Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 23018 del 31/03/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 23018 Anno 2016
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: D’ARRIGO COSIMO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
– Scaffidi Giuseppe, nato a Piraino (PA) il 28 maggio 1941
avverso la sentenza n. 36/2015 emessa in data 11 giugno 2015 dal Tribunale di
Patti in funzione di giudice d’appello.
Sentita la relazione svolta in pubblica udienza dal consigliere dott. Cosimo
D’Arrigo;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Luigi Orsi, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Giuseppe Scaffidi è stato condannato per i delitti di cui agli artt. 631 e
635 cod. pen. ai danni di un omonimo (classe 1946), costituitosi parte civile, con
sentenza del Giudice di Pace di Sant’Angelo di Brolo, confermata in grado
d’appello dal Tribunale di Parti con sentenza dell’Il giugno 2015.
Avverso tale ultima decisione, lo Scaffidi ricorre deducendo:
– che sarebbe stato processato per due volte per il medesimo fatto;
– che i giudici di merito sarebbero pervenuti alla sua condanna solo sulla
base delle dichiarazioni compiacenti della sorella della persona offesa;
– che non vi sarebbe prova della circostanza che i beni oggetto delle condotte illecite siano di proprietà della parte civile;
– che i delitto sarebbero comunque estinti per prescrizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso in esame contiene la mera riproposizione delle censure già
svolte in sede di appello e sulle quali la sentenza impugnata ha offerto una solu1

Data Udienza: 31/03/2016

zione corretta e adeguatamente motivata. Il ricorso, pertanto, è manifestamente
infondato e deve essere dichiarato inammissibile.
2. Il primo motivo di ricorso, di carattere preliminare, è manifestamente
infondato per violazione del principio di autosufficienza.
La corte d’appello, già investita della questione, ha difatti affermato che
«un raffronto fra il caso d’imputazione di cui alla sentenza del 4 maggio 2009
emessa nei confronti dello Scaffidi e quelli di cui al presente procedimento […]
consente di escludere che lo Scaffidi Giuseppe (classe 1941), sia stato giudicato

camente in modo diverso». Precisa, infatti, che i due giudizi hanno avuto ad oggetto fatti intervenuti fra le medesime parti e negli stessi luoghi, ma in un diverso arco temporale.
A fronte di tale precisa e circostanziata motivazione, il ricorrente avrebbe
dovuto quantomeno produrre la sentenza con cui sostiene di essere stato già
giudicato per i medesimi fatti, cosa che invece non è accaduta. Il difetto di allegazione rende inammissibile il ricorso sul punto.
3. Il secondo motivo di ricorso concerne le dichiarazioni testimoniali rese
dalla sorella della persona offesa. Delle stessa si pone in dubbio l’attendibilità
(profilandosi un sospetto di compiacenza con il fratello, costituitosi parte civile),
nonché la verosimiglianza e l’utilizzabilità del suo racconto de relato.
Per una più corretta comprensione della doglianza è utile chiarire che la
teste Maria Scaffidi, sorella della parte offesa, ha riferito che, in sua presenza,
l’imputato si sarebbe vantato di essere l’autore delle condotte delittuose in contestazione, ribadendo di vantare diritto di proprietà su quella porzione di terreno.
Questa Corte ha chiarito che, in tema di testimonianza indiretta, il disposto dell’art. 195, comma settimo, cod. proc. pen., secondo il quale non può essere utilizzata la dichiarazione di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame, deve essere interpretata nel senso che l’inutilizzabilità si ricollega alla volontà, diretta o indiretta, della fonte primaria di non consentire la verifica di quella secondaria. Ne
consegue che il predetto divieto non opera allorché il soggetto dichiarante abbia
precisamente indicato la sua fonte immediata e quest’ultima non possa essere
oggetto di ulteriore verifica perché imputata nello stesso processo (Sez. 6, n.
1085 del 15/10/2008 – dep. 13/01/2009, Baratta e altri, Rv. 243186). In sostanza, la testimonianza indiretta che faccia riferimento, per la conoscenza dei fatti,
ad un imputato è utilizzabile al di fuori della regola che impone, a richiesta di
parte, la deposizione del soggetto di riferimento, dovendosi comunque dare adeguatamente conto delle eventuali ragioni a sostegno della credibilità e veridicità

e condannato per gli stessi fatti o che gli stessi fatti siano stati qualificati giuridi-

del dichiarato (Sez. 2, n. 17107 del 22/03/2011 – dep. 03/05/2011, Cocca, Rv.
250252). Nulla osta, quindi, all’utilizzabilità delle deposizioni di Maria Scaffidi.
Tanto premesso, occorre ricordare che le dichiarazioni della parte offesa
possono essere legittimamente poste, da sole, a fondamento dell’affermazione di
penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone e
corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e
dell’attendibilità intrinseca del suo racconto (da ultimo, ex plurimis: Sez. 2, n.

A fortiori, deve ritenersi sufficiente a fondare la condanna – se suffragata
da adeguata verifica di attendibilità – la deposizione proveniente non direttamente dalla parte offesa, ma da persona ad essa legata da vincoli di amicizia o parentela.
Nella specie, la deposizione di Maria Scaffidi offre riscontro a quella del
fratello, dalla quale, a sua volta, «emerge un narrato coerente e sufficientemente analitico nei suoi passaggi essenziali, privo di particolari artatamente riferiti al
fine di rendere maggiormente credibile il racconto» (v.

sentenza d’appello). A

fronte di una ricostruzione unitaria del quadro probatorio accentuata dai giudici
di merito in termini di credibilità intrinseca, le doglianze del ricorso, basate su
generici sospetti di compiacenza, risultano manifestamente infondate.
4. Non incontra migliore sorte neppure il terzo motivo di ricorso. Anche in
questo caso la doglianza, del tutto generica, non supera le risultanze della sentenza d’appello, ove si legge «dalla documentazione versata in atti (rogito di donazione-divisione-vendita datato 18 aprile 1986, repertorio n. 170) risulta adeguatamente provato 11 titolo di proprietà dello Scaffidi Giuseppe (classe 1946) sul
fondo oggetto dell’attività criminosa». A fronte di tale risultanza documentale, il
ricorrente non offre alcuno spunto argomentativo di segno contrario.
5. Dall’inammissibilità dei primi motivi di ricorso deriva l’irrilevanza della
prescrizione del reato maturata dopo la pronunzia della sentenza di secondo grado. In proposito va richiamato l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, secondo cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta
infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di
non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 32 del
22/11/2000 – dep. 21/12/2000, Rv. 217266; da ultimo: Sez. 2, n. 28848 del
08/05/2013 – dep. 08/07/2013, Ciaffoni, Rv. 256463).
Nella specie, il termine prescrizionale dei reati sarebbe interamente decorso – anche tenendo conto di tutte le sospensioni (comprese quelle intervenute
3

43278 del 24/09/2015 – dep. 27/10/2015, Manzini, Rv. 265104).

per effetto dei rinvii disposti alle udienze del 3 ottobre 2011 e del

10 ottobre

2012) – in data 1 agosto 2015, ossia successivamente alla sentenza di appello.
Pertanto, non risulta essersi verificata l’invocata prescrizione.
6.

Pur in assenza di specifica deduzione dell’imputato, occorre rilevare

d’ufficio che il delitto di danneggiamento semplice cui all’art. 635 cod. pen. è stato abrogato dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7. La sopravvenuta abrogatio criminis
impone il proscioglimento dell’imputato, limitatamente a tale reato, perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara
inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.

P. Q. M.
annulla senza rinvio, limitatamente al delitto di cui all’art. 635 c.p., perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Dichiara inammissibile nel resto il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 31 marzo 2016.

7. Il ricorso deve, in conclusione, deve essere dichiarato inammissibile.

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