e si sia verificato l’evento meno
grave, può prospettarsi un problema di dolo eventuale o indiretto solo se risulta
accertato che l’evento meno grave è quello perseguito come Scopo finale, ossia
con dolo intenzionale, con accettazione secondaria del rischio che possa anche
verificarsi quello più grave. Il problema del dolo indiretto concernente il

di tale intensità da non potersi distinguere se la volontà dell’agente fosse volta a
provocare la lesione o la morte» (Cass., Sez. V, n. 2594 del 18/11/1993,
Cutruzzolà, Rv 197281).
Sulla stessa linea si pone altresì la Prima Sezione, secondo la quale «il dolo
si configura nella forma eventuale quando il soggetto attivo, ponendo in essere
una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del
verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce
accettando il rischio di cagionarle; quando, invece, l’ulteriore accadimento si
presenta all’agente come probabile, non si può ritenere che egli si sia limitato
ad accettare il rischio dell’evento, bensì che, accettando l’evento, lo abbia anche
voluto, sicché in tale ipotesi l’elemento psicologico si configura non nella forma di
dolo eventuale, ma in quella di dolo diretto, pacificamente e pienamente
compatibile con il tentativo» (n. 6358 del 12/11/1997, Tair, Rv 209607).
Per una più puntuale distinzione delle nozioni più volte evocate, è stato poi
rilevato che «in tema di elemento psicologico del reato, il dolo alternativo
sussiste se l’agente si rappresenta e vuole indifferentemente l’uno o l’altro degli
eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché
già al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato egli deve
prevederli entrambi. Si ha, invece, dolo eventuale allorquando l’agente, ponendo
in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità
del verificarsi di una diversa conseguenza della propria condotta e,
ciononostante, agisca accettando il rischio di cagionarla. Ne consegue che il dolo
eventuale non è configurabile nel caso di delitto tentato, in quanto è
ontologicamente incompatibile con la direzione univoca degli atti compiuti nel
tentativo, che presuppone il dolo diretto. Al contrario, vi è compatibilità tra
tentativo penalmente punibile e dolo alternativo, poiché la sostanziale
equivalenza dell’uno e dell’altro evento, che l’agente si rappresenta
indifferentemente, entrambi come eziologicamente collegabili alla sua condotta e
alla sua cosciente volontà comporta che questa forma di dolo è diretta, atteso

12

tentativo del reato più grave non può, invece, porsi allorché la condotta sia stata

che ciascuno degli eventi è ugualmente voluto dal reo» (Cass., Sez. I, n. 385 del
19/11/1999, Denaro, Rv 215251).
Più di recente, anche questa Sezione ha avuto modo di precisare che «il dolo
alternativo è contraddistinto dal fatto che il soggetto attivo prevede e vuole
alternativamente, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli
eventi (nella specie morte o grave ferimento della vittima) ricollegabili alla sua
condotta, con la conseguenza che esso ha natura di dolo diretto ed è compatibile
con il tentativo» (Cass., Sez. V, n. 6168 del 17/01/2005, Meloro, Rv 231174).

oramai nella medesima, consolidata direzione: secondo la sentenza n. 27620 del
24/05/2007, Mastrovito, Rv 237022, «in tema di delitti omicidiari, deve
qualificarsi come dolo diretto, e non meramente eventuale, quella particolare
manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo, che sussiste quando il
soggetto attivo prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o
l’altro degli eventi (nella specie, morte o grave ferimento della vittima)
causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, con la
conseguenza che esso ha natura di dolo diretto ed è compatibile con il
tentativo»; la pronuncia n. 44995 del 14/11/2007, Strimaitis, Rv 238705,
afferma che «il dolo eventuale non é configurabile nel caso di delitto tentato,
poiché, quando l’evento voluto non sia comunque realizzato e quindi manchi la
possibilità del collegamento ad un atteggiamento volitivo diverso
dall’intenzionalità diretta, la valutazione del dolo deve avere luogo
esclusivamente sulla base dell’effettivo volere dell’autore, ossia della volontà
univocamente orientata alla consumazione del reato, senza possibilità di
fruizione di gradate accettazioni del rischio, consentite soltanto in caso di evento
materialmente verificatosi; il 31/03/2010 (sentenza n. 25114, Vismara, Rv
247707) si è ribadito ancora che «il dolo eventuale non è compatibile con il
delitto tentato» e che «l’ipotesi del tentativo richiede il dolo diretto, al più nella
forma del dolo alternativo».
L’excursus giurisprudenziale appena illustrato consente ora di inquadrare nel
modo più appropriato le peculiarità della fattispecie concreta: stante la necessità
di una rappresentazione e volontà indifferenti verso la volontà di ferire o quella
di uccidere, per potersi parlare di dolo diretto, compatibile con il tentativo, può
dirsi che il D’Iorio agì rappresentandosi la morte di uno dei militari all’interno
dell’auto come mera eventualità (nel novero dunque del semplicemente
possibile), oppure che quell’evento fu da lui davvero considerato come
ragionevole e probabile conseguenza della propria condotta, meramente
alternativa rispetto a quella del ferimento di coloro che si trovavano sulla sua
linea di tiro ?

13

I successivi arresti della giurisprudenza della Prima Sezione si muovono

Per rispondere all’interrogativo appena riportato nei termini di cui al secondo
corno del dilemma, i giudici di merito si soffermano sulla direzione del colpo,
orientato verso organi vitali delle persone offese, visto che venne sparato da
breve distanza a braccio teso verso il parabrezza anteriore della vettura e
dunque avendo di mira il torace o il volto dei militari. Sia il Tribunale che la
Corte di appello aggiungono che i bersagli suddetti non furono colpiti
esclusivamente per un fortuito errore o per la manovra di emergenza che il
conducente dell’auto ebbe a compiere.

debbono definirsi illogiche e contraddittorie: in vero, il D’Iorio non colpì le vittime
che si assumono programmate ma non attinse nemmeno la carrozzeria dell’auto
nel cui abitacolo le vittime medesime trovavano posto, compiendo pertanto un
errore di tiro a dir poco grossolano, da quella distanza; errore del tutto
irragionevole per un soggetto che – come evidenziato ad altri fini nella stessa
motivazione della sentenza impugnata – era noto come “Peppe ‘o killer”, perciò
senz’altro aduso a maneggiare armi da fuoco anche in situazioni concitate. Non
sembra possibile, in altri termini, ammettere che l’imputato volesse
indifferentemente uccidere o ferire qualcuno, se quel qualcuno aveva intorno a
sé l’intero abitacolo e la carrozzeria di un’autovettura, neppure sfiorati dal
proiettile; verosimilmente, come segnalato da uno dei difensori del ricorrente,
nella situazione descritta «forse non si sarebbe potuto parlare di tentato omicidio
neppure se fosse stato colpito un punto della carrozzeria», visto che
quell’eventuale sparo – se rivolto ad attingere uno degli occupanti – avrebbe
comunque mancato il bersaglio di qualche buon centimetro.
La Corte territoriale ritiene altresì che il D’Iorio non esplose altri colpi in
quanto, se lo avesse fatto, si sarebbe esposto ad una reazione armata dei
Carabinieri ed al probabile arrivo di loro rinforzi, vedendosi pregiudicata la fuga:
ma anche in questo caso va rilevata la illogicità e contraddittorietà dell’assunto.
Non si vede perché – per quanto potesse immaginare l’imputato in quel
momento – i tre militari non avrebbero dovuto reagire già dinanzi a quel primo
colpo di pistola, seppure rimasto isolato, né si comprende quali difficoltà o ritardi
il D’Iorio avrebbe avuto nel proposito di darsela a gambe ove si fosse
determinato a premere altre due o tre volte il grilletto, visto che per farlo
avrebbe impiegato pochissimi secondi.
Si impone pertanto una rivalutazione del problema della sussistenza o meno
dell’animus necandi in capo al ricorrente, sulla base dei principi sopra affermati.
1.3 Debbono invece rigettarsi gli ulteriori motivi di ricorso sviluppati
nell’interesse del D’Iorio: la condotta sub E3, sia pure se contestata in via di
concorso formale con l’addebito di cui al capo precedente perché realizzata con

14

Si tratta però di osservazioni che, calate nella peculiarità del caso in esame,

un’unica azione, non può che qualificarsi – almeno – in termini di resistenza a
pubblico ufficiale ex art. 337 cod. pen., quand’anche si pervenisse alla
conclusione che l’imputato non perseguì il proposito di uccidere alcuno dei
Carabinieri, ma solo opporsi al compimento dei loro doveri istituzionali;
congruamente motivata dalla Corte di appello, in

unicum

rispetto alle

argomentazioni adottate dal giudice di prime cure, la ricorrenza – con riguardo
ai reati di detenzione e porto dell’arma – dell’aggravante di cui all’art. 7 del O.
n. 152 del 1991, atteso che i delitti de quibus furono posti in essere in vista

rendersi conto delle gerarchie esistenti sul territorio; altrettanto incensurabile in
sede di legittimità risulta la negazione delle circostanze attenuanti generiche,
all’esito della valutazione sfavorevole della personalità del prevenuto che viene
desunta anche da elementi ulteriori rispetto alla gravità degli addebiti, stante il
richiamo agli allarmanti e plurimi precedenti penali a suo carico.

2. Quanto al ricorso avanzato nell’interesse del Romano, se ne deve rilevare
la fondatezza, non risultando che la Corte di appello abbia validamente e
completamente confutato i contrari argomenti che il Tribunale di Nola aveva
evidenziato per giungere ad una pronuncia assolutoria.
I giudici di primo grado, infatti, avevano segnalato l’equivocità della lettura
della conversazione in cui il D’Iorio, già in auto e certamente in possesso della
pistola, si era rivolto al Romano dicendogli di essere andato a “pigliare
un’imbasciata”, invitandolo anzi a portarla lui: ciò perché, come si legge a pag.
201 della sentenza del Tribunale, «tutte le conversazioni avvenute all’interno
dell’autovettura monitorata sono caratterizzate da un linguaggio autentico, e mai
si è colto da parte degli interlocutori un qualche intento di rendere meno
comprensibile l’oggetto del discorso. Insomma sembra più che chiaro, alla luce
di quel che il D’Iorio diceva, che il medesimo non aveva il benché minimo
sospetto di essere intercettato; pertanto, non si comprende il motivo per il quale
il D’Iorio avrebbe dovuto usare solo con riferimento alla pistola – senza dubbio
portata dal D’Iorio e dallo stesso utilizzata – un linguaggio criptico».
A tale passaggio logico la Corte di appello non dedica alcuna analisi diretta,
ritenendo invece di soffermarsi sul rilievo che il D’Iorio aveva, già nelle
conversazioni intercettate nei giorni precedenti 1’8 luglio 2008, manifestato che i
suoi piani per la giornata prevedevano il verosimile ricorso all’uso di un’arma.
Tuttavia, secondo la illustrazione che la stessa sentenza impugnata offre del
contenuto di quelle conversazioni del 6 e 7 luglio, non risulta che il Romano fosse
mai stato uno degli interlocutori del D’Iorio: perciò, se è senz’altro vero che
quest’ultimo era andato palesando apertis verbis propositi di aggressioni ed

15

dell’adozione di iniziative intimidatorie nei confronti di chi avrebbe dovuto

ammazzamenti, parlando chiaramente di pistole da usare, non lo aveva però
fatto con Antonio Romano.
L’argomento evidenziato dalla Corte territoriale, perciò, oltre che non idoneo
a paralizzare la valenza logica di quello segnalato dal Tribunale di Noia, risulta ex
se contraddittorio. Va peraltro considerato che il tenore a dir poco esplicito di
quelle intercettazioni precedenti offre anzi un ulteriore elemento di riscontro alla
ricostruzione dei giudici di prime cure: si trattava infatti, almeno in alcuni casi, di
intercettazioni telefoniche, e risponde a fatto notorio la circostanza che al

vis (ergo, per quanto il D’Iorio potesse senz’altro sapere che in un’autovettura
non sarebbe stato difficile sistemare apparati di captazione, tanto da indurlo ad
un linguaggio convenzionale almeno in quella sola occasione, non si
spiegherebbe a fortiori il suo comportamento disinvolto al telefono poche ore
prima).
Alla luce dei principi più volte affermati dalla giurisprudenza di questa Corte
sulla necessità che la riforma in appello di un’assoluzione in primo grado si fondi
non già su una diversa e maggiormente plausibile valutazione di elementi già
vagliati, ma abbia forza persuasiva idonea a fugare ogni dubbio ragionevole (v.,
ex plurimis, Cass., Sez. VI, n. 1266 del 10/10/2012, Andrini), deve pertanto
essere oggetto di annullamento con rinvio anche la posizione del Romano, per un
nuovo esame in cui si dia completa contezza – ed eventuale confutazione – degli
elementi già evidenziati dal Tribunale di Noia: deve darsi atto che gli ulteriori
motivi di ricorso avanzati nell’interesse di quest’ultimo afferiscono alla
configurabilità o meno di circostanze di segno contrario, e vanno pertanto
considerati assorbiti.

3. In ordine ai ricorsi del Soriano e del Di Nuzzo, se ne deve apprezzare ictu
ocull l’estrema genericità, con la conseguente declaratoria di inammissibilità di

entrambi.
Nell’interesse del Soriano non si segnalano neppure quali sarebbero state le
ragioni, rilevanti ex art. 129 cod. proc. pen., idonee a determinare l’invocata
sentenza di proscioglimento; il difensore del Di Nuzzo si limita a dolersi della
mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, senza precisare per
quali motivi queste avrebbero dovuto essergli invece riconosciute.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., segue pertanto la condanna di
ciascuno dei due imputati al pagamento delle spese del procedimento, nonché ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità,
riconducibile alla volontà dei ricorrenti – al pagamento in favore della Cassa

16

telefono si parli con cautela maggiore rispetto a quanto accada in colloqui vis – a-

delle Ammende della somma di € 1.000,00, così equitativamente stabilita in
ragione dei motivi dedotti.

P. Q. M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di D’Iorio Giuseppe, limitatamente
all’addebito di tentato omicidio, e nei confronti di Romano Antonio, con rinvio ad

Rigetta nel resto il ricorso del D’Iorio.
Dichiara inammissibili i ricorsi di Di Nuzzo Vincenzo e Soriano Gaetano, e
condanna i ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese processuali e
della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso il 30/11/2012.

altra Sezione della Corte di appello di Napoli.

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