Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 23353 del 04/02/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 23353 Anno 2014
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: LEO GUGLIELMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Mameli Giovanni, nato a Siamaggiore il 27/01/1954

avverso la sentenza n. 1677/2011 della Corte d’appello di Cagliari in data
03/11/2011

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta in pubblica udienza dal consigliere Guglielmo Leo;
udite le conclusioni del Procuratore generale, in persona del sostituto dott. Mario
Fraticelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. È impugnata la sentenza del 03/11/2011 con la quale la Corte d’appello di
Cagliari ha confermato, salva una riduzione della pena, la decisione in data
06/07/2010 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Oristano,
assunta in esito a giudizio abbreviato.
Con tale decisione, Giovanni Mameli era stato dichiarato colpevole di un
delitto continuato di peculato a norma dell’art. 314 cod. pen. (così modificata
l’originaria contestazione, riferita all’art. 316 cod. pen.).

ubz–

Data Udienza: 04/02/2014

Secondo la ricostruzione dei fatti prospettata nella sentenza impugnata,
l’odierno ricorrente si era appropriato, in un periodo compreso tra il maggio del
2001 ed il febbraio del 2008, di somme di denaro affidategli nell’interesse di due
persone interdette. Le somme in questione (redditi da pensione),
complessivamente pari a circa 71.000 euro, avrebbero dovuto essere versate su
conti correnti degli interessati o per la retta degli Istituti che li accoglievano.
Mameli, impiegato del Comune di Zerfaliu, ne aveva ottenuto la gestione in forza
dell’incarico di tutore conferito al sindaco dello stesso Comune, secondo una

gestionali erano stati delegati in via di fatto all’odierno ricorrente. Dopo l’elezione
di un nuovo sindaco, a sua volta nominato tutore dei due interdetti, Mameli era
stato poi designato quale protutore. Per l’uno e per l’altro sindaco, l’imputato
aveva predisposto falsi documenti e rendiconti, da costoro inconsapevolmente
prodotti all’Autorità giudiziaria.
I fatti erano stati accertati anche in base alla confessione dell’interessato,
senza che emergessero profili controversi.
Il giudice di appello ha respinto la principale doglianza del condannato,
secondo cui la condotta contestata integrerebbe un reato (continuato) di
appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.), aggravato ai sensi dell’art. 61,
numero 9, cod. pen. Respinta anche una censura riferita alla presunta riduzione
della capacità di autocontrollo dell’interessato, in dipendenza di un’asserita
ludopatia della quale lo stesso Mameli sarebbe stato vittima. Accolta, invece, la
domanda di parziale riduzione della pena.

2. Con il primo motivo di ricorso, l’imputato denuncia l’inosservanza o l’erronea
applicazione della legge penale sostanziale (art. 606, comma 1, lettera b), cod.
proc. pen.), ribadendo che i fatti dovrebbero essere qualificati come delitto
continuato di appropriazione indebita aggravata.
Dopo aver ricordato che nei primi anni il Mameli non aveva ricevuto alcun
incarico formale per la gestione del patrimonio degli interdetti, la difesa assume
che il ruolo attribuito al ricorrente non sarebbe riconducibile alla nozione di
incaricato di pubblico servizio, afferendo piuttosto alla cura di interessi
privatistici. Inoltre, pur dopo la riforma dei delitti contro la pubblica
amministrazione, la cosa oggetto di appropriazione nel delitto di peculato
dovrebbe comunque «avere rilievo e connotazione pubblicistica», tanto che
l’offesa tipica dovrebbe necessariamente prodursi nei confronti dell’ente pubblico
(nella specie, il Comune di Zerfaliu), e non riguardo ad interessi privatistici.
I giudici di merito avrebbero praticato una interpretazione abrogante della
figura circostanziale delineata al numero 9 dell’art. 61 cod. pen., mirata proprio
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(951,

prassi consolidata in quella amministrazione. Per circa cinque anni, i compiti

a colpire fenomeni di abuso della funzione o del servizio nell’ambito di rapporti
intrattenuti privatamente dall’interessato. Riferita al delitto di appropriazione
indebita, la circostanza varrebbe a chiarire che non sussiste peculato quando il
possesso della cosa sia conseguito dall’agente

intuitu personae,

e l’abuso

dell’ufficio o del servizio serva solo a facilitare la consumazione del reato.
Per altro verso ancora, il ricorrente nega la connotazione pubblicistica
dell’ufficio di tutore.
Con il secondo motivo di ricorso, la difesa denuncia la mancata assunzione di
d), cod. proc. pen.

Segnala il ricorrente d’aver prodotto in giudizio una certificazione relativa ad una
«dipendenza da

gambling

e episodio depressivo maggiore» a carico

dell’imputato. Detta patologia avrebbe effetti invalidanti, e dalla stessa sarebbe
dipesa la compulsiva necessità di procurarsi denaro da parte del Mameli.
Con un terzo motivo di impugnazione, si assume una «inosservanza o erronea
applicazione della legge penale, in particolare riguardo alla rilevanza data alla
confessione dell’imputato» (art. 606, comma 1, lettera b), cod. proc. pen.). Il
giudice di merito non avrebbe tenuto nella necessaria considerazione
l’atteggiamento processuale del reo, segnato da piena ammissione dei fatti e
dalla attuale disponibilità alla restituzione delle somme appropriate.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è privo di fondamento, e deve quindi essere rigettato. Da ciò
consegue la necessaria condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Va infatti affermato, in sintesi, che il tutore dell’incapace esercita una funzione
pubblica, la quale rileva anche se espletata in assenza di una designazione
formale (purché non usurpata), e che dunque l’appropriazione di somme delle
quali egli venga in possesso per ragione del suo ufficio integra il delitto di
peculato, e non quello di appropriazione indebita.

2. Le censure decisive si appuntano in primo luogo sulla circostanza che il
Mameli non era stato ufficialmente investito delle funzioni di tutore, avendo
piuttosto ricevuto un incarico informale (e consuetudinario) da parte dell’effettivo
tutore, cioè il sindaco di Zerfaliu.
Ora, a prescindere dal fatto che le appropriazioni più recenti sono state
commesse quando il ricorrente aveva assunto la veste formale di protutore, va
ribadito ciò che da lungo tempo la giurisprudenza ha stabilito in materia di

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(9,

una prova decisiva, a norma dell’art. 606, comma 1, lettera

esercizio di fatto della funzione pubblica, e che risulta ancor più chiaro dopo la
riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione.
Non conta l’investitura formale e regolare di una carica pubblica
rappresentativa, o di uno status connesso al rapporto di impiego con lo Stato od
altro ente pubblico. Conta piuttosto che, fuori dai casi di usurpazione, e dunque
in una situazione (almeno) di tolleranza da parte dell’amministrazione, il
soggetto preso in considerazione abbia di fatto esercitato funzioni che, alla
stregua delle regole correnti di qualificazione, possano essere definite pubbliche

dopo la riforma del 1990, tra le altre, Sez. 6, Sentenza n. 6980 del 16/12/1994,
rv. 201948; Sez. 6, Sentenza n. 12175 del 21/01/2005, rv. 231481; analogo
principio è stabilito per l’assunzione in via di fatto di compiti attinenti al pubblico
servizio: ex multis, Sez. 6, Sentenza n. 2745/09 del 09/12/2008, rv. 242423;
Sez. 6, Sentenza n. 34086 del 26/06/2013, rv. 257035).
È già stato affermato, in particolare, che deve riconoscersi la qualifica
pubblicistica in capo al coadiutore del soggetto titolare dell’incarico cui
formalmente si connette la funzione, proprio in quanto, nel concorso delle
pertinenti condizioni, egli risponde quale funzionario di fatto (Sez. 6, Sentenza n.
28125 del 02/07/2010, rv. 247788).

3. Il ricorrente nega, per altro verso, che possa individuarsi un pubblico ufficiale
nella figura del tutore, si tratti o non di una funzione ufficialmente assunta dal
soggetto preso in considerazione. E la tesi trova effettivamente appiglio in una
risalente pronuncia di questa Corte, concernente appunto l’appropriazione di beni
appartenenti all’incapace, per la quale si era negata la qualifica di malversazione
(art. 315 cod. pen., abrogato nel 1990) in quanto il tutore non dispiegherebbe
un servizio di utilità collettiva, ma sarebbe preposto alla tutela di interessi
privatistici riferibili alla persona interdetta (Sez. 2, Sentenza n. 5878 del
08/03/1974, rv. 127872).
Si tratta di una soluzione non condivisibile, a maggior ragione dopo la legge n.
86/1990, e comunque a fronte della netta evoluzione dell’ordinamento verso una
concezione «oggettiva» della funzione pubblica e del relativo esercente, il cui
«indice rivelatore […] va ricercato nella disciplina normativa dell’attività da esso
svolta, disciplina che deve evidenziare finalità di interesse pubblico» (Sez. U.,
Sentenza n. 32009 del 27/06/2006, Schera, rv. 234214).
In tempi più recenti questa Corte, ribaltando l’orientamento invocato dal
ricorrente, ha già osservato che il tutore esercita nel proprio ruolo una potestà di
certificazione, significativamente svolta nell’ambito di un procedimento a
carattere giurisdizionale, che svela per la stessa sua struttura la natura
4

o,

(Sez. 6, Sentenza n. 1034 del 27/05/1967, rv. 105185 e numerose successive;

pubblicistica degli interessi coinvolti (Sez. 6, Sentenza n. 27570 del 16/04/2007,
rv. 237604).
Si è ricordato come spetti al tutore, sotto giuramento, il compito di compilare
un inventario dei beni dell’incapace (artt. 362 e 363 cod. civ.) e di tenere una
contabilità che va sottoposta annualmente al giudice tutelare (art. 380). Può
aggiungersi che lo stesso tutore deve dichiarare rapporti di debito e credito con
l’incapace (artt. 367 e 368 cod. civ.), e rendere un conto finale quando cessa
dalle proprie funzioni (art. 385 e segg. cod. civ.). Si tratta di norme inderogabili,

funzione che l’ordinamento appresta nell’interesse pubblico alla tutela delle
persone che non sono capaci di gestire i propri affari.
Va d’altra parte considerato come il tutore eserciti, nei confronti dell’incapace,
un potere autoritativo, del quale è investito non in ragione del diritto dei minori e
della famiglia, ma proprio in quanto esercente una pubblica funzione
nell’interesse della collettività. Il minore, in particolare, gli deve «rispetto e
obbedienza», ed in ogni caso è soggetto alla sua autorizzazione per lasciare la
casa in cui è stabilito debba vivere, con possibilità per lo stesso tutore di
«richiamarvelo», anche a mezzo dell’autorità pubblica (art. 358 cod. civ.). Il
minore è inoltre necessariamente rappresentato dal tutore (art. 357 cod. civ.).
È appena il caso di ricordare che le norme sulla tutela dei minori si applicano
anche per le tutele concernenti gli interdetti (art. 424 cod. civ.).
In definitiva, il ruolo del tutore, disciplinato da norme di diritto pubblico, è
contrassegnato dall’esercizio di poteri certificativi ed autoritativi, di talché lo
stesso tutore deve intendersi investito di una pubblica funzione, così come già
stabilito da questa Corte nella sua giurisprudenza più recente.
L’insistito rilievo difensivo, per il quale la ricostruzione appena operata
produrrebbe un effetto abrogante della previsione di cui all’art. 61, numero 9,
cod. pen., non coglie nel segno, se non altro perché la previsione circostanziale
si riferisce ad ogni genere di reato, e non solo a quelli contro la pubblica
amministrazione.

4. Poste le premesse in diritto che fin qui sono state esposte, la mancanza di
fondamento delle censure difensive emerge sotto ognuno dei profili declinati.
4.1. È del tutto congrua la motivazione dei Giudici di merito, nel primo grado
di giudizio e nel secondo, a proposito della vera e propria consuetudine
amministrativa, conclamata in quanto tale, sulla cui base Mameli aveva per molti
anni esercitato in via di fatto la più essenziale tra le funzioni cui il tutore è
chiamato riguardo a persone affidate ad istituti di cura, e cioè la gestione del
patrimonio.

5

(2)2

con le caratteristiche proprie degli istituti di diritto pubblico, a disciplina di una

I poteri certificativi tipici della funzione erano stati esercitati per il tramite di
un agente mediato ed inconsapevole (art. 48 cod. pen.), e cioè la persona
investita formalmente della funzione pubblica in virtù della propria carica di
sindaco, che di fatto inoltrava al giudice tutelare le certificazioni redatte
dall’odierno ricorrente.
Anche questo profilo del fatto punibile è stato prospettato fin dall’epoca della
imputazione, ed è ampiamente documentato dalle sentenze di merito, anche
grazie alle ammissioni dell’interessato.

privati delle somme di cui Mameli si era appropriato nell’esercizio della propria
funzione. La pretesa che il peculato resti integrato solo quando si produca una
offesa patrimoniale direttamente in danno della pubblica amministrazione, già
fortemente discussa in passato, appare del tutto priva di attualità, di fronte ad
una figura certamente plurioffensiva, che mira a proteggere anche i patrimoni
privati affidati alla funzione pubblica, in chiave di tutela delle ragioni
pubblicistiche di tale affidamento.
Dopo la più volte citata riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione,
ciò che rileva, a fini di integrazione del peculato, è l’appropriazione di una cosa
mobile appartenente ad un qualunque soggetto, purché l’agente pubblico ne
abbia conseguito il possesso o la disponibilità per ragione del suo ufficio o
servizio. Va dunque verificata non l’appartenenza del bene, ma la ragione
funzionale della disponibilità in proposito acquisita dall’agente.
In proposito la giurisprudenza addirittura esclude la necessità che la cosa od il
denaro siano affidati in forza della competenza funzionale specifica del pubblico
ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, bastando che il possesso sia frutto
di prassi e consuetudini (da ultimo, Sez. 6, Sentenza n. 34489 del 30/01/2013,
rv. 256120). Solo una contingenza del tutto occasionale, per quanto motivata
dalla funzione rivestita, può escludere il nesso configurato dalla fattispecie
incriminatrice (Sez. 6, Sentenza n. 9933 del 07/01/2003, rv. 223977).
In ogni caso, la fattispecie oggetto dell’odierno giudizio non può suscitare
alcun dubbio, posto che Mameli aveva conseguito per molti anni il possesso del
denaro destinato alle due persone interdette proprio e solo in virtù delle funzioni
di tutela esercitate in via di fatto.

5. Sono infondati anche gli ulteriori motivi di ricorso.
5.1. Il Difensore ha inteso dedurre ai sensi della lettera

d) dell’art. 606,

comma 1, cod. proc. pen. la mancata assunzione di una prova decisiva, che per
la verità non viene neppure specificamente individuata, salvo forse che per il suo
oggetto: Mameli avrebbe sofferto di dipendenza patologica dal gioco di azzardo,
6

(9,

4.2. Nessun rilievo può assumere, ovviamente, l’appartenenza a soggetti

la quale, per quanto si comprende, avrebbe influito sulla «piena consapevolezza»
e sulla «capacità di autodeterminazione» dell’interessato.
È chiaro che l’oggetto della doglianza non consiste realmente nella denuncia
d’una mancata assunzione di prova decisiva, riconducibile ad uno dei casi previsti
dal comma 2 dell’art. 495 cod. proc. pen. Si è voluto piuttosto lamentare che i
Giudici di merito non abbiano «in alcun modo preso in considerazione» la
patologia attribuita al ricorrente.
Anche in questi termini, la censura è inammissibile, poiché pertinente al

Il ricorrente ha sostanzialmente replicato i motivi d’appello sul punto, senza
neppure specificare se aveva fatto questione di imputabilità dell’interessato,
oppure di integrazione del dolo punibile, o ancora e soltanto di motivi a
delinquere, per i possibili riflessi in punto di determinazione della pena. Tutto ciò
senza minimamente confrontarsi con la risposta che la Corte territoriale ha
espresso circa l’appello sul punto.
Già nella sentenza impugnata si rilevava come, pur allegando la patologia
indicata, la Difesa non avesse compiuto alcuna richiesta specifica, e che dunque
poteva apprezzarsi la questione (puntualmente presa in considerazione) solo in
sede di quantificazione della pena. Nonostante la puntuale segnalazione
dell’ininfluenza di una prospettazione tanto generica, come si è visto, il vizio
affligge anche il ricorso di legittimità.
Può anche aggiungersi, riguardo alla completezza della motivazione (come si
è visto, mal censurata), che certamente non avrebbe potuto esigersi un
approfondimento, discutendosi nella specie di condotte metodicamente reiterate
per anni ed anni e di promesse di restituzione (per quel che risulta) mai attuate.
5.2. È ingiustificata anche l’ultima delle censure proposte contro la sentenza
impugnata.
A fronte dell’abuso della fiducia accordatagli, per molti anni e per somme nel
complesso molto rilevanti, in danno di soggetti svantaggiati e interamente
affidati all’amministrazione pubblica, Mameli si è visto accordare il minimo della
pena per il più grave tra i delitti in contestazione, con la massima riduzione per
le attenuanti generiche, e con un cumulo giuridico pressoché insignificante in
rapporto al numero ed alla gravità degli ulteriori reati in contestazione. Ciò,
dichiaratamente, in considerazione del «buon comportamento processuale» e,
per implicito, finanche in rapporto ai pretesi problemi di autocontrollo.
Motivo dunque platealmente infondato.

P.Q.M.

7

(31–

merito della decisione impugnata e, comunque, del tutto generica.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso il 04/02/2014.

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