Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 22818 del 15/04/2016


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 22818 Anno 2016
Presidente: FIDELBO GIORGIO
Relatore: RICCIARELLI MASSIMO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
Marsalone Rocco, nato a Palermo il 06/40/1950

Avverso l’ordinanza dell’08/01/2016 (dispositivo depositato 111/01/2016) del
Tribunale di Palermo

Visti gli atti, l’ordinanza impugnata e il ricorso,
Sentita la relazione svolta dal consigliere Massimo Ricciarelli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Luigi
Birritteri, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso
Udito il difensore, Avv. Maurizio Di Marco, che ha chiesto l’accoglimento del
ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con decisione indicata come assunta 1’8/1/2016, secondo il dispositivo
depositato in data 11/1/2016, il Tribunale di Palermo ha confermato in sede di
riesame l’ordinanza con cui il G.I.P. di quel Tribunale in data 19/12/2015 ha
applicato a Marsalone Rocco la misura cautelare della custodia in carcere in
relazione ai reati di partecipazione all’associazione mafiosa denominata Cosa

Data Udienza: 15/04/2016

Nostra, nell’ambito della famiglia mafiosa di Palermo Centro, e di estorsione
aggravata in danno di Butera Maria Rosa e di Battaglia Giovanni, fatti commessi
fino all’attualità.

2. Ha presentato ricorso il Marsalone tramite il proprio difensore.
2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 416bis cod. pen. e all’art. 273 cod. proc. pen., agli effetti dell’art. 606, comma 1,

Il Tribunale aveva emesso un provvedimento viziato da mancanza di
motivazione, in quanto si era limitato per gran parte a far rinvio al
provvedimento cautelare, senza aggiungere nulla e senza valutare
l’interrogatorio reso dal Marsalone.
Inoltre era stata pretermessa una motivazione riferibile alla censura
concernente la mancanza di effettive chiamate in correità, a fronte del fatto che
dalle propalazioni di Gravagna e Galatolo non emergeva l’intraneità del
Marsalone al sodalizio.
I collaboratori di giustizia avevano invero riferito fatti e circostanze non
oggetto di contestazione e inoltre non era stato indicato un preciso arco
temporale da collegare eziologicamente con il periodo in contestazione, fermo
restando che il riferimento alla carriera criminale del ricorrente non aveva a che
fare con la contestazione.
Indebitamente era stato menzionato l’episodio del pestaggio di Bertolino
Salvatore, di cui era stata segnalata l’incerta causale.
Peraltro era mancata l’individuazione di elementi desunti da

facta

concludentia tali da suffragare la stabile partecipazione al sodalizio.
2.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt.
629, comma secondo, 628, comma terzo n. 3, cod. pen., e 7 legge 203 del
1991, agli effetti dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.
Relativamente al fatto estorsivo vi erano le sole dichiarazioni di Gravagna.
In ogni caso era stata contestata l’aggravante di cui all’art. 7 legge 203 del
1991 sia con riferimento al fatto di essersi avvalsi delle condizioni previste
dall’art. 416-bis cod. pen. sia con riferimento al fine di agevolare Cosa Nostra,
ciò in violazione di legge, trattandosi di ipotesi tra loro alternative.
Peraltro l’uso del metodo mafioso era stato anche dedotto
contraddittoriamente da minacce che non si palesavano in tale ipotesi.
Inoltre il Tribunale aveva omesso di valutare la doglianza inerente alla
mancata escussione delle persone offese.

2

lett. b) ed e), cod. proc. pen.

3. Il difensore del ricorrente ha presentato memoria con un motivo
aggiunto.
Deduce violazione degli artt. 306, 309, comma 10, 172 cod. proc. pen., 5
C.E.D.U., 13 Cost.
Poiché conformemente a recente pronuncia della Corte di cassazione si
sarebbe dovuto aver riguardo alla data della decisione, come indicata nel

sarebbe dovuta rilevare la sopravvenuta inefficacia della misura cautelare, in
quanto la motivazione del Tribunale era stata depositata in data 9/2/2016, cioè
oltre il termine di giorni 30 dalla decisione, che nel dispositivo depositato
1’11/1/2016 era indicata nell’8/1/2016.
In caso di mancato accoglimento del motivo e di diverso avviso rispetto a
quello espresso nella richiamata sentenza della Corte di cassazione, viene chiesta
la trasmissione degli atti alle Sezioni Unite.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

2.

In primo luogo è generico il rilievo concernente la mancanza di

motivazione, in quanto il Tribunale si sarebbe limitato a richiamare l’ordinanza
genetica senza tener conto dell’interrogatorio del Marsalone.
Va sul punto osservato che «in tema di misure cautelari personali, non è
affetta da vizio di motivazione l’ordinanza del tribunale del riesame che conferma
in tutto o in parte il provvedimento impugnato, recependone le argomentazioni,
perchè in tal caso i due atti si integrano reciprocamente, ferma restando la
necessità che le eventuali carenze di motivazione dell’uno risultino sanate dalle
argomentazioni utilizzate dall’altro» (Cass. Sez. 6, n. 48649 del 6/11/2014,
Beshaj, rv. 261085).
D’altro canto non è in alcun modo chiarito nel ricorso in che misura le
dichiarazioni del Marsalone incidessero significativamente sulla valutazione del
quadro indiziario, disarticolando il giudizio contenuto nell’ordinanza genetica
prima e in quella del Tribunale poi.
3. E’ inoltre manifestamente infondato l’assunto secondo cui non sarebbe
stata considerata la mancanza di effettive chiamate in correità.
Ed invero il Tribunale, oltre a richiamare l’ordinanza genetica, ha posto in
luce che il Marsalone era raggiunto dalle dichiarazioni, convergenti e precise,

3

dispositivo, e non a quella di deposito di quest’ultimo, nel caso di specie si

oltre che intrinsecamente credibili e oggettivamente attendibili, rese dai
collaboratori Gravagna e Galatolo.
Il primo aveva segnalato di aver appreso da soggetti specificamente
individuati che il Marsalone faceva parte dell’associazione mafiosa e si era
occupato di contrabbando di sigarette e di traffico di stupefacenti, oltre ad aver
partecipato ad attività estorsive, contribuendo a risolvere questioni connesse al

Il secondo aveva rivelato che il Marsalone aveva operato all’interno della
famiglia di Porta Nuova, occupandosi di traffico di stupefacenti e di estorsioni.
D’altro canto il Tribunale ha altresì osservato che erano stati accertati
incontri e frequentazioni dell’indagato con altri soggetti inseriti nel sodalizio, a
cominciare da Calcagno Paolo, a carico del quale pendeva l’accusa, sostenuta da
gravità indiziaria, di aver diretto il mandamento di Porta Nuova.
A tale stregua, in conformità con quanto dedotto nella contestazione
provvisoria, è stato individuato un ruolo dinamico e funzionale del Marsalone (si
rinvia per il significato da attribuire alla partecipazione al sodalizio a Cass. Sez.
U. n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, rv. 231670), tale da connotare il suo
prender parte all’associazione mafiosa, in concreto suffragato da plurimi,
convergenti elementi, capaci di saldarsi tra loro, costituendo le dichiarazioni del
Galatolo preciso riscontro individualizzante rispetto a quelle del Gravagna agli
effetti dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen.
Peraltro solo ad abundantiam era stato richiamato anche il pestaggio di tal
Bertolino, sebbene ne fosse rimasta oscura la causale.

4. Prive di specificità e comunque manifestamente infondate solo le censure
rivolte alla configurabilità del delitto di estorsione, aggravato ex art. 7 legge 203
del 1991.
In primo luogo non è vero che il quadro indiziario dell’estorsione in danno di
Butera Maria e di Battaglia Giovanni, titolari del Lido Battaglia, sia sorretto solo
dal racconto del Gravagna, peraltro, come segnalato dal Tribunale, logico e
coerente, anche perché basato su circostanze vissute personalmente: risulta
infatti che almeno due conversazioni intercettate, che hanno visto come
protagonista il Marsalone, hanno nitidamente chiarito il ruolo di quest’ultimo,
volto a farsi consegnare una somma di denaro nel quadro del patto estorsivo,
con l’ammonimento da lui rivolto che era necessario per evitare che lui stesso
incorresse in guai seri, il che valeva ad evocare la forza incombente del gruppo
per il quale agiva.

4

relativo pagamento.

In secondo luogo è del tutto infondato l’assunto secondo cui le ipotesi
contemplate dall’art. 7 legge 203 del 1991 siano alternative, essendo invece
possibile che l’uso del metodo mafioso si affianchi alla finalità di agevolare il
sodalizio.
Nel caso di specie peraltro il Tribunale, oltre a far riferimento ad una
richiesta estorsiva nell’interesse della famiglia mafiosa, ha comunque posto

nell’evocare la forza di intimidazione espressa da coloro ai quali il Marsalone
avrebbe dovuto rispondere, ciò che valeva a rafforzare la capacità di persuasione
della vittima, posta di fronte alle pretese dell’organizzazione criminale.
E’ del tutto ininfluente in questa fase la circostanza che non fossero state
previamente escusse le persone offese, a fronte del quadro indiziario comunque
suffragato dagli elementi posti in evidenza.

5. Il motivo aggiunto è parimenti inammissibile.
5.1. Va infatti rilevato in generale che i nuovi motivi, anche quando si tratta
di procedimenti camerali, « devono avere ad oggetto i capi o i punti della
decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di gravame ai
sensi dell’art. 581, lett. a), cod. proc. pen.» (Cass. Sez. U. n. 4683 del
25/2/1998, Bono, rv. 210259).
Nel caso di specie il tema proposto con il motivo nuovo, riguardante
l’inefficacia della misura derivante dal fatto che la motivazione dell’ordinanza
emessa dal Tribunale sarebbe stata depositata dopo che era trascorso il
trentesimo giorno dalla decisione, non si ricollega ad alcuno dei punti o capi
oggetto dell’originario ricorso.
D’altro canto non è significativo di per sé il fatto che venga in rilievo
l’efficacia della misura, giacché si tratta di profilo endoprocedimentale, che deve
essere valutato secondo le scansioni all’uopo previste.
Deve infatti richiamarsi l’ancora attuale arresto della Corte di cassazione
secondo cui «l’omissione, da parte del giudice del riesame, della pronuncia,
anche d’ufficio, della sopravvenuta perdita di efficacia della misura cautelare ai
sensi dell’art. 309, comma 10, cod. proc. pen., costituisce un vizio della
decisione che, come tale, può essere fatto valere esclusivamente con il ricorso
per cassazione nell’ambito del procedimento “de libertate” e non anche con la
richiesta di declaratoria dell’inefficacia della misura rivolta al giudice del
procedimento principale. (Nell’occasione la Corte ha altresì precisato che nel
giudizio di legittimità la predetta omissione, in quanto vizio della decisione, non
può essere rilevata d’ufficio ma solo se denunciata con uno specifico, ancorché
5

correttamente in luce il metodo in concreto utilizzato, risoltosi proprio

unico, motivo di impugnazione)» (Cass. Sez. U. n. 14 del 31/5/2000, Piscopo, rv.
216261).
5.2. Deve peraltro osservarsi che anche nel merito la deduzione difensiva
non convince.
E’ noto che ai sensi dell’art. 309, comma 9, cod. proc. pen., entro dieci
giorni dalla ricezione degli atti il tribunale se non deve dichiarare l’inammissibilità
della richiesta, annulla, riforma o conferma l’ordinanza oggetto del riesame.

sostituito dall’art. 11 legge 47 del 2015, se la decisione sulla richiesta di riesame
o il deposito dell’ordinanza del tribunale in cancelleria non intervengono nei
termini prescritti, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia.
D’altro canto la norma stabilisce che l’ordinanza del tribunale deve essere
depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la
stesura della motivazione sia particolarmente complessa, ipotesi nella quale il
giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, non eccedente il
quarantacinquesimo giorno dal quello della decisione.
Viene in tal modo delineato un sistema bifasico che prevede dapprima un
termine per la decisione e poi uno specifico termine per il deposito
dell’ordinanza.
5.3. Nel caso di specie il Tribunale ha depositato il dispositivo il giorno
11/1/2016, facendo riferimento ad una decisione dell’8/1/2016, e ha depositato
la motivazione il 9/2/2016.
Orbene, l’assunto che debba aversi riguardo alla decisione, a prescindere dal
deposito del dispositivo, non può condividersi.
Ed invero in assenza del formale deposito non esiste alcuna decisione, la
quale deve uscire dalla disponibilità del giudice ed essere esteriorizzata con
modalità tali da conferirle certezza legale.
Ciò vale per ogni tipo di decisione e non può a tal fine darsi rilievo al fatto
che l’art. 309, comma 10, cod. proc. pen., parli della decisione senza ulteriori
specificazioni.
Vuol dirsi cioè che la decisione in tanto è riconoscibile e produttiva di effetti
giuridicamente apprezzabili, in quanto sia formalizzata e resa conoscibile,
uscendo dalla disponibilità del giudice.
Del resto, diversamente opinando, dovrebbe giungersi ad escludere il vano
decorso del primo termine di dieci giorni, previsto per la decisione,
semplicemente indicandosi in un dispositivo depositato dopo il decimo giorno una
data di decisione anteriore alla scadenza di quel termine, il che non potrebbe in
alcun modo accogliersi.
6

/n-

E’ noto altresì che ai sensi dell’art. 309, comma 10, cod. proc. pen., come

Ma nel contempo deve valere anche l’ipotesi opposta, nel senso che non
possa darsi rilievo ad una qualsiasi data di decisione, prima del formale deposito,
idoneo a conferirle il crisma della certezza.
D’altro canto proprio nel dispositivo, debitamente formalizzato e depositato,
deve indicarsi il più lungo termine per il deposito della motivazione, correlato alla
complessità della vicenda, il che vale a confermare il rilievo essenziale di quel
primo deposito.

sentenza della Corte di cassazione allegata al motivo nuovo (Cass. Sez. 2, n.
4961 del 26/1/2016, Gentile, non massimata).
Da ciò discende che nel sistema delineato dalla novella occorre il deposito
del dispositivo entro 10 giorni e poi il deposito dell’ordinanza recante la
motivazione entro il termine di trenta giorni da quel primo deposito.
In concreto l’ordinanza risulta tempestivamente depositata il 9/2/2016, a
fronte di dispositivo depositato in data 11/1/2016.

6. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e,
in relazione ai profili di colpa sottesi alla causa di inammissibilità, a quello della
somma di euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso il 15/4/2016

In tale prospettiva non sembrano condivisibili i rilievi contenuti nella

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