Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 2293 del 18/06/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 2293 Anno 2016
Presidente: VESSICHELLI MARIA
Relatore: PEZZULLO ROSA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CARUSO ARMANDO N. IL 25/11/1946
avverso la sentenza n. 237/2012 CORTE APPELLO di CATANIA, del
06/07/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/06/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ROSA PEZZULLO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

Data Udienza: 18/06/2015

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale, dott. Enrico Delehaye che ha concluso per il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza del 6.7.2012 la Corte di Appello di Catania confermava
la sentenza emessa dal Tribunale di Ragusa con la quale Caruso Armando era
stato condannato alla pena di euro 150,00 di multa, per il reato di minaccia,
consistita nel dire ripetutamente a Guerrieri Giancarlo, socio gestore del
ristorante denominato “Baciamolemani” di Marina di Ragusa, che avrebbe
aspettato al massimo dieci minuti, altrimenti sarebbe andato via

“o se

potere, esplicitando la propria qualità di direttore amministrativo A.U.S.L. e
richiedendo, senza che ve ne fossero i presupposti, un immediato ed accurato
intervento ispettivo, subito eseguito dal personale del S.I.A.N., che non
portava alla individuazione di alcuna irregolarità.
2. Avverso tale sentenza l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha
proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, con i quali lamenta:
– con il primo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo
comma, lett. b) ed e) c.p.p., avendo la Corte d’appello confermato la
sentenza di condanna pronunciata in primo grado nei confronti dell’imputato,
pur in mancanza della condizione di procedibilità per il reato contestato di cui
all’art. 612 c.p.; ed invero, nell’unico atto contenente le dichiarazioni del
Guerrieri, questi dichiarava semplicemente di volersi costituire parte civile e di
volere ricevere le notifiche ai sensi dell’art. 408 c.p.p., il tutto, accompagnato
da una mera narrazione dei fatti, senza un’esplicita richiesta di punizione del
colpevole in ordine ai fatti narrati, indispensabile per la volontà querelatoria
del denunciante; peraltro, detta volontà non si può desumere dal
comportamento successivo del denunciante, sicché è erronea la motivazione
della sentenza di primo grado, richiamata implicitamente dalla Corte
d’appello, nella parte in cui si desume la volontà querelatoria dal
comportamento tenuto dal denunciante in dibattimento; in mancanza di una
rituale querela i giudici di merito avrebbero dovuto emettere sentenza di non
doversi procedere per mancanza di una condizione di procedibilità, secondo il
combinato disposto di cui agli artt. 129 c.p.p., in relazione agli artt. 337 c.p.p.
e 612 c.p.;
-con il secondo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo
comma, lett. b) ed e) c.p.p., per inosservanza o erronea applicazione dell’art.
612 c.p. e per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione; in particolare, la contestazione mossa all’imputato, ossia di aver
costretto il predetto Guerrieri a tollerare l’effettuazione di un’ indebita attività

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preferisce la risolviamo in un altro modo”, nonchè nell’ostentare il proprio

ispettiva nel proprio esercizio- per futili motivi, costituiti dalla volontà di
ostentazione di potere e commettendo il fatto, con abuso dei poteri inerenti a
una pubblica funzione, non permette di configurare il reato di cui all’art. 612
c.p. e l’espressione “altrimenti la risolviamo in altro modo” non rappresenta la
prospettazione di un male futuro ingiusto, la cui verificazione dipende dalla
volontà dell’agente; invero, procedendo ad una contestualizzazione dei fatti e
dei soggetti intervenuti nella vicenda, emerge evidente l’infondatezza
dell’ipotesi d’accusa, atteso che l’imputato, pacificamente privo di caratura
criminale, a seguito di un diverbio con il ristoratore che gli aveva creato un

posto a sedere prenotato, sicchè la semplice affermazione “altrimenti la
risolviamo in altro modo” è priva di rilevanza penale e l’ingiustizia del danno
non può consistere nella mera prospettazione di una verifica di legalità, volta
ad accertare eventuali violazioni sanitarie; la mera espressione pronunciata
dall’imputato “la risolviamo in altro modo” non dimostra univocamente
alcunché, posto che può essere intesa in altro modo (ad es. altrimenti me ne
vado), sicchè la motivazione sul punto è insufficiente;
-con il terzo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606, primo
comma, lett.b) ed e) c.p.p., per inosservanza o erronea applicazione dell’art.
192 c.p.p. e, comunque, mancanza e contraddittorietà della motivazione sul
punto relativo alla attendibilità della persona offesa; in particolare,
irritualmente la prova della colpevolezza dell’imputato si poggia
esclusivamente sull’utilizzo della testimonianza della persona offesa, utilizzo
effettuato senza seguire i canoni segnati dalla giurisprudenza, sicché la
sentenza va censurata; peraltro, la violazione denunciata appare ancor più
rilevante, laddove si consideri che, con riferimento al presunto episodio di
minaccia, il dialogo in cui questa si sarebbe consumata vedeva come
interlocutori solamente il Caruso ed il Guerrieri, poiché, come si ricava dalla
sentenza, l’esame di nessun teste ha avallato la ricostruzione dei fatti indicati
in sentenza; sul punto emerge dagli atti che soltanto un testimone della
difesa (Gafà) riferisce di avere appreso dalla persona offesa di un diverbio con
l’imputato, ma nulla dice in merito alle presunte minacce.
3. In data 5.6.2015 risulta depositata memoria a firma del difensore
dell’imputato, con la quale si invoca l’esclusione della punibilità per particolare
tenuità del fatto, alla luce del sopravvenuto disposto dell’art. 131 bis c.p.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile, siccome manifestamente infondato.
1.Con il primo motivo di ricorso il Caruso ripropone in questa sede la
doglianza relativa all’assenza di una valida querela da parte della persona
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disagio, non rispettando la prenotazione, aveva semplicemente preteso il

offesa, tema al quale la Corte territoriale ha fornito corretta risposta,
ritenendo che la dichiarazione del Guerreri contenuta in denuncia di volersi
immediatamente costituire parte civile e di essere informato in merito
all’archiviazione costituiscono atteggiamento soggettivo emblematico di
finalità querelatoria. Sul punto, è sufficiente richiamare il più recente indirizzo
di questa Corte che ha ritenuto validamente integrata la condizione di
procedibilità proprio in relazione all’affermazione contenuta in denuncia di
costituirsi parte civile (Sez. 5, n. 15691 del 06/12/2013). La querela -quale
manifestazione di volontà di punizione dell’autore del reato espressa dalla

riconosciuta dal giudice anche in atti come la denuncia, che non contengono
espressamente una dichiarazione di querela e perciò una manifestazione di
volontà di punizione e ben può essere ravvisata nell’atto con il quale la
persona offesa dichiari di costituirsi parte civile, ovvero si riservi la
costituzione di parte civile (Sez. 3, n. 3155 dell’11/01/1984, Accogli, RV.
163559, si veda anche Sez. 6, n. 10585 del 21/09/1992, Porcellana, Rv.
192135; più di recente, Sez. 5, n. 43478 del 19/10/2001, Cosenza, Rv.
220259). La querela è atto a forma libera in relazione per il quale questa
Corte ha elaborato il principio del favor querelae (cfr. tra le ultime, Sez. 4, n.
46994 del 15/11/2011, Bozzetto, Rv. 251439;Sez. 2, n. 49379 del
30/11/2012, B.D., non massimata; Sez. 5, n. 23010 del 06/02/2013, L.S.,
non nnassimata), fatto proprio anche dal legislatore (artt. 120 e 122 cod.pen.)
ed in virtù di esso qualsiasi situazione di incertezza va risolta in favore del
querelante, costituendo applicazione di tale principio la costante
interpretazione che privilegia la volontà querelatoria in qualsiasi forma
espressa, al di là dell’uso di formule sacramentali. Se, dunque, il favor
querelae rappresenta quanto meno un criterio interpretativo della volontà
manifestata dalla persona offesa, non può dubitarsi del fatto che, laddove
questa manifesti l’intento di costituirsi parte civile in un procedimento penale
non ancora instaurato, sia chiara la sua volontà che quel procedimento sia
instaurato (Sez. 5, n. 15691 del 06/12/2013).
2. Manifestamente infondato si presenta il secondo motivo di ricorso,
con il quale l’imputato, a dispetto della invocata ricorrenza dei vizi di
violazione di legge e di motivazione, dai quali sarebbe affetta la sentenza
impugnata propone censure di merito, implicanti una diversa valutazione
delle risultanze processuali. Ed invero, la Corte territoriale ha dato
compiutamente conto delle ragioni per le quali il contenuto delle frasi rivolte
dal Caruso al Guerrieri, allusive al ruolo di direttore amministrativo della AUSL
dallo stesso rivestito e, quindi, alle possibili conseguenze connesse ai controlli

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persona offesa che non richiede formule particolari- può, infatti, essere

a tale ente demandati sull’esercizio commerciale, in titolarità della p.o.,
dovevano essere ricondotte nell’ambito della minaccia. Inquadramento questo
vieppiù confermato a posteriori dal fatto che il controllo (ritenuto dagli stessi
operanti intervenuti sul posto su richiesta dell’imputato non necessario)
venne, poi, effettuato. La deduzione secondo la quale nella fattispecie in
esame difetterebbe la prospettazione di un danno ingiusto, ben potendo
disporsi controlli volti ad accertare eventuali violazioni sanitarie, omette di
considerare i principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui il reato
di minaccia è reato di pericolo ed elemento essenziale di esso è la limitazione

male ingiusto possa essere cagionato dall’autore alla vittima, senza che sia
necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente, essendo
sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante, invece,
l’indeterminatezza del male minacciato, purché questo sia ingiusto e possa
essere dedotto dalla situazione contingente
(Sez. 5, n. 45502 del 22/04/2014, Rv. 261678). Ai fini della configurabilità
del reato, si richiede la prospettazione di un male futuro ed ingiusto – la cui
verificazione dipende dalla volontà dell’agente – che può derivare anche
dall’esercizio di una facoltà legittima la quale, tuttavia, sia utilizzata per scopi
diversi da quelli per cui è tipicamente preordinata dalla legge
(Sez. 5, n. 8251 del 26/01/2006) Rv. 233226).
2.1. Nel caso di specie risulta evidente, sulla base delle emergenze in
atti, come descritte nella sentenza impugnata, che l’esercizio del potere di
controllo da parte dell’imputato sul ristorante del Guerrieri, in carenza dei
presupposti che lo legittimassero con immediatezza (come comprovato dalle
dichiarazioni dei testi escussi), è stato paventato e, quindi, attuato per scopi
diversi da quelli ai quali è normalmente destinato.
3.Manifestamente infondato si presenta il terzo motivo di ricorso, circa
l’inidoneità delle dichiarazioni della p.o. a costituire valido elemento a
fondamento della responsabilità dell’imputato. Sul punto è sufficiente
evidenziare che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi,
secondo i quali le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non
trovano applicazione relativamente alle dichiarazioni della parte offesa: queste
ultime possono essere legittimamente poste da sole a base dell’affermazione
di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea
motivazione, della loro credibilità soggettiva e dell’attendibilità intrinseca del
racconto (S.U., n. 41461 del 19.7.2012; Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011,
Rv. 251661; Sez. 3, n.28913 del 03/05/2011, C., Rv. 251075; Sez. 3, n.
1818 del 03/12/ 2010, Rv. 249136; Sez. 6, n. 27322 del 14/04/2008, De
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della libertà psichica, mediante la prospettazione del pericolo che un

Ritis, Rv.240524). Il vaglio positivo dell’attendibilità del dichiarante deve
essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello generico cui vengono
sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, di talché tale deposizione
può essere assunta da sola come fonte di prova unicamente se venga
sottoposta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva, riscontro
questo che, nella fattispecie in esame, risulta compiutamente effettuato.
Inoltre, costituisce principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità
l’affermazione che la valutazione della credibilità della persona offesa dal
reato rappresenta una questione di fatto, che ha una propria chiave di lettura

sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste
contraddizioni (cfr. ex plurimis Sez. 6, n. 27322 del 2008, De Ritis, cit.; Sez.
3, n. 8382 del 22/01/2008, Finazzo, Rv. 239342; Sez. 6, n. 443 del
04/11/2004, dep. 2005, Zamberlan, Rv. 230899; Sez. 3, n. 3348 del
13/11/2003, dep. 2004, Pacca, Rv. 227493; Sez. 3, n. 22848 del 27/03/2003,
Assenza, Rv. 225232), che nella fattispecie non si ravvisano.
4. Per quanto concerne, infine, la richiesta di applicazione delle
disposizioni relative al novello art. 131 bis c.p. in materia di non punibilità per
particolare tenuità del fatto, introdotte dal Decreto Legislativo 16 marzo 2015,
n. 28 a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile
2014, n. 67, si osserva che la valutazione di tale richiesta risulta preclusa
dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso.
4.1.Prima dar conto delle ragioni di tale valutazione giova effettuare
alcune precisazioni sulla causa di non punibilità in questione, configurabile, ai
sensi del primo comma del medesimo art. 131 bis, in relazione a reati puniti
con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero con
pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, per i quali per le
modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai
sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il
comportamento risulta non abituale.
L’introduzione di tale istituto, com’è noto, ha determinato un nutrito
dibattito incentrato innanzitutto sulla sua natura giuridica e sulla possibilità di
invocarlo in relazione ai procedimenti in corso al momento della sua entrata
in vigore e, quindi, anche in sede di legittimità, non essendo prevista una
disciplina transitoria.
La prima pronuncia

di questa Corte, in proposito, si è espressa

ritenendo che l’istituto di nuova introduzione abbia natura sostanziale, con
conseguente retroattività della legge più favorevole, secondo quanto stabilito
dall’art. 2 c.p., comma 4 e che la questione della particolare tenuità del fatto
5

nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in

sia proponibile anche nel giudizio di legittimità, tenendo conto di quanto
disposto dall’art. 609 c.p.p., comma 2, trattandosi di questione che non
sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello (Sez. 3, n. 15449 dell’
08/04/2015).
4.1.1. Tali principi, del tutto condivisibili, vanno ribaditi in questa sede
con le ulteriori seguenti precisazioni. Innanzitutto, la natura sostanziale
dell’istituto di cui dell’art. 131 bis c.p. è evincibile dal riferimento a categorie
di diritto sostanziale, quali la definizione in termini di “punibilità” e non di

codice penale, che presuppone l’esistenza di un reato, giudizialmente
accertato in tutte le sue componenti, oggettive e soggettive, rispetto al quale
il legislatore ritiene di escludere la sola punibilità e, quindi, di non applicare ed
eseguire la pena, trovando altresì conferma anche nelle disposizioni di
coordinamento processuale introdotte nel c.p.p., e segnatamente nell’art.
651-bis c.p.p., che, sotto la rubrica

“efficacia della sentenza di

proscioglimento per particolare tenuità’ del fatto nel giudizio civile o
amministrativo di danno”, prevede al primo comma che la sentenza penale
irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto
in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento
della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che
l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le
restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato
e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel
processo penale.
4.1.2. Dunque, l’istituto è applicabile – una volta ritenuta la sussistenza
del fatto, la sua illiceità penale e la riferibilità all’imputato- quando il giudice,
proiettato verso l’irrogazione della pena, ritenga, invece, il fatto
giudizialmente accertato particolarmente tenue e, quindi, in quanto tale,
non punibile. Il concetto di tenuità del fatto, diverso rispetto a quello di
inoffensività, presuppone, al contrario, che il fatto sia offensivo, ma che quel
tipo di offesa possa essere in concreto ritenuta di particolare tenuità.
4.1.3. Con la pronuncia richiamata (Sez. 3, n. 15449 dell’ 08/04/2015),
questa Corte condivisibilmente ha di fatto superato il possibile profilo di
criticità, scaturente dalla circostanza che in sede di approvazione definitiva
del testo legislativo, è stata eliminata tutta la parte relativa all’art. 129 c.p.p.,
e l’attuale formulazione letterale di tale ultima norma non contempla l’obbligo
di immediata declaratoria in ogni stato e grado del processo di una causa di
non punibilità e specificamente di una causa di non punibilità per la particolare
tenuità del fatto.
6

“procedibilità”, e dalla sua collocazione, nel capo I, Titolo V del libro I del

4.1.4. La giurisprudenza di questa Corte, invero, quantunque non abbia
nel corso degli anni espressamente avallato, con pronunciati delle S.U.,
interpretazioni estensive delle formule contenute nell’art. 129 c.p.p., in
diverse pronunce di più sezioni è stata di fatto pacificamente ammessa la
declaratoria di cause di non punibilità ai sensi della medesima disposizione
non testualmente previste (cfr. Sez. 6, n. 15955 del 01/03/2001,
Rv. 218875, secondo cui, fra le cause di non punibilità previste dall’art. 129,
comma 2, cod. proc. pen., rientra anche il fatto non punibile per l’esistenza di
una scrinninante, atteso che la formula

«perché il fatto non costituisce

punibilità; Sez. 5, n. 25155 del 15/02/2005, Rv. 231896, secondo cui la
causa di non punibilità può essere riconosciuta anche in sede di legittimità, ai
sensi dell’art. 129 cod. pen., sulla base delle circostanze di fatto appurate dal
giudice del merito).
4.1.5. Per l’apprezzamento, poi, della sussistenza delle ulteriori
condizioni di legge per l’esclusione della punibilità, il giudice di legittimità stante i limiti del suo giudizio- non può che basarsi su quanto emerso nel
corso del giudizio di merito tenendo conto, in modo particolare, della
eventuale presenza, nella motivazione del provvedimento impugnato, di
giudizi già espressi che abbiano pacificamente escluso la particolare tenuità
del fatto, riguardando, la non punibilità, soltanto quei comportamenti (non
abituali) che, sebbene non inoffensivi, in presenza dei presupposti
normativamente indicati risultino di così modesto rilievo da non ritenersi
meritevoli di ulteriore considerazione in sede penale (Sez. 3 n. 15449 del
08/04/2015).
4.2. Sulla base di tutto quanto evidenziato,

una volta ritenuta la

possibilità di rilevare in sede di legittimità la causa di non punibilità di cui
all’art. 131 bis c.p., non essendo a ciò di ostacolo la natura del giudizio per
cassazione, occorre verificare se sia possibile rilevare la causa di non
punibilità nel caso in cui il ricorso per cassazione si presenti inammissibile.
Al quesito, come premesso, deve darsi risposta negativa.
4.2.1. Depongono senz’altro per tale interpretazione i principi più volte
affermati da questa Corte a S.U., secondo cui l’inammissibilità del ricorso per
cassazione, dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il
formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, ogni
possibilità di dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod.
proc. pen. (Sez. Un., n. 32 del 22/11/2000 Rv. 217266), sia nel senso di
farle valere, sia di rilevarle di ufficio (Sez. Un., n. 23428 del 22/03/2005).

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reato» comprende tutte le ipotesi – generali e speciali – di esclusione della

,
L’inidoneità di un ricorso inammissibile a costituire il rapporto giuridico
processuale di impugnazione rende, quindi, irrilevante lo “ius superveniens”,
più favorevole, che, appunto, non può essere rilevato.
4.2.2. Né può ritenersi che, nel caso di specie, si verta in un’ipotesi di
abolitio criminis che risulterebbe rilevabile, comunque, in questa sede, oltre
che innanzi al giudice dell’esecuzione ex art. 673 cod. proc. pen.
Ed invero, come evidenziato in premessa, nel caso di specie, il reato
sussiste e la non punibilità per la particolare tenuità è applicabile solo all’esito
della verifica della sussistenza del fatto e della sua illiceità penale, come

ritenersi configurabile nella fattispecie una situazione riconducibile a quella
contemplata dall’art. 673/1 c.p. comportante la revoca della sentenza “perché
il fatto non è previsto dalla legge come reato”.
5. Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, trattandosi di causa
di inammissibilità riconducibile a colpa del ricorrente al versamento, a favore
della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo
determinare in Euro 1000,00, ai sensi dell’art. 616 c.p.p.
p.q.m.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa
delle ammende.
Così deciso il 18.6.2015

emerge chiaramente dal disposto dell’art. 651-bis c.p.p., sicchè non può

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