Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 23012 del 20/04/2016


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 23012 Anno 2016
Presidente: IPPOLITO FRANCESCO
Relatore: BASSI ALESSANDRA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Notarianni Pasquale, nato a Lamezia Terme il 26/05/1986

avverso l’ordinanza del 18/12/2015 del Tribunale di Catanzaro

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandra Bassi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Francesco Mauro Iacoviello, che ha concluso chiedendo che il provvedimento sia
annullato con rinvio;
udito il difensore, avv. Leopoldo Marchese, difensore di fiducia di Pasquale
Notarianni, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento in epigrafe, il Tribunale di Catanzaro, sezione
specializzata per il riesame, decidendo il ricorso ex art. 310 cod. proc. pen.
proposto dal pubblico ministero, ha annullato l’ordinanza emessa il 3 novembre
2015, con la quale il Tribunale di Lamezia Terme aveva sostituito nei confronti di
Pasquale Notarianni la misura della custodia in carcere con quella degli arresti
domiciliari, ed ha ripristinato la misura di maggior rigore.
A sostegno della decisione, il Collegio della cautela ha rilevato come il
Tribunale di Lamezia Terme abbia errato là dove ha escluso l’operatività della
presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. in considerazione del

Data Udienza: 20/04/2016

fatto che l’imputato – condannato per il delitto di partecipazione ad associazione
mafiosa alla pena di anni uno e mesi sei in continuazione con altra condanna abbia interamente espiato detta pena, stimando le esigenze cautelari concernenti
l’ulteriore imputazione per cessione illecita di sostanza stupefacente
salvaguardabili con la misura più gradata degli arresti domiciliari. Il Tribunale ha
rammentato che, secondo le indicazioni di questa Suprema Corte, qualora un
imputato sottoposto alla misura cautelare della custodia cautelare in carcere
venga condannato per reati avvinti dalla continuazione, la presunzione di

sensi dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., resta ferma anche se il periodo già
trascorso dal medesimo in regime custodiale superi l’entità della pena detentiva
irrogata in sentenza per tale reato-satellite. Sulla scorta di tali considerazioni in
diritto, dato atto che, nella specie, continua ad operare la presunzione assoluta
di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria prevista dal combinato
disposto degli artt. 416-bis cod. pen. e 275, comma 3, cod. proc. pen., il
Tribunale del riesame ha annullato il provvedimento di sostituzione e ripristinato
la misura intramuraria.

2. Ricorre avverso il provvedimento Pasquale Notarianni, a mezzo del
proprio difensore di fiducia Avv. Leopoldo Marchese, e ne chiede l’annullamento
per violazione di legge processuale e mancanza di motivazione, evidenziando che
il Tribunale di Catanzaro, nell’annullare l’ordinanza di sostituzione della misura
cautelare, ha completamente trascurato di considerare l’ulteriore
argomentazione sviluppata dal Collegio, supportata dalle produzioni documentali
della difesa, in merito all’intervenuto smembramento dell’associazione per
delinquere con conseguente cessazione di qualunque esigenza cautelare in
merito al reato ex art. 416-bis cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.

2. Innanzitutto, con riguardo al principio di diritto applicato dal Tribunale del
riesame di Catanzaro, occorre rilevare come effettivamente, in un caso
assimilabile a quello di specie, questa Corte abbia affermato che, in tema di
valutazione delle esigenze cautelari, se la misura della custodia in carcere è stata
applicata in relazione a plurimi reati, per uno dei quali è prevista la presunzione
ex art. 275, comma 3, cod. proc. pen. quando sia stata pronunciata condanna
per tali reati unificati dal vincolo della continuazione, configurando come satellite
quello per il quale la legge prevede la suddetta presunzione (segnatamente
quello di cui all’art. 416-bis cod. pen., ritenuto satellite rispetto al reato ex art.
2

adeguatezza della sola predetta misura, sussistente per uno dei reati satellite ai

74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), non è possibile, in sede di valutazione della
richiesta di sostituzione della misura cautelare, scorporare il reato-satellite e
considerare la corrispondente porzione di sanzione detentiva coperta dal
presofferto cautelare, eliminando dalla valutazione la relativa presunzione di
pericolosità (Sez. 2, n. 15093 del 19/03/2014, Miglietta). In motivazione, si è
chiarito che, “nel caso in esame, la misura cautelare è indistintamente riferita a
tutti i reati contestati, fra i quali è compreso anche quello di cui all’art. 416-bis
cod. pen., con la conseguenza che, non trattandosi, come nelle fattispecie sopra

il condannato o per l’indagato/imputato, ma di un complessivo giudizio di
pericolosità, questo giudizio non può essere scisso, nell’ambito dell’unico titolo
custodiale, nelle sue componenti delittuose ed è, pertanto, corretto e logico, che
la presunzione di pericolosità ex art. 275, comma 3, cod. proc. pen. non possa
essere estrapolata dal complesso della valutazione”.

3.

Fermo il principio di diritto appena delineato, il Collegio della

impugnazione cautelare ha nondimeno errato nel trascurare completamente di
considerare come la decisione appellata del Tribunale di Lamezia Terme si
fondasse, oltre che sulla rilevata “consumazione” in custodia cautelare della pena
irrogata per il reato associativo – principio, per le ragioni appena esposte, errato
-, anche, e soprattutto, sulla argomentata insussistenza di esigenze cautelari in
relazione al medesimo delitto di partecipazione ad associazione mafiosa,
muovendo dall’erroneo presupposto che la presunzione di pericolosità delineata
nell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in relazione agli indagati del delitto – fra
gli altri – di partecipazione ad associazione mafiosa, abbia natura assoluta e non
possa pertanto essere superata allorquando emergano elementi dimostrativi del
significativo indebolimento dei rapporti del singolo con l’associazione di
appartenenza.

4. A tale proposito, occorre rilevare come, sin dai primi anni dall’entrata in
vigore del nuovo codice di rito, la norma di cui al comma 3 dell’art. 275 abbia
subito diverse trasformazioni, con un’evoluzione, per così dire, “a fisarmonica”,
là dove ha visto ora delimitare gli spazi valutativi del giudice ed ampliare
l’ambito dei casi di applicazione obbligatoria della misura carceraria, ora irrigidire
i presupposti applicativi della misura di maggior rigore, in funzione del periodico
oscillare delle scelte di politica criminale fra repressione e garantismo. Un
fondamentale impulso alla ridefinizione dei confini della disposizione è inoltre
venuto sia dalle indicazioni ermeneutiche di questa Suprema Corte, nell’esercizio
della funzione di nomofilachia, sia e soprattutto dai reiterati interventi demolitori
3

citate, di un mero criterio di calcolo ai fini dell’applicazione di norme di favore per

del giudice delle leggi, portando il legislatore a riscrivere nuovamente la norma
con la legge 16 aprile 2015, n. 47.
4.1. Il primo periodo della disposizione – quello che ha subito minori
rimaneggiamenti nel tempo – ribadisce il principio cardine del nostro
ordinamento, secondo il quale la custodia in carcere costituisce l’extrema ratio,
cioè una misura solo residuale, riservata ai casi di maggiore allarme (sociale ma
anche processuale), nei quali le esigenze cautelari non sono altrimenti
fronteggiabili. Nell’intento di rafforzare tale asserto e di rendere più duttile la

singola persona, il legislatore del 2015 ha previsto la possibilità, prima preclusa,
di applicare cumulativamente più misure personali anche fra loro eterogenee
(coercitive e/o interdittive).
Molto più travagliata è stata la vita nel secondo periodo del comma 3. Con il
d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (convertito con modificazioni con legge 12 luglio
1991, n. 203) e con il d.l. 9 settembre 1991, n. 292 (convertito con modificazioni
in legge 8 novembre 1991, n. 356), in risposta alla recrudescenza del fenomeno
della criminalità mafiosa, nel secondo periodo del comma 3, il legislatore aveva
legato ad una serie articolata di ipotesi di reato (fra le quali appunto quella di cui
all’art. 416-bis cod. pen.) una duplice presunzione, l’una relativa, di sussistenza
di esigenze cautelari – dunque di pericolosità -, l’altra assoluta, di adeguatezza
della sola custodia in carcere a farvi fronte. Con la legge 8 agosto 1995, n. 332,
il legislatore delimitava l’ambito di operatività della duplice presunzione de qua ai
soli procedimenti per delitti di mafia in senso stretto (cioè per il reato ex art.
416-bis c.p.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste da
detta norma ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste da
detto articolo). La presunzione prevista in relazione al delitto di cui all’art. 416bis

cod. pen. superava positivamente il doppio scrutinio di legittimità

costituzionale (con sentenza della C. cost. n. 450/1995) e di compatibilità con la
Convenzione Europea per i diritti dell’uomo nel 2003 (con sentenza della Corte
EDU sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia), in considerazione della
rilevata specificità del delitto di associazione mafiosa, tale da rendere
“ragionevole” la presunta adeguatezza della sola custodia carceraria, in quanto
misura più idonea a neutralizzare il periculum libertatís connesso al verosimile
protrarsi dei contatti tra imputato ed organizzazione.
4.2. Con il d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 (convertito, con modificazioni, con
legge 23 aprile 2009, n. 38), si tornava ad ampliare il catalogo dei reati
assoggettati alla doppia presunzione in presenza di gravi indizi di colpevolezza
per fattispecie di ritenuto particolare allarme sociale (quali – solo per ricordarne
alcune – l’omicidio, l’associazione ex art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, i
4

risposta cautelare alle specifiche esigenze di contenimento della condotta della

delitti sessuali ex artt. 609-bis, 609-quater e 609-octies cod. pen., salvo le
ipotesi attenuate; i delitti ex artt. 600, 601, 602 e 603 cod. pen.), imponendo la
misura cautelare della custodia carceraria “salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze caute/ari”.
La disciplina introdotta nel 2009 è stata reiteratamente sottoposta al vaglio
di costituzionalità con riguardo a numerose fattispecie incriminatrici previste dal
catalogo normativo ed, ogni volta, la Corte costituzionale ha cancellato la
presunzione assoluta in relazione ai diversi delitti sottoposti a scrutinio (C. cost.

164/2011 in relazione al delitto ex art. 575 cod. pen.; n. 231/2011 in relazione
al delitto ex art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; n. 110/2012 in relazione al
delitto ex artt. 416, 473 e 474 cod. pen.; n. 57/2013 in relazione ai delitti
aggravati dal metodo mafioso o dall’agevolazione mafiosa; n. 213/2013 in
relazione all’art. 630 cod. pen.; n. 232/2013 in relazione all’art. 609-octies cod.
pen. e, da ultimo, n. 48/2015 in relazione al concorso esterno in associazione
mafiosa), dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, c.p.p. per violazione degli artt. 3, 13, comma 1, e 27, comma 2, Cost. -, nella parte in
cui impone l’applicazione della custodia in carcere e non fa salva la possibilità di
valutare elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari del caso
concreto possono essere soddisfatte anche con una misura diversa.
4.3. Con l’intervento riformatore del 2015, il legislatore ha reimpostato il
baricentro delle misure custodiali e, nel dichiarato intento di arginare l’eccessivo
ricorso alla custodia in carcere e di porre rimedio all’emergenza del
sovraffollamento carcerario, denunciato anche dalla Corte EDU (nella sentenza
dell’8 gennaio 2013, nel caso Torreggiani e altri c. Italia), nonché di scongiurare
ulteriori interventi demolitori della Corte costituzionale rispetto alle varie ipotesi
di presunzione assoluta di idoneità della sola custodia cautelare in carcere, ha
fortemente ridimensionato l’ambito di operatività delle presunzioni disciplinate
dall’art. 275, comma 3.
Secondo il testo riscritto con la recente novella, la presunzione assoluta di
adeguatezza della custodia incarcere cui al comma 3 dell’art. 275 continua ad
essere operante con limitato riguardo ai delitti di associazione sovversiva (art.
270 cod. pen.), di associazione terroristica, anche internazionale (art.

270-bis

cod. pen.), e di associazione mafiosa ex art. 416-bis cod. pen. Qualora
sussistano i gravi indizi di colpevolezza di taluno di tali delitti e non ci si trovi in
presenza di una situazione nella quale fa difetto una qualunque esigenza
cautelare, deve trovare applicazione in via obbligatoria la misura della custodia
in carcere.

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n. 265/2010 in relazione ai delitti ex artt. 609-bis e 609-quater cod. pen.; n.

Nel nuovo terzo periodo del comma 3, il legislatore ha, invece, previsto che,
in caso di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per i gravi delitti ivi
contemplati, deve essere applicata la custodia in carcere, salvo che siano
acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in
relazione al caso concreto, detti pericula possano essere soddisfatti con altre
misure.
4.4. Entrambe le previsioni contenute nel secondo e terzo periodo del
comma 3 dell’art. 275 disciplinano una duplice presunzione di pericolosità e di

in quanto dipendente oggettivamente dal delitto di cui alla imputazione
provvisoria, che si atteggia – come meglio si dirà oltre – in termini solo relativi.
Le ipotesi di cui al secondo ed al terzo periodo divergono invece sulla natura
della presunzione di adeguatezza della misura carceraria, avente natura assoluta
con riguardo ai delitti ex artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen. e solo relativa nei
restanti casi. Nell’ipotesi in cui sussistano i gravi indizi dei reati ex artt. 270,
270-bis e 416-bis cod. pen., allorchè la presunzione – relativa – di pericolosità
non risulti vinta dalla rilevata assenza di una qualunque esigenza cautelare,
subentra un apprezzamento legale, vincolante, di adeguatezza della sola
custodia carceraria a fronteggiare le esigenze presupposte, a nulla rilevando la
natura ed il grado delle stesse, con conseguente esclusione di ogni soluzione
intermedia tra la custodia intramuraria e lo stato di piena libertà dell’imputato.
In deroga alla regola generale enunciata nel comma 1 dello stesso art. 275
(secondo cui il giudice, nel disporre le misure,

“tiene conto della specifica

idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelati”)
ed al principio della custodia in carcere quale extrema ratio fissato nell’incipit del
comma 3, in dette ipotesi, determinate e tassative, opera una presunzione
assoluta di idoneità della più afflittiva delle misure. In tali casi, non trovano
pertanto applicazione le norme di cui alla seconda parte delle lett. c) e c-bis)
dell’art. 292, comma 2, cod. proc. pen., rimanendo irrilevante, a fronte
dell’apprezzamento legale, che le esigenze cautelari possano essere
concretamente soddisfatte tramite una misura cautelare meno incisiva di quella
di maggior rigore.
4.5. Sul piano pratico, tale disciplina si traduce, da un lato, in un’inversione
dell’onere probatorio in favore della pubblica accusa, che è sollevata dal dovere
di dimostrare l’esistenza dei pericula libertatis e l’idoneità della sola custodia in
carcere, aspetti presupposti dalla valutazione “bloccata” del legislatore; dall’altro
lato, in una semplificazione dell’impianto argomentativo dei provvedimenti de
libertate ed in una marcata attenuazione dell’onere di motivazione.

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adeguatezza della misura carceraria. Le accomuna la presunzione di pericolosità,

Come è stato efficacemente rilevato, la presunzione relativa di pericolosità
sociale prevista dall’art. 275, comma 3, inverte gli ordinari poli del ragionamento
giustificativo, nel senso che il giudice che applica o che conferma la misura
cautelare non ha un obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza dei pericula
libertatis, ma deve soltanto apprezzare le ragioni di esclusione, eventualmente
evidenziate dalla parte o direttamente evincibili dagli atti, tali da smentire, nel
caso concreto, l’effetto della presunzione (Sez. 1, n. 45657 del 06/10/2015,
Varzaru, Rv. 265419).

allorquando il giudice abbia dato atto dei gravi indizi in merito alle ipotesi di
reato sopra delineate e dell’assenza delle condizioni per ritenere del tutto assenti
detti pericula, così da vincere la presunzione, con il corollario che spetta
all’indagato confutare i presupposti e dunque dimostrare l’inesistenza in radice
delle esigenze cautelari. Soltanto nel caso in cui l’indagato o la sua difesa
abbiano allegato elementi di segno contrario, il giudicante sarà tenuto a
giustificare la ritenuta inidoneità degli stessi a superare la presunzione.
4.5. Resta in ultimo da precisare che, come ha chiarito questo Supremo
Collegio a Sezioni Unite, la presunzione in parola opera in tutte le fasi del
procedimento penale e, dunque, non solo in fase genetica, ma anche in
occasione delle successive valutazioni circa la permanenza dei presupposti
applicativi della misura (Sez. U., del 19/07/2012, Lipari Rv. 253186). Seppure
affermato in relazione alla formulazione previgente della norma, tale principio
rimane certamente valido anche sotto il vigore della disciplina attuale – come
novellata con ricordata legge n. 47 -, e ciò in ragione, per un verso, della
clausola di riserva contenuta nell’art. 299, comma 2, che espressamente lascia
salva la previsione dell’art. 275, comma 3, e tutte le presunzioni ivi previste; per
altro verso, della natio della disposizione, in quanto volta a ricercare un giusto
contemperamento fra le opposte esigenze di salvaguardia del diritto alla libertà
dell’indagato e di tutela della collettività, come raccomandato dalla Corte
Costituzionale nella sopra rammentata decisione n. 450 del 1995.

5. Sulla scorta delle considerazioni sopra svolte, risulta di tutta evidenza
l’erroneità della premessa da cui ha mosso il ragionamento svolto dal Giudice a
quo, là dove ha dato atto della natura assoluta – anziché relativa – della
presunzione di pericolosità sociale prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc.
pen. in relazione alla fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen. L’erroneità della
valutazione compiuta dal Tribunale del riesame sul punto non assume – nella
specie – una rilevanza meramente formale, ma riverbera sul giudizio espresso
dal Collegio, che – proprio perché fondato sull’assolutezza della presunzione – ha

L’obbligo di motivazione potrà così ritenersi compiutamente assolto

completamente trascurato gli elementi dimostrativi dell’intervenuto superamento
di detta presunzione relativa di pericolosità, evidenziati dal Tribunale di Lamezia
Terme nel provvedimento appellato.

6. Come si è sopra chiarito nel paragrafo 5, con riguardo alla fattispecie ex
art. 416-bis cod. pen. (analogamente a quanto previsto per le ipotesi associative
di cui agli artt. 270 e 270-bis cod. pen.), l’art. 275, comma 3, del codice di rito
pone una duplice presunzione di pericolosità sociale e di adeguatezza della sola

assoluti con riguardo al

quomodo.

Ne discende che il giudice è tenuto

obbligatoriamente ad applicare la custodia in carcere soltanto allorquando stimi
non superata la presunzione di pericolosità sociale – si ribadisce, di natura solo
relativa -, come derivante dalla imputazione associativa di cui il soggetto risulti
gravemente indiziato.
Si è già evidenziato, sub punto 4.4. del considerato in diritto, come la
presunzione – relativa – di pericolosità comporti un’inversione dell’onere
probatorio in favore della pubblica accusa ed un marcato alleggerimento
dell’obbligo di motivazione gravante sul giudice che applica o conferma la misura
cautelare. Il decidente non deve pertanto dimostrare in positivo ed argomentare
circa la ricorrenza dei pericula libertatís e, nondimeno, è tenuto ad apprezzare le
ragioni di esclusione della pericolosità sociale, eventualmente evidenziate dalla
parte o direttamente evincibili dagli atti, che siano tali da soverchiare, nel caso
concreto, gli effetti della presunzione.

7. Va segnalato come la giurisprudenza di questo Supremo Collegio Corte
non sia univoca nel definire i presupposti in presenza dei quali sia possibile
ritenere superata la presunzione (relativa) di pericolosità in caso di soggetto
gravemente indiziato di partecipare ad un’associazione ex art. 416-bis cod. pen.
7.1. Secondo l’ermeneusi prevalente, in tema di custodia cautelare in
carcere applicata nei confronti dell’indagato del delitto d’associazione di tipo
mafioso, l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. prevede una presunzione di
pericolosità sociale che può essere superata solo quando sia dimostrato che
l’associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa,
con la conseguenza che al giudice di merito incombe l’esclusivo onere di dare
atto dell’inesistenza di elementi idonei a vincere tale presunzione (v. da ultimo,
Sez. 5, n. 38119 del 22/07/2015, Ascone, Rv. 264727). L’orientamento poggia
sull’osservazione che l’affiliato ad una cosca associativa di tipo mafioso è per
definizione pericoloso e, quindi, professionalmente proteso alla commissione di
fatti criminosi, di tal che la prova contraria – costituita all’acquisizione di

custodia in carcere, che si declina in termini relativi quanto all’an ed in termini

elementi dai quali risulti l’insussistenza delle esigenze cautelari – si risolve nella
ricerca di quei fatti che rendono “impossibile” (e perciò stesso in assoluto e in
astratto oggettivamente dimostrabile) che il soggetto possa continuare a fornire
il suo contributo all’organizzazione per conto della quale ha operato, con la
conseguenza che, ove non sia dimostrato che detti eventi risolutivi si sono
verificati, persiste la presunzione di pericolosità (ex plurimis Sez. 6, n. 46060 del
14/11/2008, Verolla, Rv. 242041; Sez. 2, n. 53675 del 10/12/2014, Costantino,
Rv. 261621).

275, comma 3, ultima parte cod. proc. pen. non può essere interpretata in
termini così rigidi da ritenere che la presunzione possa essere vinta solo in
presenza di prova positiva dell’avvenuta recisione del vincolo associativo,
potendo – di contro – assumere rilievo specifici elementi che facciano
ragionevolmente escludere la pericolosità dell’indagato (quali – avendo riguardo
alle fattispecie concrete rispettivamente prese in esame dalla Corte – il
conseguimento della laurea e l’avvio della collaborazione con la giustizia con
dichiarazioni utili alla ricostruzione accusatoria) (Sez. 1, n. 1848 del 16/12/2003
– dep. 21/01/2004, Baiannonte, Rv. 226957; Sez. 1, n. 43572 del 06/11/2002,
Diana, Rv. 223108). A sostegno di tale esegesi si rileva che la natura eccezionale
della disposizione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. e lo stesso dato
testuale della norma smentiscono che la presunzione possa essere superata
soltanto in presenza della prova positiva dell’avvenuta definitiva rescissione del
vincolo associativo, e non anche nell’ipotesi in cui coesistano specifici elementi
che facciano ragionevolmente escludere la pericolosità dell’indagato, come del
resto induce a ritenere l’uso da parte del legislatore dell’espressione “salvo che
siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze caute/ari”.
Su questa linea, si è di recente affermato che, nel caso in cui sia contestata
la fattispecie di partecipazione all’associazione di tipo mafioso, la presunzione di
sussistenza delle esigenze cautelari può stimarsi superata allorquando siano
acquisiti elementi tali da dimostrare in concreto un consistente ed effettivo
allontanamento del soggetto rispetto all’associazione (Sez. 6, n. 32412 del
27/06/2013, Cosentino, Rv. 255751; Sez. 6, n. 9748 del 29/01/2014, Ragosta,
Rv. 258809).
7.3. Giudica il Collegio condivisibile il filone esegetico da ultimo tratteggiato,
in quanto maggiormente aderente all’attuale lettera della norma processuale,
conforme ai principi generali in tema di misure cautelar’ ridisegnati con la
recente novella nonché più armonico al dettato costituzionale ed alle indicazioni
del Giudice delle leggi.

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7.2. Secondo altro orientamento giurisprudenziale, la disposizione dell’art.

Ora, non è revocabile in dubbio che, in coerenza con quanto sancito dalla
Corte costituzionale, la duplice presunzione in parola deve ritenersi “ragionevole”
in considerazione del “coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della
convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è
connaturato” (C. cost. n.450/1995), là dove “l’appartenenza ad una associazione
mafiosa è un delitto di pericolo a carattere permanente, che implica un vincolo
«totalizzante» di adesione ad un sodalizio caratterizzato da una particolare forza
intimidatrice e da un elevato grado di «diffusività» nel contesto ambientale, tali

consegue che la presunzione legislativa di adeguatezza della sola misura
cautelare carceraria risulta pienamente giustificabile, in quanto – nella generalità
dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza
sufficientemente condivisa – indispensabile per neutralizzare la pericolosità del
soggetto, non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra
l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza (C. cost. n. 265/2010).
Come ha ribadito anche la Corte Europea per i diritti dell’uomo, la presunzione di
pericolosità ha ragion d’essere alla luce “della natura specifica del fenomeno
della criminalità organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso”, e
segnatamente in considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria delle
persone accusate del delitto in questione “tende a tagliare i legami esistenti tra
le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare
il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle
organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti” (sentenza 6
novembre 2003, Pantano contro Italia).
7.4. Riaffermata la legittimità della duplice presunzione di pericolosità e
adeguatezza e la sua coerenza ad un dato di esperienza generalizzato,
direttamente collegato alla struttura ed alle connotazioni criminologiche della
figura criminosa in oggetto, nondimeno, l’orientamento secondo il quale la prima
presunzione, quella relativa, può essere superata soltanto in caso di dimostrata
“rescissione” del vincolo associativo sconta un’eccessiva rigidità e, soprattutto, si
pone in controtendenza rispetto alle chiare indicazioni delineate nel recente
intervento riformatore.
Giova difatti rammentare come, con la legge 16 aprile 2015, n. 47, il
legislatore abbia ancorato la restrizione ante iudicium ad esigenze cautelari
necessariamente connotate da concretezza ed attualità, abbia consentito
l’applicazione cumulativa di più misure (coercitive ed interdittive), abbia
circoscritto gli automatismi ex lege (non solo nell’art. 275, comma 3, ma anche
negli artt. 276, comma

1-bis,

e 284, comma

5-bis,

cod. proc. pen.) e,

correlativamente, ampliato gli spazi valutativi del giudice, al fine di garantire
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da porre a rischio, per comune sentire, primari beni individuali e collettivi”; ne

l'”individualizzazione” della coercizione ai pericula effettivamente sussistenti ed il
“minimo sacrificio necessario”, in ossequio al dettato costituzionale degli artt. 3,
13 e 27 Cost. ed ai principi espressi dalla Consulta e dalla Corte di Strasburgo
(ex plurimis, C. cost. n. 299/2005; CEDU sent. 2/7/2009, Vafiadis c. Grecia, e
8/11/2007, Lelièvre c. Belgio).
In tale contesto, l’operatività della presunzione di cui al combinato disposto
degli artt. 275, comma 3, cod. proc. pen. e 416-bis cod. pen., pur
costituzionalmente adeguata e “necessaria” in relazione alla gravissima
fattispecie incriminatrice, non può prescindere da un’attenta verifica del

dell’assenza di elementi – dedotti dalla parte o comunque emergenti
dall’incartamento processuale – suscettibili di superare la presunzione di
pericolosità sociale, che rende appunto inderogabile (in quanto presunzione
assoluta) l’applicazione della misura intramuraria. D’altronde, la norma di cui
all’art. 275, comma 3, ai fini del superamento della presunzione di pericolosità
per gli indiziati di appartenere ad un’associazione di stampo mafioso, richiede,
non che vi sia la prova positiva dell’avvenuta definitiva rescissione del vincolo
associativo, ma soltanto “che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari”, espressione che spetta al giudice di riempire di
contenuto, valutando, nell’ambito del proprio prudente apprezzamento, quegli
eventuali dati sintomatici, se non di una formale recisione del pactum sceleris, di
un serio, oggettivo ed irreversibile distacco dal gruppo di appartenenza.
7.5. Tirando le fila delle considerazioni che precedono, ritiene il Collegio di
dover affermare il principio di diritto secondo il quale, in tema di custodia
cautelare in carcere applicata nei confronti dell’indagato del delitto d’associazione
di tipo mafioso, l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. pone una duplice
presunzione, di pericolosità sociale, di carattere relativo, e di adeguatezza della
sola custodia in carcere, di carattere assoluto; la presunzione di pericolosità
sociale può essere superata non solo qualora sia dimostrato che l’associato ha
stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa, ma anche
quando dagli elementi a disposizione del giudice, prodotti o evidenziati dalla
parte o direttamente evincibili dagli atti, emerga una situazione che dimostri in
modo obbiettivo e concreto, comprovata da circostanze di elevato spessore,
l’effettivo allontanamento dell’indagato/imputato dal gruppo criminale, così che,
pur in mancanza di una rescissione – formale o per facta condudentia – del
vincolo associativo, si possa affermare che – come previsto dalla stessa
disposizione – “non sussistono esigenze cautelari”.
7.6. E’ ovvio che, proprio tenuto conto della specifica struttura e delle
connotazioni criminologiche di tale figura criminosa nonché delle logiche
11

presupposto (negativo) perché possa scattare l’automatismo ex lege, vale a dire

stringenti di accesso e di appartenenza alla consorteria, siffatta presunzione
potrà ritenersi superata soltanto qualora gli elementi emergenti dagli atti
processuali o dedotti dalla parte, consentano di ritenere serio, effettivo ed
irreversibile l’allontanamento dal gruppo così da poter affermare – pur in
mancanza di una rescissione del pactum sceleris

la radicale mancanza

nell’attualità di esigenze cautelari. Si pensi, ad esempio, al caso della persona
che dimostri di essersi allontanata da anni dal territorio sottoposto all’egemonia
del gruppo criminale (sia d’origine, sia delle sue propaggini al nord o all’estero) e
di avere ormai radicalmente “cambiato vita” o, ancora, al soggetto che abbia

bruciata” attorno, di tal che un suo rientro nell’organizzazione si appalesi
irrealizzabile.

8. Di tali principi non ha fatto buon governo il Tribunale del riesame là dove,
errando nel ritenere assoluta la presunzione in parola, ha svalutato le
argomentazioni sviluppate dal Tribunale di Lamezia Terme a dimostrazione del
“significativo indebolimento” dei legami del Notarianni con la cosca di riferimento
e dunque del suo irreversibile allontanamento dal gruppo.
8.1. Mette conto rimarcare che – come si legge nell’ordinanza fatta oggetto
dell’appello ex art. 310 cod. proc. peri. – il Tribunale di Lamezia Terme ha
evidenziato al riguardo: a) la circostanza che Notarianni ha condotto un’attività
di narcotraffico in autonomia dal gruppo mafioso Giampà, limitandosi a svolgere
specifici incarichi a supporto delle azioni criminali della cosca su incarico
dell’elemento apicale Giuseppe Giampà; b) il fatto che quest’ultimo ha avviato
una collaborazione con gli organi inquirenti; c) la mancanza di prova di rapporti
del Notarianni con altri esponenti della cosca; d) lo stato di detenzione di molti
esponenti della cosca Giampà; e) la decisione di altri membri della consorteria di
intraprendere un percorso di collaborazione con la giustizia.
Con una motivazione puntuale, circostanziata e convincente il primo giudice
ha dunque esplicitato specifici elementi e circostanze che, globalmente valutati,
ha stimato indicativi dell’assenza, nell’attualità, di concrete esigenze cautelari
quanto al reato associativo, in quanto dimostrativi del venire meno dei legami
del Notarianni con la cosca, veicolati attraverso una relazione privilegiata
dell’indagato con il capo cosca, cessata la quale, in assenza di evidenze quanto
alla permanenza di rapporti con altri associati ed in presenza di emergenze nel
senso della disgregazione dell’organizzazione criminosa – stante la condizione di
detenzione di molti affiliati e, soprattutto, il percorso di collaborazione con la
giustizia da molti di essi avviato -, ha congruamente stimato non più sussistenti
nell’attualità.
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avviato un percorso di collaborazione serio e così rilevante da farsi “terra

Conclusivamente, il ritenuto superamento della presunzione legale di
pericolosità si appalesa congruamente argomentato da parte del Tribunale di
Lamezia Terme sulla base di dati fattuali, precisi e circostanziati, correttamente
stimati dimostrativi, in virtù di un ragionamento inferenziale ispirato a logica e
ad una condivisibile massima d’esperienza, se non di una vera e propria
rescissione del rapporto associativo, di un concreto e non reversibile
allontanamento del ricorrente dall’associazione. Venuta meno la presunzione relativa – di pericolosità, altrettanto correttamente, il Tribunale di Lamezia ha

adeguatezza della sola custodia in carcere.
8.2. Altrettanto inappuntabile è la valutazione operata dal Tribunale di
Lamezia Terme, là dove ha stimato fronteggiabili i pericula libertatis sussistenti
con riguardo alla residua imputazione concernente gli stupefacenti con la misura
degli arresti dorniciliari.

9. L’ordinanza impugnata deve pertanto essere annullata senza rinvio, con
conseguente ripristino della misura degli arresti domiciliari applicata dal
Tribunale di Lamezia Termini con il provvedimento del 3 novembre 2015.

P.Q.M.
annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.

Così deciso il 20 aprile 2016
Il consigliere estensore

stimato venuti meno i presupposti per l’operatività della presunzione assoluta di

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