Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 23489 del 09/04/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 23489 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: PEZZELLA VINCENZO

REGISTRO GEN.
N. 34858/2013
SENTENZA

sul ricorso proposto da
MAVILLA MARCO N. il 29/12/1966

avverso la sentenza n. 5191/2012 CORTE D’APPELLO DI TORINO
del 15/04/2013

sentita la relazione svolta dal consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA;
sentite le conclusioni del PG Dott. GIOACCHINO IZZO che ha chiesto dichiararsi
inammissibile il proposto ricorso

Udito, per la parte civile Agenzia delle Entrate, l’Avvocato dello Stato Bruno Dettori, che ha
depositato conclusioni scritte e nota spese cui si è riportato.

Data Udienza: 09/04/2014

r

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Torino, pronunciando nei confronti dell’odierno ri-

corrente MAVILLA MARCO, con sentenza del 15.04.2013, confermava la sentenza
del Tribunale di Verbania del 7.02.2012, condannandolo al pagamento delle spese processuali del grado nonché al rimborso delle spese di parte civile.
Il Tribunale di Verbania aveva dichiarato l’imputato responsabile del reato
previsto dall’art. 4 D.L.vo n. 74/00 perché, al fine di evadere le imposte sui redditi ed iva, indicava nelle dichiarazioni per gli anni dal 2003 al 2005, elementi at-

ad € 103.291,38, ed ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti
all’imposizione superiore al 10% degli elementi attivi indicati in dichiarazione,
fatto commesso in Gravellona Toce, nella date di presentazione delle dichiarazioni, rispettivamente 17.09.2004, 08.09.2005 e 23.10.2006, e, concesse la attenuanti generiche, lo condannava alla pena di anni 2 e mesi 4 di reclusione oltre
al pagamento delle spese processuali.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo

del proprio difensore di fiducia, l’imputato, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art.
173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
a. mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione art. 606 co. 1 lett. e) cod. proc. pen.
Il ricorrente deduce che il processo a suo carico è stato preceduto da un collegato procedimento tributario in cui l’accertamento dell’imposta evasa è stato
effettuato facendo ricorso alle cosiddette presunzioni tributarie. Di conseguenza
il processo penale si è rivelato un procedimento indiziario senza presentazione di
nessuna prova diretta.
La Corte, secondo la ricostruzione operata nel ricorso, avrebbe formalmente
evidenziato essere non necessario di ricorrere alle presunzioni tributarie, ma, di

tivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, con imposta evasa superiore

fatto, avrebbe ripercorso l’itinerario seguito dalla Guardia di Finanza facendolo
proprio.
Nessuna prova sarebbe fornita circa la riconducibilità dei versamenti alla
compravendita di orologi, mentre la consulenza di parte prodotta, non sarebbe
stata ritenuta idonea a documentare la provenienza delle somme da elargizioni
del padre dell’imputato.
b. inosservanza ovvero erronea applicazione di legge – art. 129 cod. proc.
pen. – art.606, co. 1, lett. b cod. proc. pen.
Il ricorrente deduce che, nel caso di specie, trattandosi di un procedimento
solo indiziario, sarebbe stato necessario il pieno rispetto dell’art.193 cod. proc.

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pen., dovendosi accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la presenza di dichiarazioni infedeli. Detto accertamento non sarebbe avvenuto, in quanto la Corte territoriale non avrebbe in alcun modo considerato i periodici versamenti effettuati dal padre dell’imputato sul conto corrente dello stesso.
L’errore della Corte nella valutazione della prova sarebbe stato reso palese
dalla tesi sostenuta che l’elaborato documentale non fosse idoneo a provare
l’origine delle somme rinvenute sui conti correnti, senza individuare, allo stesso
tempo, riscontri alla tesi accusatoria, al di là dei dati alla base delle presunzioni

Chiede, pertanto, la riforma o l’annullamento della sentenza impugnata

3. Resiste in giudizio, depositando memorie scritte (sia per l’udienza del
22.11.2013, poi rinviata, che per quella odierna), l’Agenzia delle Entrate, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità del ricorso per i seguenti motivi:
a. Rileva la correttezza della motivazione fondata su plurimi elementi che
giustificano il convincimento del Giudice.
La decisione, infatti, non deriverebbe solo dalla documentazione bancaria,
ma anche dal tenore di vita dell’imputato, dalle modalità di svolgimento
dell’attività commerciale e dalla sua indisponibilità ad una ricostruzione dei fatti
idonea a scagionarlo.
Il riferimento ad una perizia da cui risulterebbe che i versamenti sui conti
correnti proverrebbero dal padre sarebbe una questione inammissibile perché attinente al profilo di fatto e non oggetto di appello.
b.

Rileva l’assoluta infondatezza della violazione dell’art.192 co. 2 cod.

proc. pen., in quanto il quadro probatorio sarebbe fondato proprio su indizi gravi,
precisi e concordanti.
Chiede, pertanto, la dichiarazione di inammissibilità e/o rigetto del ricorso

tributarie.

con condanna alle spese nella misura di C 2.000,00.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi meglio specificati in premessa appaiono tutti manifestamente
infondati e pertanto va dichiarata l’inammissibilità del proposto ricorso.

2. La Corte territoriale motiva ampiamente in relazione alla prova della responsabilità penale dell’imputato, che si fonda non solo sulle risultanze del verbale di accertamento della Guardia di Finanza, ma anche su un quadro indiziario

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connotato da gravità, precisione e concordanza in ordine al fatto che il Mavilla
esercitasse al nero un’attività di compravendita di orologi e di preziosi.
Nella sentenza impugnata si risponde, con motivazione logica e coerente,
e pertanto immune da vizi di legittimità, alla doglianza, già presentata in sede di
gravame di merito, ed oggi riproposta, secondo cui la condanna sarebbe basata
sulle cosiddette presunzioni tributarie.
Ebbene la Corte d’appello di Torino, dopo aver ricordato che in ogni caso le
presunzioni tributarie si sarebbero potute utilizzare come indizi, con la necessità

evidenzia come nel caso di specie non vi sia stata alcuna necessità di farvi ricorso, diversamente da quanto opinano sia il tribunale che l’appellante.
A riprova di ciò, nel provvedimento impugnato viene ripercorso l’iter seguito dalla Guardia di Finanza per pervenire alla redazione del verbale di constatazione poi fatto proprio prima dal pubblico ministero e poi dal giudice di prime cure.
Sia nel primo verbale, dal quale sono poi originate le imputazioni iniziali
(quelle a carico sia del Mavilla che del Parmegiani, entrambi nella qualità di amministratori della Tempi D’oro e il Mavilla anche della Ginevra), che in quello successivo e che ha dato luogo alla definitiva imputazione (a carico del solo Mavilla
come persona fisica esercente la compravendita abituale di orologi preziosi) la
Guardia di Finanza ha preso in considerazione le risultanze degli accertamenti
bancari. Più esattamente ha rivolto la sua attenzione alle movimentazioni in entrata di due diversi conti correnti, elencandole, previa suddivisione per conto corrente e per anno d’imposta, pervenendo ai risultati illustrati in sentenza secondo
cui:
• sul conto corrente numero 316000 acceso sulla Banca Popolare di Intra e
intestato a Mavilla Marco sono stati riscontrati in entrata:
a) per l’anno 2003 € 689.512,23;
b) per l’anno 2004 E 772.784,99;

di sottoporli ai riscontri di cui all’articolo 192 comma secondo cod. proc. pen.,

c) per l’anno 2005 € 1.727.001,82;
d) per l’anno 2006 € 693.546.
• sul conto corrente 178672 acceso presso la Banca Popolare di Intra e intestato a Mavilla Marco e Poletti Maria:
a) per l’anno 2003 € 20.500;
b) per l’anno 2004 € 3483;
c) per l’anno 2005 € 6900;
d) per l’anno € 2006 € 21.500.
La Guardia di Finanza accertava poi che vi erano state ulteriori operazioni
effettuate dal Mavilla nell’anno 2006 presso la Banca Popolare di Intra ma non
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facenti capo a nessuno dei conti correnti a lui intestati, né a quelli della moglie o
della Tempi D’oro. Si trattava di operazioni extra conto per un importo complessivo di € 351.000.
Nel provvedimento impugnato si argomenta in modo logico e coerente sul
fatto di come appaia evidente che, a fronte di questa ragguardevole mole di versamenti le denunce pari a zero redditi da impresa presentate all’odierno ricorrente fossero assolutamente incongrue, con evidente ampio superamento delle soglie di punibilità previste dall’articolo 4 del decreto legislativo 74 del 2000.

che solo il 30% dello stesso fosse stato sottratto all’imposizione, si sarebbe già al
di sopra delle soglie di punibilità.

3. Nella sentenza impugnata si evidenzia, peraltro, come non sia solo l’assenza di prova contraria a portare a ritenere che quelli indicati fossero redditi al
nero per compravendite di orologi e preziosi soggetti ad Iva – il che, se fosse,
avrebbe potuto far dire che la sentenza si fondava effettivamente su presunzioni
tributarie- ma come determinanti siano stati i riscontri forniti dal tenore di vita
della famiglia Mavilla, la quale vive un palazzo sito in una zona di pregio del centro di una città come Milano, si avvale di una collaboratrice domestica, fa frequentare alla figlia una scuola privata con connesso pagamento di una cospicua
retta mensile, possiede un’autovettura di grossa cilindrata, trascorre le vacanze
in Costa Smeralda.
La Corte territoriale pone poi l’accento, quale indice di evasione fiscale, sulle stesse modalità di svolgimento dell’attività commerciale posta in essere la
quale: a) non ha una sede, ma viene esercitata solo in uno show room all’interno
di uno degli alberghi più prestigiosi di Milano, ove peraltro non vi era una mera
esposizione degli orologi e dei preziosi ma veniva posto in essere un abusivo
commercio; b) opera pressoché esclusivamente per contanti e per importi rilevantissimi; c) non disdegna di concludere gli affari in luoghi inconsueti, quale il
confine italo svizzero.
Si tratta, dunque, viene ancora sottolineato nella sentenza impugnata, non
di applicare una presunzione tributarie ma semplicemente di tener conto di fatti
incontrovertibili mente accertati.

4. Va ricordato peraltro per quanto riguarda le presunzioni tributarie, che
per giurisprudenza consolidata di questa Corte Suprema in materia di reati
tributari, il giudice, nella formazione del suo convincimento, è certamente tenuto
all’osservanza dei canoni giuridici che in linea generale governano l’acquisizione,
la verifica e la valutazione dei dati probatori; e, perciò, in mancanza di elementi
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Va aggiunto in questa sede che il movimento in entrata è tale che, se an-

oggettivi, – documenti, deposizioni testimoniali ecc. – non può ignorare la
cosiddetta prova logica e neppure le presunzioni secondo la normativa tributaria,
avvalendosi, in tal caso, dei dati ontologici, processualmente acquisiti, con una
libera valutazione ai fini probatori anche sulla base delle regole di esperienza,
senza rimettersi alle valutazioni effettuate da parte degli uffici finanziari.
Ne deriva la possibilità di ricorso alla presunzione – intesa come particolare
disciplina probatoria che consente, per la ricostruzione di un maggior reddito, di
ritenere esistenti determinati fatti in via induttiva – quale accertamento
1973, n. 600 in presenza di determinate violazioni di obblighi tributari: anche se,
ovviamente, dovendo essere oggetto di autonoma considerazione critica da parte
del giudice penale, non può essa svolgere nel processo penale quella stessa
funzione “cogente” del convincimento del giudicante che, invece, riveste nella
valutazione del giudice tributario (così questa sez. 3, n. 1576 del 3.5.1995, P.M.
in proc. Spini, rv. 202479).
E’ stato poi precisato che, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare legittimamente ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della determinazione dell’ammontare
dell’imposta evasa, nonché ricorrere all’accertamento induttivo dell’imponibile
quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute (così questa sez. 3, n. 5786 del 18.12.2007 dep. 6.2.2008, D’Amico, rv.
238825).
E’ ancora più recentemente è stato ribadito che ai fini del superamento
della soglia di punibilità di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, il giudice può
legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto
dagli uffici finanziari (sez. 3, n. 24811 del 28.4.2011, Rocco, rv. 250647), ivi
compreso quello operato mediante gli studi di settore (sez. 3, n. 40992 del
14.5.2013, Ottaiano, rv. 257619).
5. Quanto alla questione attinente la mancata valutazione da parte del giu-

dice del merito in ordine alla circostanza che le somme in questione fossero provento di elargizioni a suo favore del Mavilla da parte del padre, va considerato
che si tratta di una inammissibile sollecitazione ad una rivalutazione di elementi
di fatto evidentemente già valutati dai giudici di merito.
Sul punto va evidenziato in ogni caso che aveva già ampiamente motivato il
giudice di primo grado, evidenziando come, peraltro, l’atto notarile nel quale Mavilla Giorgio avrebbe confermato i finanziamenti e le elargizioni di danaro fatte al
figlio e confluite sul conto corrente dello stesso dovesse ritenersi presunto, in
quanto non risultava tra le produzioni difensive.
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cosiddetto induttivo espressamente facoltizzato dall’art. 39 d.P.R. 29 settembre

Il Tribunale di Verbania aveva anche confutato (cfr. pagg. 6-7) confutato le
argomentazioni della perizia tecnico-contabile prodotta dalla difesa evidenziando
come la stessa risultasse “atto, nel suo contenuto, parziale, perciò criticabile, in
quanto fondato per lo più su documentazione privata di cui viene solo fatta menzione, ma non prodotta o allegata, e quindi non verificabile, ovvero su informazioni rilasciate dallo stesso Mavilla Giorgio”.
La questione riguardante la perizia, riproposta in questa sede, si palesa comunque inammissibile in quanto non dedotta specificamente come motivo d’ap-

Sul punto va comunque aggiunto che il giudice di secondo grado, nell’effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è in ogni caso chiamato ad un puntuale riesame di quelle
questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima
giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici,
non specificamente e criticamente censurate.
Le censure, sollevate dal ricorrente nel secondo motivo di ricorso, non
tengono peraltro conto che il controllo demandato a questa Corte di legittimità
va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i
quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza
alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice
di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i
risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle
acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo.
Questa Corte Suprema è chiamata, cioè, ad accertare se nella sentenza appellata siano state applicate le regole della logica, le massime di comune
esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da
fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a
preferenza di altre. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve
quindi essere evidente e tale da inficiare lo stesso percorso seguito dal giudice di
merito per giungere alla decisione adottata.

6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen,

non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna della
ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al
pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
Consegue altresì la condanna alla rifusione delle spese sostenute nel grado
dalla parte civile Agenzia delle Entrate liquidate in € 2000 (duemila) oltre accessori di legge
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pello.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1000,00 in favore della Cassa delle
Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile
liquidate in C 2000 (duemila) oltre accessori di legge.

Il Pri

te

ente

Così deciso in Roma il 9 aprile 2014

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